Intervista a Stefano Baudino

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho appreso dell’esistenza del Premio Bisceglia attraverso il portale online della FNSI. Grazie a questa opportunità ho anche avuto la fortuna di approfondire la stupenda storia di coraggio di Alessandra Bisceglia, che prima non conoscevo.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?
Ritengo che ogni segnale, in questo senso, possa essere importante. Istituire un premio attorno all’annoso e spesso dimenticato tema delle malattie rare è assai lodevole. Da candidato, entro in questa dimensione in punta di piedi, ma estremamente convinto di aver fatto la scelta giusta.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?
Occupandomi da diversi anni – in qualità di saggista, scrittore e collaboratore esterno di scuole e università – di mafia e rapporti mafia-politica, mi sono spesso occupato delle storie di vittime della violenza criminale, collaborando sovente con i loro parenti, a esse sopravvissuti. Penso, ad esempio, alle tremende storie del giudice Paolo Borsellino e dell’infiltrato Luigi Ilardo, che racconto girando l’Italia insieme a Salvatore Borsellino (fratello di Paolo) e Luana Ilardo (figlia di Luigi). Questo background – nozionistico ma, soprattutto, psicologico ed emotivo – mi ha portato ad avere sempre un occhio di riguardo per le storie delle “vittime”, anche in campi completamente diversi.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?
Ne sono convinto. Penso che l’ingrediente principale sia costituito da un equilibrato mix tra empatia e perspicacia giornalistica. Ritengo che il cronista debba essere in grado di farsi vettore della componente emotiva che sfocia da queste storie e, al contempo, fornire il maggior numero di informazioni al lettore sullo spaccato di realtà che le caratterizza.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?
Credo che una potenziale barriera sia quella che il narratore, prima ancora di mettere nero su bianco il suo racconto, erige tra sé e il foglio bianco che ha davanti. Qualcuno ha il timore di dover maneggiare temi che tradizionalmente non “sfondano” dal punto di vista mediatico, altri di cadere negli angusti meandri della cosiddetta “pornografia del dolore”. Tali barriere si superano nel momento in cui si prende contezza di quanto sia doveroso occuparsi di certi argomenti, senza calcoli di sorta. Nel mondo esterno, però, ho la fortuna di non averne mai incontrate.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?
In questi casi, credo che fare di tutta l’erba un fascio, in un senso o nell’altro, sia sbagliato. Per quanto mi riguarda, posso dirmi estremamente fortunato: ho sempre collaborato con testate giornalistiche che hanno trattato con attenzione (ma anche con etica e delicatezza) un ampio ventaglio di tematiche sociali.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?
Credo che ancora nessuno possa saperlo con certezza, ma immagino che anche in questo caso la risposta giusta sia “dipende”. Spero, innanzitutto, che i rigidi “paletti” che oggi costituiscono la piattaforma di base della deontologia giornalistica riescano a reggere il colpo. Noi giornalisti, prima di chiunque altro, siamo chiamati a difenderli con le unghie e con i denti.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?
Esercitare il proprio spirito intuitivo in maniera attenta e consapevole, non dando nulla per scontato; contribuire a spingere verso i piani alti delle gerarchie mediatiche argomenti di vero interesse pubblico; stare dalla parte delle “vittime” (in qualsiasi forma la realtà le plasmi) e veicolare al pubblico più vasto possibile le loro denunce.