Intervista a Emanuele La Veglia

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

In realtà no, ma semplicemente perché è la terza volta che vi concorro. L’anno scorso ho ottenuto la menzione web per un mio articolo pubblicato su Ohga.it ed ho avuto l’occasione di trascorrere una piacevole giornata a Roma e di approfondire la storia di Alessandra Bisceglia.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Le storie che mi hanno più segnato in verità le porto dentro da prima di cominciare a scrivere, perché riguardano alcuni aspetti del mio vissuto. E forse da questo nasce quella sensibilità con cui cerco di accostarmi a temi delicati, alle esperienze cosiddette “forti”. Basta scorrere le interviste fatte nel periodo in cui ho scritto per Vanity Fair e se ne trovano davvero tante.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Io credo che in un mondo disattento, fatto di scroll sui social e di distrazioni continue, quello che attrae più l’attenzione sono le storie. Tessuti narrativi, ma realmente accaduti, in cui possiamo identificarci e da lì iniziare una riflessione su temi caldi, di attualità.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Io mi soffermerei proprio su queste due parole: “comunicazione” e “sociale”. Quando possono andare di pari passo è un grande traguardo, ad esempio se in un’azienda si fa attenzione agli aspetti di sostenibilità, sia ambientale che appunto sociale. Non esistono parole giuste o sbagliate, ma è importante che il linguaggio sia rispettoso nei confronti delle singole diversità.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

A volte può capitare di riproporre magari delle persone, o delle realtà che possono costituire di riferimento. Riparlarne ha senso se ci sono nuove iniziative o collegamenti con vicende appena accadute. In generale, ciò che non è mai stato visto colpisce sempre perché magari riporta alla mente bei ricordi e perché suscita nel pubblico curiosità e sorprese.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Come mi trovai a dire già in questa intervista lo scorso anno, il servizio pubblico è quello offerto in particolare dalla Rai, in quanto televisione di stato. Per il resto ogni testata o gruppo segue una propria linea editoriale e l’indipendenza o meno è legata a fattori soprattutto economici e di finanziamenti. E, parallelamente, c’è l’universo del brand journalism, siti online o riviste che si rivolgono alle imprese, citando successi e casi studio.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Penso che sia una definizione idealistica, nel senso che i percorsi diversissimi e chiunque intraprende questa strada cerca di fare del suo meglio. Per la crisi del settore, però, l’essere in gamba non è direttamente proporzionale alle continuità dell’impiego e delle collaborazioni, che si concludono per mille motivi, dovuti a un’evoluzione delle esigenze o a rallentamenti burocratici.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Lo conosco da anni, per cui non ricordo il momento esatto in cui ho ricevuto la prima mail, ma probabilmente è capitato negli anni di studio, attraverso le università. C’è da dire comunque che mi sono attivato, sin da quando ho iniziato questo mestiere, nel 2010, a cercare premi e concorsi a cui poter partecipare fino a vincerne tre, oltre alla menzione del “Bisceglia” nel 2021.

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