Intervista a Chiara Esposito

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono venuta a conoscenza del premio grazie a una comunicazione ricevuta dal master in giornalismo della Lumsa. Ho deciso di partecipare perché credo fortemente nel ruolo sociale del giornalismo, ma anche per mettermi in gioco con la produzione di un contenuto audio visivo.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Assolutamente sì, nella misura in cui consente di ottenere una maggiore cassa di risonanza a storie che altresì resterebbero sconosciute.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

L’anno scorso ho partecipato alla settima edizione del premio Bisceglia. Nel rispondere a questa domanda, sentivo che a segnarmi di più era stata la storia di Simone, il bambino malato di Sma protagonista dell’inchiesta con cui avevo deciso di concorrere. Oggi, invece, mi verrebbe da dire che è la storia di Emanuela – protagonista del video racconto con cui partecipo quest’anno – ad avermi segnata maggiormente.  Forse è proprio questo il bello di questo lavoro: scoprire realtà che mai avresti pensato di raccontare e che, alla fine, portano ogni volta a scoprire nuove parti di sé.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Più che di ricetta credo si possa parlare di buone regole: non enfatizzare il dolore con uno stile eccessivamente sensazionalistico e non indugiare in particolari irrilevanti e lesivi della dignità della persona.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Non ho mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza, ma spesso mi sono imbattuta in un naturale senso di protezione manifestato da parte di familiari, amici o associazioni nei confronti dei soggetti coinvolti nei miei lavori giornalistici.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

No. Tematiche delicate come quelle promosse dal premio Bisceglia non godono della giusta rappresentatività e sono spesso confinate in una sfera narrativa di pietismo e sensazionalismo, soprattutto in televisione.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Se limitato a compiti ripetitivi (come sintesi, traduzioni, ricerca), l’intelligenza artificiale può costituire un valore aggiunto al lavoro del giornalista, in termini di tempistiche. Nessun rischio può essere corso fin quando non si cade nella tentazione di rilegare la vera attività creativa di produzione e scrittura alla macchina. Che non potrà mai sostituire l’empatia e la sensibilità necessarie a questo lavoro.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere un buon giornalista significa riportare e raccontare storie e notizie in maniera fedele alla verità accertabile dei fatti, con precisione e rispettando le regole deontologiche, nonostante la fretta imposta dai tempi di lavoro. Tutto questo con uno stile e un linguaggio che sia in grado di catturare l’attenzione del lettore/ spettatore. Significa, anche, avere la consapevolezza di poter dare voce a chi altrimenti una voce non l’avrebbe e non dare mai per scontata questa possibilità.