Camilla Orsini, 27 anni, giornalista professionista e pianista diplomata al conservatorio. Dopo il praticantato alla Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia, attualmente è videomaker per il programma di approfondimento Tagadà di La7. Ha collaborato anche con Il Messaggero, Wired ed è stata stagista per Mediaset, La Repubblica e Tg1.
Camilla ci racconta che partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata sicuramente una sfida ma anche una grande opportunità: “Chi opera nell’ambito della comunicazione sociale in qualche modo riesce a diventare più sensibile, più attento, più disponibile. Credo siano qualità indispensabili per qualsiasi giornalista. Inoltre oggi esistono così tante testate con così tante specializzazioni che è difficile pensare che la comunicazione sociale non riesca a trovare un proprio spazio. Ultimamente ci sono state buone iniziative sul tema, penso al ritorno de Il Paese sera e ancor prima all’inserto del Corriere della Sera Buone notizie. Ma più in generale, penso sicuramente si possa fare di più: c’è tutto un mondo che aspetta di essere raccontato”.
Chiediamo a Camilla se le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?
Camilla ci risponde che in alcuni casi, soprattutto in settori così specifici, capita di imbattersi in linguaggi settoriali che proprio non possono essere evitati. “Ad esempio in campo medico, quando raccontiamo la storia di una persona affetta da una determinata malattia, è necessario usare le parole giuste, anche quelle che sembrano più difficili da comprendere. Sta poi al giornalista il compito di affiancargli una giusta spiegazione, scegliendo bene le parole e facendo attenzione che il messaggio sia comprensibile a tutti”.
Alla domanda se le testate, oggi, siano prodotti meramente commerciali o servizi pubblici il parere di Camilla è che l’una cosa non esclude l’altra. “Esistono testate puramente commerciali che si basano sui click e sulle notizie tendenziose e testate che fanno del giornalismo una vocazione, che lo vedono come un servizio pubblico a disposizione degli altri. È giusto ricordare che effettivamente il giornalismo prima di tutto è questo, e che non dovrebbe mai abbassarsi a sottostare alle regole di mercato. Nemmeno nei momenti di crisi”.
E conclude: “Ancora oggi, infatti, il buon giornalista è quello che non si ferma ai dati ma cerca sempre di parlare con le persone, di raccontare le loro storie. È chi ascolta, osserva e poi, con umiltà e pazienza, continua a fare domande, anche quelle più scomode. Chi crede che una giusta informazione sia non solo fondamentale per la società, ma anche e soprattutto un diritto irrinunciabile per tutte le persone”.