Intervista a Cristina Da Rold

Cristina Da Rold, giornalista freelance e consulente nell’ambito della comunicazione digitale. Si occupo di giornalismo sanitario data-driven principalmente su Il Sole 24 Ore, L’Espresso e Oggiscienza. Lavora per la maggior parte su temi legati all’ epidemiologia, con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 è consulente per la comunicazione social media per l’Ufficio italiano dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Collabora con alcune riviste mediche più specialistiche per Il Pensiero Scientifico Editore, con cui ha pubblicato nel 2015 il mio libro “Sotto controllo. La salute ai tempi dell’e-health”. Nel 2019 ha messo a punto HealthCom Program, il primo corso in Italia, in 10 webinar sulla comunicazione sanitaria sui social media.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

No, mi occupo da anni di malattie rare.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Molto poco, specie con approfondimenti, in relazione alla marea di articoli brevi, spesso tratti da comunicati stampa e non studiati/elaborati, privilegiando la velocità.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Domanda difficile e bellissima. Non me l’ero mai posta 🙂 Sicuramente ci sono parole già scelte, con cura, da chi vive da vicino una malattia, ed è nostro compito rispettare il grande lavoro lessicale e semantico delle persone interessate. Rimane il fatto che la bellezza della narrazione è che a seconda di chi sono gli interlocutori emergono aspetti nuovi, nuove connessioni… con la mia rubrica Vite Pazienti accade spesso questo, proprio perché privilegio il dialogo, la chiacchierata e non ho mai domande precise, ogni volta si “improvvisa” e mi lascio guidare.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Non credo. L’importante è che ci sia la notizia, cioè un nocciolo, qualcosa di urgente da comunicare. A me personalmente non interessa dire sempre qualcosa di nuovo, ma magari dirlo in modo nuovo. Credo siano pochi, rari, i casi di argomenti in cui possiamo prenderci il lusso di pensare che non ci serva ripetere le cose… Io lavoro così: c’è ancora da migliorare/capire meglio/agire su un certo fronte (per es nei diritti del malato)? Se sì, allora dobbiamo continuare a scriverne/parlarne. Magari, appunto, in modo più accattivante, più vicino al lettore, se finora non siamo stati efficaci.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?
Dipende dalle testate, non si può generalizzare. Ci sono realtà che fanno un buon servizio pubblico, altre che privilegiano il clic. È chiaro che debbano sapersi tenere in piedi da sole, con un buon modello di business, ma l’informazione deve essere un servizio pubblico rivolto a chi ha meno strumenti per comprendere e scegliere, e non altro.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Qualcuno che studia molto di più di quanto scriva. Sento molti che alla domanda “perché vuoi fare il/la giornalista?” rispondono “mi piace scrivere”, “voglio viaggiare”, “voglio conoscere persone”. Tutto giusto, ci mancherebbe, ma io penso che il giornalista che poi si rivela davvero bravo non è quello che scrive meglio degli altri, ma quello che ha un tema, un argomento che gli brucia dentro, qualcosa che lo fa arrabbiare moltissimo e che lo spinge con il suo lavoro a
raccontare cosa non funziona, a migliorare. Per me, per esempio (ok, non me l’avete chiesto, ma ormai…) è la rabbia rispetto a chi rimane indietro perché nasce più sfortunato, o perché capita qualcosa, come una malattia, e non può beneficiare dello stesso trattamento di altri più fortunati, che magari non muovono un dito per lui.

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