Intervista ad Agnese Palmucci

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

E’ sicuramente una sfida grande, e soprattutto per un giornalista in formazione. Per me ha significato tornare al cuore delle mie motivazioni, perché parlare di disabilità è parlare di vita, di dolori e sogni. Insomma, di umanità pura. E’ stato sfidante cercare di capire cosa comporta una malattia, come si muove nel tempo, certo. Ancor di più, però, è stato farlo cercando di non mettere mai al centro il problema, ma sempre la donna, che nel mio caso si chiama Graziella. Insieme abbiamo voluto raccontare prima di tutto la vita quotidiana di una mamma, di una moglie, di un’amica che lotta ogni giorno, anche contro le istituzioni, per una vita normale, senza pietismo.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Devo ringraziare questo premio, senza piaggeria, perché mi ha permesso di conoscere una donna e una famiglia straordinaria, di diventare loro amica. Di entrare nella vita di Graziella e Giuseppe, di farmi da parte per mettere al centro un vissuto così ricco. Devo dire che, per la mia storia familiare, ho sempre avuto il desiderio di raccontare esperienze di disabilità che facessero emergere la forza di volontà, la voglia di distruggere le barriere e la gioia di vivere. Questa è stata per me la prima occasione in cui ho potuto, vivendo alcuni giorni accanto a lei, sperimentare le difficoltà di chi vive in carrozzina a Roma.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Sicuramente due elementi, nel caso di Graziella: l’assurda inadeguatezza delle infrastrutture, ancora nel 2022 non a norma per i disabili in carrozzina, e il carente supporto alle necessità di una madre non autosufficiente. Per quanto riguarda la prima situazione, accompagnando Graziella per le strade del suo quartiere ho sperimentato l’impossibilità di scendere da un marciapiede, di entrare in un negozio, di prendere i bimbi a scuola da sola e poi tanto altro che raccontiamo nel servizio. Riguardo al secondo punto, una delle difficoltà meno conosciute è la ricerca, spesso estenuante e infruttuosa, di un’assistente domestica che possa aiutare in casa le madri disabili con i bambini. Proprio per l’assenza di questa presenza fissa, ad esempio, Giuseppe è stato costretto a diminuire le ore di lavoro per venire incontro alle esigenze della casa.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La comunicazione sociale ha rilevante spazio su alcune testate, come Avvenire, ad esempio, che puntano molto sulla narrazione della prossimità e sulla denuncia dei disagi di chi è meno ascoltato dalle istituzioni.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Spesso pensiamo che “notizia” debba significare “novità”, a tutti i costi.              Ma le disabilità, le povertà, le disuguaglianze, così come tutti i problemi relativi all’umano, non sono né vecchi né nuovi. Semplicemente esistono e si evolvono, e in quanto ciò hanno tutta la dignità per essere raccontati, per denunciare, per chiedere interventi mirati, per spingere alla ricerca, per alimentare la speranza.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

C’è tanto lavoro dietro una pagina di giornale, dietro una home page piena di pezzi. C’è impegno, sacrificio, ci sono giornate con poche ore di sonno. Se una scelta editoriale è fatta per “vendere”, questo può sembrare immorale, e a volte lo è. Nella maggioranza dei casi, quello che sembra un “tradimento” del servizio pubblico, diventa economicamente necessario per sostenere il lavoro giornalistico “vero” di quella testata. Nel mio modo di vedere questa nostra “missione” di giornalisti, tutto quello che facciamo deve essere mirato al servizio.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Significa amare la verità e gli esseri umani, mettendo ciò prima di sé. Significa dare voce a chi non ha spazio, a chi non viene ascoltato, a chi ha da dire e anche ha timore di parlare, ma ha tanto nel cuore. Significa studiare, leggere senza posa, ma non per mero intellettualismo, no. Piuttosto per capire meglio e in profondità tutto quello che accade, vicino e lontano da noi. Significa illuminare gli angoli più bui, denunciare quello che proprio non va, senza paura, ma “compromettendosi” con le vite di chi si incontra. Nella mia breve carriera, ho capito che non mi interessa essere una giornalista “estranea” alle cose, che non si lascia toccare da niente, che racconta asetticamente.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Sto frequentando il master di giornalismo all’Università Lumsa di Roma, e sono venuta a conoscenza del premio lo scorso autunno 2021, quando ho assistito alla premiazione in ateneo. Quello delle disabilità è un tema che mi sta a cuore da sempre, e la storia di Alessandra mi ha colpito davvero molto.

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