Intervista a Erika Antonelli

 Erika Antonelli ha 29 anni e una laurea magistrale in Interpretariato e traduzione che le ha fatto capire due cose: in tedesco la parola “Heimweh” è intraducibile e io non voglio fare l’insegnante. Prima di iscriversi al master in Giornalismo e Comunicazione multimediale della Luiss (Roma) ha insegnato tedesco e inglese in una scuola di lingue e vissuto tre anni in Austria. A 28 anni è tornata in Italia (vedi “Heimweh” di cui sopra) ed era intrappolata in una professione poco appagante. Ha scelto di iscriversi alla scuola di giornalismo, cosciente che senza borsa di studio non se la sarebbe potuta permettere. Ha vinto la prima e ringrazia il giorno in cui per caso ha letto il bando di iscrizione. Ha fatto uno stage presso CBC, Canadian Broadcasting Corporation. Partecipa a questo premio perché trova che la comunicazione sociale sia la sintesi perfetta del lavoro giornalistico: bisogna scegliere con cura le parole, ma la storia vale la fatica.

 

 È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Certo, perché un premio così specifico ti costringe a focalizzare fin da subito l’obiettivo finale. C’è bisogno che la storia parli sì di malattia, ma anche di buone pratiche e inclusione. È una sfida, perché spesso fa comodo descrivere il malato come una persona per cui si prova compassione, pena. Una narrazione “comoda” ma ingiusta, che questo premio ti stimola a superare.

 Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Forse quello che ho deciso di raccontare per questo premio: la vita di Orlando, un bambino affetto da SMA 2, e della sua mamma. Ho dovuto fare domande difficili, cercando il giusto equilibrio tra il ruolo di giornalista e la sensibilità. È stato un viaggio nel dolore, le speranze e le paure di una famiglia che non avrei mai conosciuto se non avessi scelto di partecipare a questo premio. So che suonerà retorico, forse lo è, ma per me è questa la vera vittoria.

Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Le buone e le cattive pratiche. Non parlo delle news, quelle che consultiamo per aggiornarci sul cellulare o leggiamo sul giornale di carta se abbiamo a disposizione un po’ di tempo in più. Quella è informazione necessaria, a rapido consumo. Parlo di una storia che non invecchi in un giorno, una “dalle gambe lunghe”. Che poi è il tipo di giornalismo che vorrei fare io. Ecco, per queste storie che non invecchiano in un giorno vanno bene iniziative, progetti, persone che possano essere d’ispirazione per chi legge. E, al contempo, il loro contrario: vicende, fatti, esempi di cattive pratiche, che un giornalista deve mettere in luce. Faccio due esempi di cose a cui ho lavorato, per rendere meglio l’idea: il collettivo Donne per strada, nato da un mese per far compagnia a chiunque debba spostarsi durante la notte. E lo sfratto di Vivere La Gioia, una Onlus che a Roma Sud sfamava circa 200 famiglie.

 La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Credo non trovi uno spazio adeguato, tranne qualche eccezione. Penso per esempio alla sezione del Corriere della Sera, Corriere Buone Notizie. Ritengo sia dovuto alla complessità del tema, che per essere trattato bene deve essere affrontato in tutte le sue sfaccettature.

Quali gli effetti dei Mass Media e New Media sulla comunicazione sociale?

Possono, ritengo, diventare uno strumento. Parlare di una buona pratica, soprattutto in questi tempi, può diventare “virale” e dunque essere d’ispirazione per chi si trova nella stessa situazione. Inoltre, i nuovi media possono anche essere una risorsa per chi vuole raccontare la propria malattia, denunciare una mancanza, dare voce a chi in quel momento non ne ha.

Esistono parole “giuste” per trattare la Comunicazione?

Certo che sì, perché le parole sono importanti. E un comunicatore, un giornalista, deve esserne consapevole. Ne è un esempio la sociolinguistica, che in questi tempi si arrovella per creare un linguaggio quanto più possibile inclusivo. È come quando si scrive di un femminicidio e si dice che la vittima è morta “per la gelosia del partner”: non c’è gelosia che tenga a giustificare un omicidio. Lo stesso vale per la comunicazione sociale, perché le parole non sono neutre. “Orlando è inchiodato su una carrozzina”, “Orlando sfreccia sulla sua carrozzina”. Il soggetto è lo stesso, l’immagine che plasmo con le mie parole no.

Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

No, devono essere interessanti. Non credo nel mito del rincorrere la notizia nuova, lo scoop, il retroscena. Preferisco un giornalismo lento, approfondito, che segua gli sviluppi di una storia nel caso siano rilevanti.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Prodotti commerciali, temo. Ho l’impressione che ogni testata parli alla sua “bolla” di riferimento, perché uscire dal tracciato è troppo rischioso. Soprattutto se bisogna tenersi stretti i lettori, che con il digitale e i social network sono sempre meno. E questo spesso va a detrimento della figura professionale del giornalista, che non è più “watchdog” ma segugio a caccia di dettagli poco rilevanti.

Che significa essere un buon giornalista?

Secondo me tutto parte dalla curiosità. Un buon giornalista è curioso, “ficca il naso”, va a fondo, segue la sua storia, costi quel che costi. Verifica, tanto. Legge, sempre. Fa le domande giuste. E con la testa non stacca mai. Perché ogni occasione, anche quella più scanzonata, potrebbe fornire lo spunto per un’altra storia.

Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Il Premio l’ho conosciuto grazie all’email che mi ha inviato la segreteria della mia scuola di giornalismo, il master in Giornalismo e Comunicazione multimediale della Luiss (Roma).

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