Intervista a Viola Stefanello

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Me ne stavo interessando dal 2020, quando l’ho visto comparire per la prima volta in una newsletter dedicata alle opportunità per i giovani giornalisti in Italia. Stavo aspettando di scrivere un reportage che mi sembrasse all’altezza della qualità e degli obiettivi richiesti dal premio per poterlo fare, perché capita raramente che nel nostro paese venga premiato il giornalismo di persone interessate a determinate tematiche sociali, soprattutto se giovani.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Credo che il valore principale di iniziative come la vostra sia quello di ricordare che il giornalismo, alla radice, non è fatto per attirare click, “parlare alla pancia”, dare una versione semplificata della realtà, ma per raccontare un pezzettino dopo l’altro come il mondo funziona, in tutta la sua complessità. Sapere che un articolo informato e approfondito, scritto tenendo a mente la deontologia del mestiere, è stato premiato serve in primo luogo per ricordarci tra colleghi che fare questo tipo di giornalismo ha ancora senso e incoraggiarci ad andare avanti in questa direzione. Il fatto che le notizie sul premio vengano poi molto condivise, online e non, aiuta sicuramente ad attirare l’attenzione verso le nobili tematiche di cui gli articoli trattano.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

L’anno scorso sono stata una settimana in Brasile per raccontare la storia del Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra, che da quarant’anni adotta molti metodi di militanza diversi per proteggere il diritto dei contadini (spesso nullatenenti) di vivere una vita dignitosa grazie al frutto del proprio lavoro. Avere la possibilità di conoscere così da vicino la loro realtà materiale e le condizioni in cui si trova a esistere una larga parte silenziosa degli abitanti del sud globale mi ha aiutata sicuramente a guardare con occhi nuovi e più attenti anche le disuguaglianze presenti in Europa, e in Italia, e per questo sarò sempre loro grata.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non credo nelle ricette applicabili a priori a qualsiasi circostanza; quello che credo è che sia necessario approcciarsi alle situazioni di sofferenza con una mentalità aperta, consapevoli del fatto che le proprie conoscenze pregresse quasi sempre ignorano una parte importante della storia, e con un forte rispetto per il vissuto delle persone con cui ci si interfaccia. Devo ammettere che personalmente preferisco sempre cercare storie che, pur partendo da una situazione di sofferenza o disuguaglianza, contengono un elemento di “soluzione” – come è anche il caso del museo al centro del reportage con cui ho partecipato al premio. Credo che raccontare le strade intraprese o individuate dalle comunità di cui parlo sia un modo magnifico di restituire loro una centralità e una soggettività, ricordando che non sono soltanto persone che soffrono o subiscono disuguaglianze strutturali, ma prima di tutto esseri umani con una propria estrema forza e voglia di migliorare, anche nel piccolo, la situazione di tutti.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

A volte ci sono barriere pratiche: nel caso dei Sem Terra, per esempio, c’era prima di tutto la questione linguistica. Io non parlo portoghese e loro non parlano italiano; ci siamo trovati a metà con uno spagnolo spesso stentato. Al di là di questo, però, c’è la grande (ma non insormontabile) barriera della differenza: da giornalista temo sempre moltissimo la possibilità di non riuscire davvero a comprendere appieno l’entità della sofferenza dell’altro, il modo in cui quella sofferenza plasma la loro vita, ciò di cui avrebbero bisogno, e quindi di non riuscire a rendere loro giustizia.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

A mio parere, soltanto quando una tematica diventa per un motivo o per l’altro un tema di dibattito politico, come nel caso della questione migratoria, delle morti sul lavoro, delle discriminazioni nei confronti della comunità LGBTQ+. Anche in quei casi, però, al grande spazio che viene loro dedicato su siti, giornali e talk show corrisponde raramente un
interesse genuino verso le esperienze umane delle persone coinvolte, né la voglia di approfondire e smentire i pregiudizi.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Credo che i software di intelligenza artificiale possano al massimo fungere da aiutanti per alcuni tratti più meccanici e tediosi del lavoro giornalistico, come la trascrizione delle interviste. Per il resto, semplicemente non è possibile aspettarsi che l’AI svolga un lavoro comparabile a quello di un giornalista: sono modelli statistici che non possiedono qualità fondamentali come la sensibilità umana, né la capacità di distinguere il vero dal falso.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Riflettere quanto possibile la realtà oggettiva delle cose, raccontando storie che avvicinino i lettori a una maggiore comprensione di ciò che succede, lasciando a loro quanti più strumenti possibili per fare scelte informate a tutti i livelli della propria vita quotidiana. Se riusciamo a farlo con uno stile piacevole e che mantenga l’attenzione dei lettori, tanto
meglio.