Intervista ad Alvise Losi

Alvise Losi, giornalista, viaggiatore, milanese. In ordine sparso. Mi sono formato alla scuola di giornalismo “Walter Tobagi” dell’Università degli Studi di Milano e dal 2012 sono professionista. Ho accumulato esperienza in diversi settori durante i miei primi anni da freelance, grazie a collaborazioni con varie testate, principalmente carta e web, e a esperienze interne ad alcune redazioni. Musica, cultura, enogastronomia, ma anche politica, ambiente e sociale. Nel 2015 ho partecipato al concorso pubblico indetto dalla Rai e nel gennaio 2018 sono stato chiamato a lavorare nella Testata giornalistica regionale siciliana. Mi sono riscoperto giornalista televisivo e ho passato quasi due anni in Sicilia, a Catania. Un’esperienza meravigliosa dal punto di vista umano e professionale, che mi ha consentito di occuparmi di notizie di grande impatto nazionale (come il “caso Diciotti” nell’agosto 2018 o l’alluvione del novembre 2018) ma anche, e soprattutto, delle tante piccole storie di singoli cittadini che possono arrivare ad assumere significati universali. Da febbraio 2020 sono tornato a Milano, come redattore della sede distaccata del Tg3.”

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Più che una sfida la considero una opportunità per dare voce a chi di solito ha meno spazio sui media di far conoscere la condizione propria o dei propri familiari. E, nello specifico, rappresenta anche la possibilità di far conoscere i meriti del nostro servizio sanitario nazionale quando funziona.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

La mia percezione è che fino a pochi anni fa la comunicazione sociale avesse uno spazio ridotto all’interno delle testate, ma che il problema maggiore fosse il suo “isolamento”, quasi dovesse essere trattata a parte rispetto ad altri temi. Invece negli ultimi anni mi pare si stia cercando di trovare il modo di includere elementi sociali all’interno di articoli che, almeno teoricamente, sarebbero incentrati su altri temi. Quindi anche se lo spazio forse non è aumentato, si è fatto però più trasversale, il che è senza dubbio importante.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Io credo che un giornalista, a prescindere dal tema, non dovrebbe mai avere delle parole “già scelte”. E persino le domande non dovrebbero essere “già scelte”. Le parole si scelgono sulla base di ciò che uno vede e scopre, e dovrebbero essere parole il più possibile trasparenti, nel senso che il sentito del giornalista, per quanto importante, non deve indirizzare ciò che viene raccontato ma, al più, filtrarlo senza però modificarlo. Questo dovrebbe valere per ogni notizia. Ed è ancora più importante sui temi sociali: mai partire da una tesi, al massimo da un’ipotesi.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Naturalmente è auspicabile che le notizie varino, anche solo per dare la possibilità al lettore o all’ascoltatore di conoscere più realtà. Ma anche una stessa notizia può diventare nuova. Per esempio se viene raccontata in modi diversi da giornalisti diversi o persino dallo stesso giornalista. Soprattutto una stessa notizia può avere diverse sfaccettature che meritano ognuna il suo spazio.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Lavorando per il servizio pubblico radio-televisivo, è sin troppo facile intuire la mia risposta. Ma pensavo lo stesso quando negli anni passati lavoravo per testate private. A dire il vero, credo che sia il giornalismo stesso a dover essere concepito come servizio pubblico. Certo non si può negare che il mondo oggi imponga serie riflessioni sull’economia dei media, mentre fino a un paio di decenni fa era più semplice far funzionare un’impresa editoriale. Il rischio però è proprio pensarli come prodotti commerciali invece che come progetti imprenditoriali, con un fine culturale che debba mantenere anche un (importante) risvolto commerciale.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Qualcuno che abbia la passione per raccontare ciò che vede senza influenzarlo con i naturali pre-giudizi che porta con sé. Pre-giudizi nel senso di valutazioni che ognuno ha prima ancora di conoscere una storia: possono quindi essere anche pregiudizi positivi che però non fanno bene alla professione se quella predisposizione positiva a trattare la notizia impedisce di trattarla con oggettività. Perché è vero che l’oggettività stessa è un miraggio, ma proprio come giornalisti dovremmo essere particolarmente consapevoli del nostro ruolo di filtri della realtà e cercare in questo senso di renderci trasparenti senza scomparire. Questo non significa eliminare del tutto l’elemento soggettivo, perché il rischio diventerebbe poi perdere quella componente di passione che aiuta una storia a essere raccontata e, in fondo, a entrare nel cuore e nella mente di chi legge o ascolta. Un buon giornalista è anche qualcuno che sappia stare un passo avanti nel valutare quello che potrebbe succedere, così da provare a spiegarlo, ma mantenga sempre un passo indietro nel non entrare in modo ingombrante nelle notizie che tratta. Ogni tanto è difficile, soprattutto su temi sociali che trascinano chi li vive dentro la storia, ma è necessario provarci.

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