Intervista a Lamberto Rinaldi

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È sempre una sfida raccontare una storia nascosta, darle lo spazio che si merita, farla riscoprire, apprezzare, innescare una riflessione. Poi, per me, è stata una sfida misurarmi con un tema che non conoscevo e di cui si parla sempre troppo poco: la salute mentale, la condizione dei pazienti psichiatrici, il ruolo che ha lo sport in tutto questo.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Quella della Nazionale “Crazy For Football” è senza dubbio una delle storie più emozionanti che abbia mai raccontato. Ho conosciuto e ho parlato con i ragazzi che sono scesi in campo e potevo vedere nei loro occhi una speranza, una passione, un obiettivo. Vedevo nei loro sguardi e sentivo nelle loro parole il senso di appartenenza, a una squadra, a un gruppo, a un progetto. Come si fa a non raccontare una storia simile?

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Informazione vuol dire “dare forma”, nello stesso modo in cui istruzione vuol dire “dare una struttura”. E secondo me sono due concetti simili. L’informazione dà forma sia alla notizia, sia a chi la legge. Quindi deve essere oggetto di informazione tutto ciò che chiarisca, faccia riflettere e ragionare, proponga una nuova visione, indaghi, accerti. Tutto ciò che contribuisce a dare una forma a qualcosa che non ce l’ha.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Secondo me la comunicazione sociale non trova lo spazio che merita. D’altronde è un atteggiamento figlio dei tempi: la comunicazione sociale parla di un noi quando va sempre più di moda l’io, spinge per l’apertura quando ormai tutto parla di chiusura, è per il dialogo e i ponti in un’era di silenzio e di muri. In tutti gli ambiti: dalla politica allo sport. Per questo si deve tornare a parlare di sociale.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

No, non per forza. Una notizia può essere anche una riscoperta, una nuova lettura, un nuovo spiraglio. In una comunicazione dettata sempre di più alla velocità, alla logica dell’arrivare per primi, vale la pena fermarsi, lavorare sulle cose, andarle a cercare. Anche correndo il rischio di farle scadere. Se una notizia è valida lo è sempre.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Mi ricollego a quanto detto prima, al tema della velocità e della lentezza. Il voler arrivare per forza primi, urlare di più, risaltare di più, è ovviamente un atteggiamento commerciale, da marketing. Se si mira solo a questo si perde di vista l’utilità vera del giornalismo, che è quella appunto di fare informazione. Penso che nel nostro panorama ci sia ancora tanto servizio pubblico, ma stia crescendo, soprattutto nell’online, una logica di consumo, di vendita, di notizia come merce.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Sono due i motti a cui mi rifaccio per provare a essere, innanzitutto io, un buon giornalista. Il primo è di Gianni Mura: “Saper fare un uovo in padella non fa di me uno chef”. Il secondo è “Andare, guardare, cercare di capire, raccontare”. Con il tempo di internet tutti possono essere giornalisti, scrivere articoli, riportare notizie. Per farlo in maniera vera, positiva, bisogna avere spirito critico, bisogna uscire, non restare incollati uno schermo, scavare e svelare, ascoltare e cercare. Solo così le storie, le persone, i luoghi, saranno raccontati in maniera vera.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Attraverso i social e il sito dell’Ordine dei Giornalisti.

 

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