Intervista a Estefano Tamburrini

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho saputo del premio grazie alla segnalazione di una persona e poi, nell’approfondire, ho letto la storia di Alessandra Bisceglia. Tre gli elementi che mi hanno colpito della sua biografia, di un’intensità che compensa la brevità della sua età. Cent’anni vissuti in quasi trenta. Il primo elemento è la capacità di trasformare la fragilità in un punto di forza. Il secondo riguarda il rapporto armonico con il tempo, sebbene ne avesse poco a disposizione. Alessandra è riuscita a realizzare sé stessa nonostante gli ostacoli. Di qui il terzo, e non meno importante, che riguarda il valore sostanziale di una persona al di là dell’esteriorità. Potrei dire che sia stata la sua storia a farmi partecipare. Perché una vita così ci interpella laddove la narrazione dominante è tuttora rapita da un’estetica superficiale che spesso non corrisponde alla realtà sociale. Una realtà fatta di fragilità, vulnerabilità, senso del limite. C’è un pezzo di Bisceglia in ciascuno di noi, che tuttavia viene rimosso dalle maschere che indossiamo per apparire più forti.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Sì, se si parte dal presupposto che la fragilità dell’altro è specchio delle nostre vulnerabilità. Lo si può fare magari evitando una narrazione celebrativa del «bene» che si fa attraverso i progetti e iniziative di vario genere e ricordando che si tratta semplicemente di un atto di giustizia. Qualcuno diceva: «Non sia dato per carità ciò che è dovuto per giustizia». Poi, il giornalista che racconta il «sociale» restituisce alla comunità uno spaccato di umanità che talvolta essa perde nel cammino.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ho proposto un articolo sull’Istituto Charitas di Modena dal quale mi ha colpito il desiderio di fare bene il bene. Il racconto corrisponde alla presentazione di due certificazioni (Iso 9001 e Uni 11010) tramite le quali l’ente residenziale, che accoglie centinaia di ospiti, ha deciso di munirsi di una formazione permanente per essere al servizio delle persone disabili e delle famiglie che vi fanno affidamento. Ciò che emerge, anche nel sommario della pubblicazione, è che non basta la buona volontà ma servono competenze. Ed è questo un modo per amare e rispettare la persona con cui si lavora.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Provo perplessità ogni volta che si parla di ricette, perché la conoscenza della realtà è sempre parziale. Tuttavia c’è uno stile che ci aiuta a raccontare la sofferenza: trattare la persona come soggetto, titolare di una dignità e partecipe a pieno titolo della comunità, anziché come oggetto di cura. Nulla di nuovo sotto il sole, ma è il principio della dignità che spesso salta.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo? Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Sì. E penso sia un problema di immaginario collettivo. Quando si parla di sofferenza sembra che spesso si parli di «altro da noi» e non su una condizione che costituisce l’esistenza umana. Siamo tutti fragili e ce ne accorgiamo nella malattia, nel dolore, nella caducità della vita stessa. Forse tardi, ma ce ne accorgiamo. Esistono però due limiti, e il giornalismo ha grandi responsabilità: il primo è la bulimia informativa del nostro tempo che concentra l’attenzione sulla cronaca, ignorando spesso il contesto. Ad esempio, il racconto che si fa dei quartieri periferici è spesso limitato alla cronaca nera mentre le buone pratiche non fanno notizia. Vedete solo il caso di Tor Bella Monaca a Roma, dove vi è tessuto associazionistico ricco che tutti i giorni cerca di costruire una comunità coesa. Tuttavia, di Tor Bella Monaca si parla quasi esclusivamente per altre ragioni. L’altro è il paradigma dei grandi numeri: spesso ci si ferma su un approccio quantitativo – statistico – sui malati e sui poveri senza tener conto, come dice Caritas Italiana, delle storie e dei volti che rendono più complessa la realtà.

6. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

È un rapporto mezzi-fini che va regolamentato. Il problema però siamo noi, non lo strumento. L’IA può facilmente adoperare una ricerca in tempi brevi e fare un lavoro di «segretaria» su molte cose. Tuttavia, se si impiega l’IA senza un’adeguata verifica delle fonti – e cioè del bacino di dati da cui lo strumento attinge si viene a mancare alla deontologia stessa. Tutti gli strumenti sono buoni, ma dipendono dall’uso umano che se ne fa. La calcolatrice, ad esempio, è utile a fare operazioni semplici e complessi. Se però l’umano smette di fare calcoli mentali si perde un patrimonio, come è in parte successo.

7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Difficile, oggi, essere un buon giornalista: il precariato lavorativo è diventato anche esistenziale, impedendo di essere creativi e togliendo profondità all’osservazione e alla narrazione. Diciamo che un buon giornalista deve abitare le soglie e le feritoie della società. Far emergere ciò che spesso non si vede: e in questo caso parliamo sempre delle fragilità, che sono un grande rimosso nella società del neoliberismo e della competizione. Serve però essere liberi di farlo ed essere responsabile. C’è infine un altro elemento, già citato da Leonardo Sciascia, che è quello dell’immedesimazione. Per raccontare l’umano occorre non essere estranei alla vita, ma esserci dentro con tutte le sue ricadute.