Intervista a Emanuele La Veglia

Giornalista professionista classe 1992, ha iniziato a scrivere articoli subito dopo il diploma. Su Ohga racconta storie di persone speciali tra salute e sostenibilità, mentre su Vanity Fair collabora alla rubrica “Donne nel mondo”. Parallelamente si occupa di tecnologia per testate specialistiche e di comunicazione per eventi e blog aziendali. Ama leggere e stare a contatto con la natura. Ex Sky e AdnKronos, ha uno spiccato interesse per le tematiche di inclusione sociale, frutto delle esperienze di volontariato, tra Caritas, Servizio Civile Nazionale e Società Umanitaria. Negli ultimi anni ha vinto tre premi giornalistici, indetti rispettivamente dal Rotary Club, dalla redazione L’altrapagina e dal Festival del Giornalismo Culturale. È laureato con lode in Editoria, culture della comunicazione e della moda all’Università Statale di Milano.

 

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sicuramente. Nella scelta dell’articolo con cui concorrere, mi sono concentrato su quelli dove emergevano, al tempo stesso, un vissuto personale e la descrizione di una malattia rara. Una storia in cui emergesse la volontà di divulgare e far conoscere gli effetti di una particolare sindrome attraverso iniziative sociali.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Tra quelle di cui ho scritto ci sono alcune storie che mi hanno toccato di più e, a mia volta, ho cercato di restituire ai lettori quello che ho ricevuto. Penso alle testimonianze di ragazzi che hanno realizzato i loro sogni o a delle grandi manifestazioni d’amore. Quando capita una frase, durante mie le interviste, che mi colpisce nel profondo tendo a inserirla sin dal titolo per far entrare subito nel vivo chi legge.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Tutto quello che non si sa ed è necessario che si sappia. Da un riepilogo su un determinato argomento, magari di natura scientifica, fino agli episodi nascosti, che si svolgono lontano dai riflettori e che meritano di essere conosciuti. Oggi l’informazione passa attraverso il giornalismo, ma diventa centrale in tanti altri contesti, dalle aziende alla sfera istituzionale. Il denominatore comune è un aggiornamento costante, con cui ricambiare la fiducia che le persone ripongono negli operatori dell’informazione.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

 Esistono agenzie di stampa, siti, e non solo, che hanno come focus proprio il sociale. Il panorama è comunque ampio. In alcune testate specialistiche è più difficile declinare i propri temi verso risvolti sociali, perché spesso gli argomenti trattati sono molto tecnici. D’altra parte, in quelle generaliste l’attualità tende ad occupare parecchio spazio, mettendo in secondo piano il mondo del volontariato o le esigenze dei più deboli. Credo tuttavia che, soprattutto dopo il periodo di lockdown, si sia tornati alla ricerca dell’essenziale, soffermandosi su segnali di speranza e buone notizie.  

  1. Quali gli effetti dei Mass Media e New Media sulla comunicazione sociale?

Possono essere un grande trampolino di lancio. Attraverso i social media un’associazione, anche piccola, può far conoscere in tutta Italia le proprie battaglie, allargando il proprio raggio d’azione. La rete, in generale, può rappresentare un’occasione per veicolare progetti di integrazione, iniziative di solidarietà e traguardi nella ricerca.       

  1. Esistono parole “giuste” per trattare la Comunicazione?

Qualche anno fa all’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, ho seguito un corso dal titolo “Tra le parole e i fatti: dove i pregiudizi condizionano la comunicazione”. Esperti del settore hanno esplorato una serie di titoli o articoli dove si rischia di far scattare l’odio e il giudizio, magari inconsapevolmente. Perché, ad esempio, si tende a specificare a tutti i costi la provenienza etnica o geografica di una persona? Dovremmo piuttosto raccontarne le motivazioni, i sogni, le aspettative… 

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

 Personalmente, oriento la mia ricerca verso notizie inedite in base alle fonti di cui dispongo. In ogni caso si può riprendere senza problemi un fatto già noto, optando per un approccio diverso dal solito. Ad essere nuovo sarà così il punto di vista che spesso capovolge quello che crediamo di sapere.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Un prodotto editoriale, a mio parere, assume una funzione diversa a seconda del target a cui è rivolto. Hanno un intento commerciale le testate aziendali e le varie manifestazioni di brand journalism. Il servizio pubblico è svolto in primo luogo dalla Rai, ma la totalità dei giornalisti iscritti all’albo deve impegnarsi nel diffondere la verità e a svolgere un ruolo chiave per la comunità.

  1. Che significa essere un buon giornalista?

Scegliere questa professione influisce sull’intero stile di vita. Non è una questione di buoni o cattivi, ma di alcune accortezze non intervenire pubblicamente se non si è preparati per farlo. Muoversi in coscienziosità, ricordando che si sta rappresentando una categoria che ha illustri predecessori.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Mi sono imbattuto nel bando durante una delle mie rassegne mattutine e ho pensato che era il momento giusto per parteciparvi. Mi muovo da anni nel sociale, sia lato comunicazione che con attività sul campo, e sono sempre attento a recepire alle novità e agli spunti che mi circondano.

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