Intervista a Marianna Grazi

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho conosciuto il Premio grazie a una collega, anche lei giornalista, che ha partecipato qualche anno fa e me ne ha parlato. Ho scelto di partecipare perché nel mio lavoro quotidiano di redattrice mi occupo spesso di temi quali la disabilità, la promozione dell’inclusione, le discriminazioni e, in generale, dell’ambito sociale, inteso come riguardante la società e le persone che la compongono.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Penso che ogni strumento di comunicazione, anche un premio giornalistico, perché no, possa contribuire alla sensibilizzazione su un dato tema, visto che comunque chi sceglie di partecipare lo fa consapevole e con la responsabilità di ciò che ha scritto o prodotto. In questo caso specifico la storia di Alessandra Bisceglia, la promozione del riconoscimento a suo nome, a mio parere spingono gli stessi giornalisti e giornaliste a una riflessione sull’opportunità di dare la giusta attenzione a certe tematiche, li portano magari ad occuparsene portando così alla luce testimonianze, storie, casi che altrimenti rimarrebbero nascoste nelle pieghe della società stessa.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ci sono molte storie che mi hanno colpito in questi anni e che ho scelto di raccontare, ma una di quelle che mi è rimasta davvero nel cuore è l’intervista fatta a Paolo “Dong Dong” Camanni, un ragazzo che una grave malattia (il retinoblastoma bilaterale) ha reso cieco alla nascita, nato in Cina, abbandonato dai genitori e poi adottato da una famiglia umbra straordinaria (che oltre a lui ha adottato o preso in affido altri bambini e bambine, anche con disabilità) grazie all’intervento di un giornalista, Luca Vinciguerra. La cosa straordinaria è che grazie alla mia intervista, letta appunto dal giornalista che aveva trovato quel bambino e si era speso per la sua causa, fornendogli tutti i documenti per il viaggio, Paolo ha potuto conoscere la famiglia che l’aveva aiutato a venire in Italia, e con cui era stato 2 mesi. Oggi è un campione di judo a livello internazionale, un pianista incredibile, scout e tanto altro.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Credo che più che una ricetta esista un concetto che vada sempre tenuto ben impresso nella mente, ovvero il rispetto. Per la persona con cui e di cui si parla, perché anche questo è importante, ricordare che si tratta di esseri umani che hanno malattie o disabilità o condizioni, hanno e non sono. Secondo me, da professionista dell’informazione è poi fondamentale mettersi in dubbio, non dare per scontato di saper raccontare al meglio una cosa solo perché si lavora con le parole ogni giorno, chiedere prima come una persona vuole essere raccontata se possibile, fare chiarezza sui concetti da usare e, altra cosa fondamentale, evitare il più possibile il pietismo. Alcune persone soffrono già abbastanza ogni minuto della loro vita, non c’è bisogno di raccontarlo accentuando questo aspetto. E questo devo dire che ho imparato e sto ancora imparando a farlo, perché spesso è capitato anche a me di finire nelle maglie dell’abilismo o del racconto fatto solo per impietosire il lettore. Mea culpa.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Ho incontrato barriere non nel raccontare ma dopo aver raccontato, da persone esterne all’oggetto e ai soggetti della storia, che hanno criticato sia il modo di farlo (quando però la persona intervistata o chi per lei invece non ha avuto alcunché da ridire o anzi mi ha ringraziato per aver portato alla luce la loro vicenda) o, e questo è ancora peggiore, da chi ha commentato dicendo che di quella storia non importava a nessuno, non era di interesse pubblico e quindi era stato uno spreco di risorse/tempo raccontarla. 

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Negli ultimimissimi anni, diciamo dalla pandemia in poi, ho notato una maggior apertura del giornalismo (soprattutto online) verso le tematiche sociali. Manca ancora forse un’organicità nell’occuparsene, rimangono spesso questioni sporadiche, ma penso si stia dando finalmente uno spazio a questioni che prima rimanevano molto nascoste. Non è ancora abbastanza ma un passo avanti secondo me c’è stato.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Penso che l’intelligenza artificiale possa essere una risorsa indispensabile e debba essere considerata tale visto che il processo verso le nuove tecnologie è stato ormai avviato e non penso si possa fermare. Al momento però mancano gli strumenti e una regolamentazione chiara sull’utilizzo di questi, lasciando alle singole realtà giornalistiche l’onere di occuparsene. Con scarsi risultati d’insieme o, peggio, problemi ed errori che ad oggi fanno più clamore dei risultati positivi raggiunti.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere una buona giornalista secondo me significa mettermi a disposizione (non a servizio, non deve essere inteso come servilismo) della comunità, per fare da megafono a quello che succede con un’attenzione particolare a chi non ha voce. Nel rispetto di chi parla e nel rispetto di chi ascolta o legge, non con imparzialità ma con equilibrio, alla ricerca sempre della verità, bella o brutta che sia.