DONATELLA PACELLI – Docente LUMSA- Vice Presidente della Fondazione Alessandra Bisceglia
Siamo qui per testimoniare la convinzione che non bisogna mai allentare l’attenzione nei confronti di temi sensibili, nei confronti di problemi sociali, nei confronti di una comunicazione non rispettosa di questi problemi.
Un ringraziamento a tutti coloro che hanno creduto in questo importante progetto: l’Università Lumsa, che è stata l’Università di Alessandra Bisceglia e che ringrazio per la vicinanza costante al progetto della Fondazione di valorizzazione e di formazione, due binari che la Fondazione porta avanti contestualmente.
Ringraziamo Lumsa nel nome e nella persona del professor Francesco Bonini, Magnifico Rettore sempre molto vicino alla Fondazione e convinto assertore dell’importanza di un progetto che riesce a essere anche un momento di formazione grazie all’Ordine dei Giornalisti, che lo riconosce utile per l’acquisizione dei crediti formativi.
Un grazie speciale in questa particolarissima edizione, inoltre, all’Istituto Luigi Sturzo, che ospita questo evento durante il quale conferiamo il Premio Giornalistico per la comunicazione sociale che porta il nome di Alessandra Bisceglia; ringraziamo tutta la struttura e in particolare Sergio Maria Battaglia, Segretario Generale del Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo.
Il Premio ha il nome di Alessandra Bisceglia perché rispetta e testimonia il suo approccio alla professione, il suo modo di entrare con competenza e sensibilità nei temi, nonostante la sua giovane età.
Questo premio è un tassello delle tante cose che fa la Fondazione: da più di 10 anni, nel nome di Alessandra, insiste sulla ricerca per le malattie rare, per le patologie vascolari in modo particolare, cerca di portare avanti l’attività di sostegno e di attenzione alle famiglie che vivono questi problemi, cerca di aiutare nella formazione per valorizzare l’autonomia possibile, per garantire un’armonia tra la situazione creata dalla malattia e la qualità della vita.
Percorsi importanti che trovano coerenza nell’ attività del Premio, rivolta alla valorizzazione dei giovani giornalisti che si impegnano nei temi che fanno comunicazione sociale, perché l’ambito della comunicazione sociale ha confini molto labili: facciamo fatica a dare delle definizioni univoche e precise, sappiamo che è la comunicazione che si mette al servizio del sociale, attenta al sociale, alla società civile che fa democrazia, che guarda all’equità e cerca di contrastare il disagio.
Una comunicazione sociale che rema contro il virus dell’indifferenza che pervade la società, pervade la cultura e a volte si riflette anche nell’informazione, che combatte quella cultura dello scarto come, con grande efficacia, dice Papa Francesco.
Sono due espressioni del nostro Pontefice, che con sapienza e sensibilità ci ha riportato davanti ai problemi della ineguaglianza e della nostra miopia rispetto ai problemi che attraversano molte persone.
Quindi la comunicazione sociale sfida il giornalismo: il giornalismo è un buon giornalismo se sa fare anche comunicazione sociale, se sa entrare in quelle che un autore a me caro, Theodor Adorno, chiama le “crepe del sociale” e se sa intercettare questioni che fanno narrazione del disagio ma anche contro-narrazione, dando luce ai traguardi che pure chi vive in situazioni difficili può porsi e magari riesce a superare con la tenacia che, come ci ha insegnato Alessandra Bisceglia, appartiene a chi conosce le situazioni più difficili.
Allora, quando in un’epoca pre-Covid abbiamo cominciato a lavorare su questa edizione del premio e immaginato che il momento della premiazione come sempre dovesse essere anticipato da un dibattito scientifico, e quindi da un momento di formazione, in linea di continuità anche con le precedenti edizioni, abbiamo ripreso il grande problema delle “parole giuste”. Abbiamo detto: “trovare le parole giuste significa anche trovare i temi giusti e avvicinarli con competenza”. E quindi significa anche contrastare gli elementi che vanno a impoverire il dibattito pubblico, “hate speech”, linguaggio delle iperboli -non è certo ascrivibile a una scelta comunicativa adeguata- e fake news. Oggi facciamo i conti con una situazione emergenziale e questo titolo, “Quando le fake news fanno più male”, torna di estrema e drammatica attualità.
La pandemia, gravissimo problema sanitario, ha creato anche disagio sociale e culturale per il tipo di comunicazione e informazione che ha circolato su scala mondiale. Le fake news fanno male sempre perché alimentano la famosa post-verità della quale non avevamo bisogno, ma fanno particolarmente male in alcuni contesti.
A proposito di parole che sono balzate all’attenzione della nostra contemporaneità abbiamo un nuovo termine: infodemia. La Treccani lo ha messo tra i suoi neologismi: va proprio a stigmatizzare questo sovraccarico di informazioni spesso non valutate con competenza e con pazienza che creano disorientamento, non aiutano il cittadino.
Ringraziamo soprattutto i giovani che hanno risposto al bando e che fin dalla prima edizione del premio hanno testimoniato una competenza e una capacità di entrare nei temi sensibili che rincuorano.
Saranno premiati quelli che a nostro modesto giudizio sono stati particolarmente meritevoli, nella consapevolezza che tutti i partecipanti meritano, insieme alle testate giornalistiche che, pubblicando i loro articoli, dimostrano attenzione.
Ma noi parliamo ai giovani, ai giovani di oggi e di domani, a chi si sta formando sui temi del giornalismo e quindi con molta convinzione andiamo avanti nel portare la nostra attenzione nei confronti di “maglie” che si allargano: le fake news che seguitano a uscire, che seguitano a far male, ad essere terribilmente attrattive. Sembra che siano più seguite delle notizie vere, a quanto pare sono costruite ad arte per questo.