Andrea Vianello, direttore Rai Radio 1
“Raccontare la malattia e la disabilità senza pietismi”
“Ho avuto la fortuna di lavorare con Alessandra in un periodo importante della mia carriera a “Mi manda Raitre”, un programma che cercava di aiutare i fragili che non avevano voce, quindi, un programma sicuramente fondante, in un periodo in cui il nostro Paese aveva bisogno che ci fosse la possibilità di alzare un po’ la voce … e quindi, il fatto di averla conosciuta, di vederla ogni giorno, di vedere quanto fosse bella e molto forte, è stato per me un privilegio. Sono molto contento e orgoglioso del fatto che le nostre due vite si siano intrecciate, anche se per poco tempo. Come dice il sottotitolo del nostro incontro, dobbiamo raccontare le malattie rare, in particolare, ma insomma, direi anche le malattie in generale. Dopo un tempo molto particolare che è quello della pandemia e della guerra, il nostro mondo improvvisamente è cambiato.
Da un momento all’altro la pandemia ci ha fatto capire quanto sia importante la Sanità pubblica. Un po’ lo avevamo dimenticato. Anche noi, come giornalisti, parlavamo di Sanità pubblica soprattutto per evidenziarne gli errori, per dire che c’erano problemi di prenotazioni o di code. Abbiamo capito, in realtà, che un Paese forte ha bisogno di una Sanità forte e che noi ce l’avevamo, ce l’abbiamo. Nell’ultima campagna elettorale non mi pare che la Sanità sia stata un tema centrale. Credo che sia un errore enorme. Se c’era una cosa che pensavamo di aver imparato e cioè che non si può fare politica, vivere e raccontare il mondo senza partire da una Sanità pubblica forte … bene … incredibilmente ce lo siamo dimenticato … o meglio, se lo sono dimenticato i politici di destra, di sinistra, di centro e tutti quelli che hanno partecipato all’ultima campagna elettorale. Spero che adesso se lo ricorderanno. Ecco, sono rimasto molto colpito, perché vuol dire che abbiamo predicato al vento come giornalisti e forse un pochino su questo dobbiamo fare un mea culpa. Nei prossimi mesi dovrò fare più domande ai politici, rispetto a che modello di Sanità vogliamo avere in questo Paese. Abbiamo capito, per esempio, che alcune Regioni che pensavamo essere molto forti, in realtà avevano una Sanità principalmente privata, magari fortissima, ma la pubblica era stata dimenticata. La Sanità sarebbe stata un tema molto più importante rispetto ad altri al centro del nostro acceso dibattito politico. Anche io ho un’esperienza personale e la voglio mettere sul tavolo, altrimenti sarei ipocrita. Ho fatto il conduttore, faccio il giornalista e ho avuto la fortuna di fare un mestiere bellissimo, soprattutto lo faccio nel servizio pubblico. Chi lavora in Rai con serietà sa che cosa significa, conosce il nostro approccio alle cose. Abbiamo sempre cercato di dare voce al mondo della malattia, anche con l’aiuto di alcune associazioni come Telethon. C’è stata sicuramente una consapevolezza importante. Poi anch’io, improvvisamente, sono diventato fragile: ho avuto una crisi prima che arrivasse la pandemia, nel senso che ho avuto un ictus, una dissecazione della carotide, mi hanno operato e mi sono svegliato che grazie a Dio ero vivo. Ero ancora in questo mondo, con i miei tre figli e con mia moglie. Insomma, avevo già avuto una bella vita e per me questo era importante. Poi, però, non riuscivo più a parlare. Non so fare quasi niente, neanche mettere una lampadina, l’unica cosa che so fare è parlare. La malattia aveva colpito proprio quella che era la mia forza. Ero diventato fragile, come Superman quando entra in contatto con la criptonite. Mi chiedevo dove sarei andato a finire senza la parola, io che ero una parola vivente. Cosa succede dopo? Succede, appunto, che vivi e che trovi forze che neanche immagini di avere. La forza sicuramente te la dà, magari, il fatto che hai una famiglia, ti resta ancora la voglia di vivere, di poter dare una mano. In questo modo ne sono uscito. È chiaro che ne sono uscito più fragile e più debole. Per oggi, ad esempio, non ho scritto niente, perché se leggessi a voce alta potrei commettere errori. Poi dipende dai giorni. Insomma, il danno c’è stato, ma il cervello trova altre strade, ci mette un po’ a capire come farlo ma poi la trova. Adesso sono passati tre anni e mezzo. Ma oggi, appunto, prima di venire da voi, per leggere a voce alta, sono andato a fare la mia lezione di logopedia. Ho fatto un sacco di errori nel leggere un articolo di Repubblica. Dovevo leggere delle “non parole”. Non so se sapete cosa siano: sono una cosa terribile, parole finte che vengono usate proprio per chi deve ritrovare la gestione del linguaggio (il cervello che riconosce le parole deve imparare a riconoscere, per leggere, anche le non parole, ndr). Dopo tre anni e mezzo, però, posso dire che in realtà sono molto fortunato … e soprattutto non mi sento fragile. So soltanto di essere meno forte di prima da un punto di vista fisico, ma allo stesso tempo non mi sento di essere migliore. Non credo alla retorica che la malattia ci faccia diventare migliori. Credo di essere un uomo più profondo, con un rapporto un po’ più stretto con il vero me stesso, un rapporto che si perde un po’ nella vita, nella carriera, nell’orgoglio. Ma non sono migliore. Sono solo più forte di prima … e soprattutto non mi nascondo. Una cosa importante nella malattia è il non nascondersi. Sono cose che succedono. Alcuni, come Alessandra, hanno avuto una vita segnata. Ma lei era una donna così luminosa dentro di sé! La cosa più importante è la luce che abbiamo dentro di noi. Non so se adesso ho più luce, ma sicuramente ho un’anima più accesa, più consapevole della bellezza di questa vita che è anche sofferenza. Credo che una delle cose che mi porto da questa esperienza, anche nel lavoro che faccio è di raccontare la malattia senza nascondere le persone. Ho scritto un libro, ad esempio, su questa mia storia e l’ho fatto proprio perché volevo raccontarla, perché è il mio lavoro e perché non ho niente da nascondere. Non è stata colpa mia. A volte chi ha avuto una malattia pensa che sia una colpa propria, invece non è colpa di nessuno. Succede e quindi non lo dobbiamo nascondere, anzi, è un pezzo della nostra vita che sicuramente sarebbe meglio non aver vissuto, ma con cui si deve fare i conti. Avere il coraggio di pronunciare “ictus”, una parola che fa molta paura, è importante. Abbiamo evitato di dire per tanti anni “cancro”, ma adesso abbiamo superato questo blocco. Sto cercando di fare la stessa cosa con la parola ictus. In fondo lo capisco: è difficile parlare dell’ictus, che è la terza causa di morte e la prima causa di disabilità in questo Paese. Se ne parla pochissimo, perché ne abbiamo paura. Ha paura chi non l’ha avuto e soprattutto noi che ci siamo passati. C’è poi la paura di dire: tu sei quello dell’ictus. Ma io non sono quello dell’ictus. Io ho avuto un ictus. Credo che la cosa più importante sia sdoganare questa parola, sia raccontare che cos’è una malattia, come prevenirla, come gestirla. Aiutare le famiglie, che sono importanti in queste situazioni e soprattutto aiutare noi stessi. Non bisogna pensare che la nostra vita è finita, che è diversa da prima. Certo, a volte è diversa da prima, ma l’anima rimane la stessa. Il senso di quello che ho cercato di fare in questi tre anni e mezzo, a metà tra un lavoro che mi impegna, grazie a Dio fortemente e il ruolo di presidente di Alice, l’associazione nazionale per la lotta all’ictus, è quello di dare, appunto, un piccolo contributo non da medico, ma da paziente e da giornalista comunicatore. Essere un po’ come un piccolo portabandiera di una grossa comunità composta da chi è stato colpito da un fulmine che quando arriva rompe il nostro motore. Quando è uscito il libro, è entrata nella mia stanza una giovane donna che lavora in Rai, per chiedermi una dedica. Non la conoscevo. Aveva 24 anni ed era stata colpita da un ictus quando era molto più giovane. Me lo ha raccontato. Ragazza molto bella, molto carina e dolcissima. Mentre parliamo entra una collega nella mia stanza e mi accorgo che la ragazza ha subito nascosto la sua mano. L’ictus a me ha colpito la parola. A quella ragazza giovane e bella, dell’ictus le era rimasto un problema alla mano, un pugno chiuso. Quando è uscita la collega, ho chiesto alla ragazza perché avesse così paura di far vedere la sua mano. Lei mi ha detto che ci pensa tutto il giorno. Ho provato a farle capire che è una ragazza giovane e bella e che non deve pensare a quella mano, quindi, le ho scritto una dedica sulla copia del libro, ricordandole che è molto bella. Tutti i giorni, prima della pandemia, entravo nella sua stanza a ricordarle quanto fosse bella. Non so se questa difficoltà le sia rimasta, anche perché non ci siamo visti per un po’ per via della pandemia. Anche Alessandra era una ragazza bellissima. Di lei ricordo che era molto bella e piena di luce, che è la forza non di chi è fragile, ma di chi è consapevole della sua anima”.