Intervista a Giada Bertolini

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho conosciuto il Premio giornalistico Alessandra Bisceglia grazie alla Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia. Durante la mia frequenza la segreteria ha informato tutti gli alunni della pubblicazione del bando relativo alla VIII edizione del Premio.

Ho deciso di partecipare perché ha come oggetto una tematica di cui mi sono occupata più volte e a cui tengo particolarmente. Nel corso del biennio svolto presso la Scuola, e anche in precedenza nella mia attività da giornalista pubblicista, ho avuto modo di raccontare le storie, le difficoltà e anche le grandi conquiste, di persone con disabilità. Sono entrata in contatto con associazioni, medici e familiari di persone che a causa di incidenti hanno riportato gravi lesioni oppure di coloro che fin dalla nascita convivono con malattie rare.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

A mio avviso un Premio giornalistico può contribuire alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica si determinate tematiche sociali, ma è ovvio che questo non sia l’unico modo da seguire. Il mondo dei media può, e deve, fare di più. Il Premio è solo la punta dell’iceberg, alla base ci deve essere un’attenzione verso la narrazione di questi temi, a partire dal linguaggio utilizzato fino all’eliminazione di un racconto che sfoci sia del pietismo sia dell’eroismo. Sono certa che la comunicazione, e in particolare i giornalisti, abbi un ruolo decisivo anche nel rimuovere i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti delle persone con disabilità.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Oltre alla storia dell’atleta paralimpico Antonio Acciarino, che insieme alla mia collega Chiara Dall’Angelo abbiamo candidato a questo Premio, l’articolo che mi ha segnato di più è sicuramente quello legato alla storia Ilaria Parlanti, giovane scrittrice Toscana affetta dalla sindrome di Jarcho Levin. Una malattia genetica recessiva rarissima che comporta malformazioni multiple alle ossa, alla colonna vertebrale e agli organi interni. Alla nascita una prognosi di vita di pochi giorni, ma dopo un percorso sperimentale a Parigi, oltre 24 interventi alla colonna vertebrale, busti e protesi in acciaio, a 27 anni Ilaria ha fatto della sua passione, la scrittura, il proprio mestiere e dopo la pubblicazione del suo primo romanzo in cui racconta la sua vita, Ilaria anche è un’attivista per i diritti della disabilità nella sua regione.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non penso che esista un modo giusto e oggettivo di raccontare la sofferenza, ogni situazione è diversa e di conseguenza anche il modo in cui descriverla deve essere tale. Secondo me il giornalista deve ascoltare chi ha di fronte e farsi guidare nella narrazione dalla persona che gli affida la sua storia, la sua sofferenza, le sue battaglie. Ogni persona ha una propria sensibilità e disponibilità nel mostrarsi ed esporsi, è importante che il giornalista rispetti questo senza farsi prendere dal pietismo e dall’eccessiva esagerazione su alcuni termini o immagini che suscita emozioni forti. Concentrarsi più sulle possibilità e non sui limiti o le mancanze.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Più che barriere, mi è capitato di pormi delle domande relative all’etica del lavoro giornalistico. Qual è il limite da non superare nel raccontare la sofferenza? Fino a che punto posso spingermi a chiedere? Quanto devo raccontare o documentare di quella sofferenza anche se con la completa disponibilità della persona in questione? Qual è il modo corretto di interagire con persone con gravi disabilità nel rispetto del loro diritto alla riservatezza?

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Occupandomi spesso di sport, ho notato come negli ultimi anni – grazie anche all’ottimo lavoro di alcuni colleghi e alla grande attività di sensibilizzazione svolta dal Cip, dalle singole associazioni e da alcuni grandi sportivi come Bebe Vio Grandis – le tematiche sociali hanno sempre più trovato spazio nei media. Uno spazio che però rimane, purtroppo, ancora marginale rispetto a tematiche che seguono logiche economiche e commerciali.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Ogni giudizio su una nuova tecnologia deve essere collegato necessariamente all’utilizzo che ne fanno le persone. L’intelligenza artificiale influenzerà il mondo del giornalismo, a volte magari facendosi strumento di aiuto e supporto necessario, ma a mio avviso nel campo della comunicazione sociale l’AI, e la conseguente perdita della componente umana, potrebbe essere generare conseguenze negative e ridurre la narrazione a meri numeri, classifiche ecc…

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere un buon giornalista significa essere testimone dei fatti che deve riportare all’opinione pubblica, prendendo in con siderazione più punti di vista possibili, cercando di perseguire sempre la verità. Per quanto riguarda i temi sociali, secondo me il giornalista ha il dovere di denunciare i problemi ma deve anche dare un’immagine puntuale del contesto. Spesso ci concentriamo maggiormente sulle notizie negative, rischiando di creare allarme e costruire un’immagine distorta della realtà che ci circonda. Il giornalismo è anche il racconto di buone notizie, di soluzioni e di possibilità.