Ferruccio de Bortoli – Giornalista, già direttore del Corriere della Sera e de IlSole24ore
“Sono onorato di poter intervenire in questa occasione, nell’ambito della cerimonia di consegna del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia. Nella mia relazione vorrei sottolineare l’importanza di un giornalismo che vada a vedere, ascolti, comprenda tutte le situazioni … che si metta nei panni degli altri, anche di coloro che possono essere in un momento troppo distanti da quelle che sono le fonti di informazione classiche; vorrei cioè rivalutare fino in fondo la straordinaria importanza del lavoro del cronista; pur con le nuove tecnologie straordinarie che consentono – ma spesso ingannano – di capire le cose a distanza, un cronista moderno ha bisogno di rendersi conto, di vedere con i propri occhi, di ascoltare la voce delle persone coinvolte, di mettersi – come dicevo – nei panni degli ultimi, degli sconfitti, anche di quelli che sono ai bordi, che sono accusati di qualcosa.
È una forma di attenzione alle persone, senza pregiudizi, nel tentativo di capire e quindi di nutrire lo spirito critico di un’opinione pubblica che spesso, anche in una fase di diffusione disordinata e di nuove colate dei social network, può essere formata da persone che, magari riunite da algoritmi pensano soltanto in una direzione, vanno soltanto nella direzione di una ricerca di informazioni che corroborino le loro opinioni, se non i loro pregiudizi.
Questa funzione del cronista è stata prima molto bene sottolineata da Carlo Verna, da Paola Spadari e dagli interventi che si sono succeduti (durante i saluti istituzionali che hanno preceduto l’inizio del corso-convegno, ndr). Il capitale sociale di questo Paese è straordinariamente vasto e profondo. Insisto sempre su questo aspetto, perché comunque anche e soprattutto nel corso della pandemia, che non è ancora finita purtroppo, abbiamo visto quanto siano importanti le relazioni personali, quanto siano decisive le comunità – anche le più piccole – e come vi sia stata una grande forma di solidarietà. Il 60 per cento degli italiani ha donato qualcosa agli altri in difficoltà. Ma soprattutto gran parte degli italiani – e questo è un piccolo primato che il nostro ha rispetto agli altri Paesi con i quali si confronta spesso in termini negativi – ha donato il proprio tempo a favore degli altri. Questa constatazione sul capitale sociale nascosto del nostro Paese è di una straordinaria importanza. Ecco perché, noi abbiamo il dovere di raccontare questo capitale sociale, abbiamo il dovere di valorizzare le buone pratiche, che sono tante, che tra l’altro nella solidarietà e nel volontariato non c’è poi neanche tanta differenza tra zone e regioni del nostro Paese (come le differenze ampliate di reddito lascerebbero supporre), a dimostrazione di come nella storia del carattere degli italiani, quando si ha poco si valuta in maniera diversa il rapporto con gli altri e si dà un valore diverso al bene comune. Mi auguro che questa pandemia ci porti a raccontare meglio, di più, il bene comune.
Qui dobbiamo fare, però, una piccola sottolineatura. Abbiamo bisogno di giornalisti che raccontino il sociale, abbiamo bisogno di persone che raccontino il bene, che lo raccontino bene e anche in una forma avvincente, perché voi sapete – soprattutto chi, come il sottoscritto, ha fatto un po’ di cronaca nera – che i vecchi capi cronisti dicevano (non soltanto loro perché c’è anche una vasta letteratura in proposito) che addirittura c’è più romanzo nel male che nel bene. Ma no, non è così. C’è più romanzo nel bene, ma si tratta di raccontarlo bene, così come sul versante del volontariato e di chi si occupa di questioni sociali, quel bene va fatto bene. Il giornalista può essere estremamente utile non solo nel raccontare quello che sta accadendo, ma anche nel raccontarlo mantenendo la sua indipendenza di giudizio, la sua freschezza nell’approcciare una serie di temi, nel raccontare anche ciò che non va bene, pure laddove si fa del bene, perché questa è la funzione di un cronista. Il sociale non ha bisogno di cantori acritici. Qui dobbiamo uscire un po’ da questo equivoco. Guardate, c’è l’equivoco che quando si critica una determinata operazione, una determinata attività, sembra quasi che ci si opponga al fatto che si stia comunque facendo del bene. Ecco, però, quel bene deve essere fatto senza sprechi, raggiungendo le più importanti sinergie, cercando di dilatare il più possibile l’offerta del bene. Io la chiamo “dividendo del bene”. Ma per fare questo bisogna essere molto attenti a sottolineare e a criticare. Guardate, quando c’è una critica non c’è una mancanza di rispetto nei confronti di chi si sta dando da fare per gli altri. È una forma di attenzione critica, ma di grande rispetto nei confronti di tutti coloro che siano impegnati in una associazione di volontariato. Questo vale per l’ambito cattolico, così come vale per l’ambito laico. In Italia ci sono quei sei o sette milioni di persone che sono impegnate in operazioni di volontariato, nel fare del bene. Un milione di persone ha un posto di lavoro che è legato al terzo settore, ci sono 350 mila organizzazioni. Allora, non solo dobbiamo evidenziare la funzione civile e la centralità in Paese democratico di cronisti indipendenti, preparati (mi è piaciuta per esempio la sottolineatura sulla formazione), ma dobbiamo anche uscire dall’equivoco che il racconto del bene debba essere, sempre, un racconto acritico. No, deve essere, come è giusto che sia per ogni buon giornalista, un racconto critico, perché il terzo settore non è un semplice soggetto sussidiario dell’intervento pubblico, non è neanche un (punto) dello Stato nella gestione dei servizi, così come il privato sociale non può essere un prolungamento di forme di mecenatismo … e ce ne sono tante nella nostra società. A volte sono sicuramente virtuose, sono la proiezione di testimonianze, di slanci generosi, però a volte sono, se posso dire, un po’ troppo attente al ritorno di immagine. E dobbiamo fare attenzione a non privilegiare alcune attività – faccio solo un esempio di come potrebbe essere importante la funzione del cronista – che sono soltanto dirette per avere un ritorno di immagine, parlo del privato sociale, del mecenatismo, di molte persone che si danno comunque da fare. Beh, insomma, alcuni bisogni danno un ritorno di immagine superiore, altri bisogni ben più gravi, rischiano di essere trascurati, perché non danno un ritorno di immagine. Questo lo vediamo in molte attività. Certamente dà un ritorno di immagine superiore occuparsi del patrimonio artistico, ne dà molto di meno occuparsi di immigrati, di integrazione, oppure per esempio occuparsi di minori che vanno strappati dal carcere, portati in comunità e allontanati dal rischio di recidiva. Penso che il cronista del sociale debba essere un cronista attento anche a segnalare le criticità di un mondo straordinario, fantastico, diffuso, profondo, ricco, ma che ha dei difetti. A volte per esempio, voi sapete che molte delle attività sono legate a dei dolori personali e familiari e che producono tantissime associazioni, in ricordo di persone che non ci sono più. Sono testimonianze non solo di dolori personali, ma anche della voglia di ricordare i propri cari nel fare qualcosa per gli altri. Ma anche la generosità può essere irrazionale, può essere contraria al raggiungimento degli scopi statutari di una determinata associazione: allora questo può essere un limite. Raccontare queste realtà vuol dire farle crescere insieme. Un altro dei difetti del mondo del sociale – poi ne enumereremo naturalmente i tantissimi pregi – è il fatto che difficilmente si fanno sinergie. Ognuno è geloso della propria piccola – anche se preziosissima – attività. Ma quello che stiamo vivendo, i nuovi bisogni e le nuove povertà relative e assolute hanno bisogno di associazioni che si mettano insieme e che magari rinuncino al proprio nome, ma che aumentino il dividendo del bene: questo è fondamentale che accada. L’altro aspetto che volevo sottolineare è che un donatore non vuole disperdere il proprio gesto di bontà e quindi deve pretendere la massima trasparenza e la massima efficienza dalle associazioni e dalle organizzazioni del cosiddetto terzo settore. Il donatore, infatti, a differenza del finanziatore che mette in conto la perdita del proprio capitale, non accetta l’idea che il proprio contributo possa finire in strutture assolutamente inefficienti. Il racconto del sociale deve essere fatto da cronisti attenti, che danno il cuore svolgendo il mestiere fino in fondo, ma che devono avere qualche volta la freddezza di distaccarsi un po’ dalla vicenda. Il cronista, se infatti è troppo prigioniero della propria emotività, finisce con il far male il proprio mestiere, per essere totalmente riassunto dal fatto che vuole descrivere. È utile la figura del giornalista che mantiene una certa freddezza, che rimane professionista anche quando il suo cuore è coinvolto, quando partecipa emotivamente e condivide in pieno le finalità di un’associazione, ma che continua a svolgere il proprio mestiere. Se non intende questo tipo di dimensione e questo tipo di distacco diventa totalmente inutile come giornalista. Può essere, certo, una parte di una associazione di cui condivide le finalità. Benissimo! Ma è un altro mestiere, un’altra condizione dell’essere umano e del cittadino. Questo esempio che riguarda il capitale sociale, vale a maggior ragione anche per le altre attività umane. Vorrei alla fine, proprio per questo, spezzare ancora di più una lancia sull’utilità del cronista, che si mette nei panni anche degli altri, cerca di guardare al fatto che deve descrivere anche mettendosi da un punto di osservazione diverso. Oggi noi, anche grazie ai social network e grazie alla straordinaria tecnologia che abbiamo a disposizione rischiamo però di guardare tutti i fatti dallo stesso punto di osservazione, di avere uno spirito critico assai modesto e di essere un po’ confusi nell’onda di piena che si stabilisce magicamente nella giornata, nel flusso delle informazioni, delle opinioni e delle tendenze. Dobbiamo invece cogliere l’occasione di descrivere quanto sia importante il capitale sociale in questo passaggio storico importante per il nostro Paese. Guardate, il capitale sociale italiano è così vasto, profondo, utile e diffuso che probabilmente rappresenterà un vantaggio competitivo per il nostro Paese nel passaggio ad un’economia diversa, ai temi dell’inclusione, della sostenibilità non solo ambientale ma sociale. Ancora di più, però, se questo capitale sociale è così importante, fondamentale per il nostro futuro – e non soltanto per far fronte alle necessità e ai dolori e per rendere possibili gesti di amore e anche di testimonianza di memoria del bene, come nel caso del vostro Premio giornalistico – bene, a maggior ragione abbiamo bisogno di cronisti attenti, che descrivano bene, che siano indipendenti, anche distaccati, ma non freddi, perché così si riesce naturalmente a rendere conto all’opinione pubblica di quello che sta accadendo, in modo che si possa avere un’opinione corretta, avvertita, responsabile, critica, che forse si apprezzerà ancora di più e molto di più – e questo è un messaggio straordinariamente positivo soprattutto per i ragazzi che ci stanno ascoltando (la conferenza è stata trasmessa anche online, ndr.) – che il nostro è un bellissimo mestiere, ma che è anche una missione civile, indispensabile, irrinunciabile, importante. Grazie”.