Luca Pons ha 24 anni e da quasi 20 vuole fare il giornalista. Ha iniziato in prima elementare con una visita alla redazione del Corriere di Saluzzo, città del Cuneese in cui è cresciuto. Con il passare degli anni questa ambizione ha segnato il suo percorso di studi, dal liceo classico alla facoltà di Scienze politiche a Torino, fino al Master in giornalismo che attualmente frequenta. Con il tempo ha sviluppato un’idea più concreta e precisa di cosa voglia dire “fare giornalismo” per lui: parlare di politica, cioè di comunità, e trasformare un mondo articolato e complesso in fatti e storie, che permettano ad un pubblico di conoscere meglio realtà vicine o lontane. Per questo, è attirato dal racconto della marginalità, intesa in varie forme, e dal suo rapporto con la comunità. Da questo interesse è nato il servizio che invia per la sua candidatura. In un periodo di crisi e ricorrente emergenza, non voleva che fossero dimenticate le condizioni di giovani ragazzi e ragazze con disabilità. Avendo trovato il bando ed essendosi informato sulla storia di Alessandra Bisceglia, ha sentito che questo servizio potesse contribuire in piccola parte la sua vita e soprattutto il suo lavoro.
1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?
È una sfida ma soprattutto uno stimolo. Permette a storie significative di emergere e ricevere il giusto spazio. Inoltre, in un contesto giornalistico sempre frenetico e a caccia dell’ultima o migliore notizia, partecipare a un Premio giornalistico con un tema così definito permette di “fare un punto” sul proprio lavoro, capire in che direzione si muove, dare il giusto peso ad alcuni servizi o articoli rispetto ad altri.
2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?
Nella mia – finora – breve esperienza giornalistica, ho potuto incontrare alcune storie davvero significative e umane, che, al di là della retorica, mi hanno fatto riconsiderare e mettere a fuoco il ruolo della comunicazione giornalistica in una società contemporanea. Tra queste, la storia che mi ha toccato più personalmente è quella di Margherita, che ho raccontato nel mio servizio. L’incontro con la madre Lucia, oltre che con varie associazioni che lavorano con persone con disabilità a Torino, segnerà sicuramente l’indirizzo del mio lavoro anche per il futuro.
3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?
Ciò che è rilevante, ciò che è utile e ciò che è dimenticato. Penso che si debba informare il proprio pubblico di elementi che “tornano utili nella cabina elettorale”, come si usa dire, ma anche di storie che contribuiscano a far prendere coscienza della propria comunità, inclusi gli aspetti della stessa che possono parere più lontani o addirittura inesistenti.
4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?
Dipende dalle testate, ma tendenzialmente penso che si fatichi a uscire da una narrazione pietistica o assistenzialistica. Non è facile trovare storie raccontate con la pulizia e la dignità necessarie, e che pure riescano a trasmettere la forte carica emotiva che spesso la comunicazione sociale è in grado di contenere.
5. Quali gli effetti dei Mass Media e New Media sulla comunicazione sociale?
Ritengo che la comunicazione web e social sia uno strumento che possa portare a un livello di empatia e comprensione di storie marginalizzate che non ha precedenti. Tuttavia, allo stesso tempo accentua quella tendenza a cercare la “notizia ultima e migliore”, ormai pressoché in tempo reale, e per questo rischia di soffocare la comunicazione sociale nellasua forma più ragionata, utile ed efficace. È un equilibrio complesso che va esplorato e sperimentato.
6. Esistono parole “giuste” per trattare la Comunicazione?
Esistono, e non solo: è componente necessaria della professionalità giornalistica essere attivamente aggiornati e attenti al tema del lessico adatto a parlare, per esempio, di disabilità. Un professionista o una professionista che per lavoro usino il linguaggio, non possono fare a meno di prestare attenzione alle eventuali evoluzioni terminologiche, indicate non da un qualche “linguaggio giornalistico” quasi sempre vecchio e inadatto, ma dalle stesse comunità di cui si parla.
7. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?
Penso di no, ma devono essere sempre rilevanti. Una notizia, a mio avviso, è rilevante se informa e/o se pone un interrogativo alla comunità di riferimento. Si può arrivare a una notizia “con calma”, e riuscire comunque a trasmetterla in modo rilevante. Anzi, un approccio non frettoloso alla comunicazione può aiutare proprio a individuare gli aspetti più rilevanti.
8. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?
Penso che le testate siano sempre stati prodotti commerciali, dalla loro nascita. L’equilibrio tra necessità editoriali e necessità giornalistiche non può essere ignorato, altrimenti si rischia di scivolare nella retorica e parlare del nulla. Tuttavia, questo deve essere: un equilibrio. Non si può rinunciare alla funzione pubblica del giornalismo, mai. Penso che oggi si continui la stessa tensione tra le due cose che esisteva ieri, forse in una chiave diversa, perché anche il mondo delle comunicazioni è cambiato.
9. Che significa essere un buon giornalista?
Nella mia opinione, significa ambire a raccontare storie e fatti raccolti con scrupolo in una chiave che permetta alla comunità di riferimento di essere maggiormente informata su se stessa e sul mondo che abita, senza cercare di attirare visibilità con grossolane semplificazioni. Può sembrare una banalità, ma penso che sia una definizione in cui non è semplice rientrare.
10. Come sei venuto a conoscenza del Premio?
Il bando mi è stato inoltrato dalla segreteria del master in giornalismo che frequento e, leggendo di un tema così particolare e significativo, ho colto subito l’occasione.