PAOLO RUFFINI – Prefetto del Dicastero vaticano per la Comunicazione
Il tema che mi è stato affidato è in che modo il giornalismo può costruire oppure, al contrario, non costruire, una cultura di pace, nel senso più ampio di questo termine. Se guardiamo anche soltanto il tema delle guerre, ci sono 400 guerre più o meno nel mondo, 378 erano nel 2018 e credo che già questo dato basti a dirci quanto possa essere importante un giornalismo costruttore di pace in un tempo che, al contrario, è sempre più tentato della radicalizzazione, che viene dalla semplificazione e dalla voglia di correre subito alla conclusione, senza avere la pazienza della comprensione. Come afferma Johan Galtung, sociologo e matematico norvegese, fondatore del Peace Research Institute, che per tanti anni ha contribuito ad una trasformazione non violenta dei conflitti: “Sembriamo come genere umano, come esseri umani, essere giunti al punto di essere noi stessi i nostri peggiori nemici, maggior causa di morte e di ferimento da violenza e guerra, eppure spesso ci riferiamo a noi stessi come intelligenti, in cerca di qualcosa di altrettanto intelligente”. Studiando i quotidiani norvegesi del 1960 per capire come essi davano le notizie Galtung arrivò a quattro conclusioni: che per finire sui media le notizie devono essere negative; devono evocare la guerra, la violenza; devono essere rivolte all’esterno; e deve esserci qualcuno a cui dare la colpa, colpa che, aspetto non meno importante, deve spesso riguardare altri, altri Paesi, Paesi importanti, personaggi importanti di Paesi importanti. Per cui, se un evento corrisponde a uno o a tutti di questi quattro elementi, allora è più facile che diventi notizia.
Sono passati sessant’anni da allora, e certo l’Italia non è la Norvegia, ma sicuramente c’è, c’era e c’è, nella teoria di Galtung un fondo di verità, che l’era dei social in qualche modo sta ingigantendo. È conveniente infatti spesso costruirsi un nemico, è grande tentazione quella di semplificare, è costante l’uso di un linguaggio guerresco sui media e sui social. Vivevamo allora e viviamo ancora un tempo che ricerca, anzi costruisce, incessantemente capri espiatori per ridurre tutto o quasi tutto a un dualismo feroce, amico/nemico, pollice-pro/pollice-verso. Questo è un tempo che costruisce identità fondate sulla negazione dell’altro e che le costruisce anche attraverso i media, un tempo che cerca di convincerci fraudolentemente che l’unica alternativa a disposizione sia quella fra la negazione di noi stessi e la negazione degli altri. Nella globalizzazione frammentata in cui siamo immersi sono allora anche, certo non solo, ma anche i mezzi di comunicazione, e sono le reti social il crogiolo dove prendono forma e si formano le nostre identità in divenire, dove si forma una cultura di pace o una cultura dello scontro.
Vorremmo tutti poter dare e poter avere risposte semplici e anche semplicistiche, vorremmo tutti sentirci rassicurati dal fatto che di risposta ce n’è una sola, che non ci sono alternative, che non c’è da scegliere, ma purtroppo non è così. Le occasioni come questa servono a risvegliare i significati di quello che siamo, di quello che facciamo. Prendiamo allora la cosiddetta guerra contro la pandemia: a mio avviso è proprio per l’incapacità anche dei media e soprattutto dei social media di seguire la via lunga e difficile della comprensione e per la voglia di cedere alla prima suggestione, alla soluzione che ci viene venduta a più buon mercato, che rischiamo di trasformare la guerra contro la pandemia in una guerra di tutti contro tutti. Per Johan Galtung tutto inizia proprio dell’educazione dei giornalisti – e oggi dovremmo dire anche di tutti quelli che fanno comunicazione anche sui social, anche se giornalisti non sono, quindi di tutti i comunicatori- l’educazione a un giornalismo di pace. Scriveva: “Può essere diviso in due: giornalismo di pace negativo, che cerca di trovare soluzioni a conflitti al fine di ridurre la violenza; e giornalismo di pace positivo, che vuole esplorare la possibilità di una maggiore cooperazione positiva. In altre parole, il primo si concentra su un aspetto negativo e il secondo su quello positivo. Detto così si potrebbe pensare che ci sia una formula, un algoritmo, per il giornalismo costruttore di pace, ma anche in questo caso la realtà è più complessa, non c’è una regola, non c’è una formula, però può esserci un metodo, può chiamarsi giornalismo dialogico, giornalismo costruttivo, giornalismo della pace.
Ci sono tante iniziative di questo tipo, anche papa Francesco ne ha parlato in uno dei suoi messaggi per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: “La verità ci farà liberi, fake news e giornalismo di pace”. In ogni caso si tratta di un giornalismo fondato sul dovere del distacco, del dubbio, della critica, della verifica, sulla differenza fra il prendere parte e il partito preso, un giornalismo nutrito di un uso responsabile delle parole (anche questo è stato detto molto meglio di come dirò io). Che uso facciamo delle parole nel racconto di quel che siamo, di quel che facciamo, di come viviamo, nella costruzione cioè della nostra storia, che uso ne facciamo? Non è che ci succede che inseguendo un uso sbagliato delle parole, la storia stessa ci scappi di mano, diventi sguaiata, diventi violenta, si scriva quasi da sola? Le parole sono alla base della nostra comunicazione, per questo è bene che siano quelle e quelle giuste sono quelle che aiutano a capire.
Quanti titoli di giornale o quanti tweet evocano linguaggi di guerra, linguaggi di odio, per semplificare e accorrere a soluzioni che non sono quelle vere. Si, dunque, è vero, tocca anche ai mezzi di comunicazione ricostruire l’unità della famiglia umana, tocca anche ai mezzi di comunicazione e occorre una grandissima cautela di fronte al rischio di alimentare una narrazione fondata sul meccanismo amico-nemico che finisce per far sparire ogni forma di minimo comun denominatore, ogni forma di dialogo. Occorre comprendere che solo le false notizie, le false interpretazioni della realtà, le parole usate come pietre o come alimento per i tanti pregiudizi, gli incubatori di quel fanatismo che annienta ogni libertà. Un giornalismo costruttore di pace può contribuire a eliminare la falsa necessità della polemica, a sottrarre l’identità dall’obbligo di avere un nemico, può contribuire a svelare quanto sia falso il dilemma della scelta fra negare se stessi e negare gli altri, può custodire e tramandare i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fraternità umana, può educare al coraggio necessario per accettare l’alterità.
Una seconda riflessione che si può fare riguardo al giornalismo costruttore di pace riguarda la selezione delle notizie. Si potrebbe obiettare: allora il giornalismo di pace deve evitare il racconto della guerra, deve evitare il racconto del male? È chiaro che la risposta non può essere questa, non ha senso girarsi dall’altra parte. Il vero problema non è se raccontare, ma come raccontare. Non si può raccontare un mondo angelicato, non saremmo credibili, non si può pensare in nome del giornalismo di pace di non raccontare le guerre, di non raccontare le storie non buone. Il problema è il come, però, non il se. Le storie non buone sono le storie raccontate male, sono le storie che non cercano la verità, ma la manipolano, sono le storie che non svelano la menzogna, ma la usano.
Quando ero un giovanissimo giornalista, un vecchio collega insegnandomi come si facevano i titoli, mi disse che dovevo abituarmi a non scartare mai un titolo accattivante per essere fedele alla verità dei fatti. Un po’ scherzava, un po’ no, e in ogni caso non mi ha mai convinto. Non mi ci sono mai abituato né da giornalista, né da fruitore dei media. Ho sempre pensato che i titoli accattivanti sono titoli falsi, sono titoli cattivi, appunto accattivanti, ci portano fuori strada. Penso sia questo quello che ci dice, per esempio, il Papa nel suo ultimo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, dedicato proprio al tema del racconto: “Le storie non buone non sono quelle che indagano il male per combatterlo, sono quelle che tessono di male il racconto stesso e così facendo logorano e spezzano i fili fragili della convivenza”. Come scrive Italo Calvino nelle “Città invisibili”: “Inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno, è quel che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme, ma due modi ci sono per non soffrirne: il primo riesce facile a molti, accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più; il secondo è rischioso, esige attenzione e apprendimento continui, cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno, inferno non è, e farlo durare e dagli spazio”. Ecco, in questo dargli spazio, in questo non diventare parte dell’inferno, è il ruolo del giornalismo di pace, io direi è il ruolo del giornalismo, ed è il ruolo dei giornalisti, dei giornalisti professionisti in particolare.
Un’altra riflessione che vorrei fare riguarda il rapporto fra pace e sicurezza, a proposito delle guerre, della pace e del costruir la pace. Qui prendo in prestito le parole di Dietrich Bonhoeffer, per provare a capovolgere un sillogismo troppo facile, secondo il quale la pace dipende dalla sicurezza. Davvero è così? Non proprio, non sempre almeno. La pace si coniuga con la giustizia oltre che con la sicurezza, che non sempre è giusta, e certo non lo è quando riduce l’altro, a prescindere, a un nemico da cui difendersi. Cito dunque Bonhoeffer “Come si crea la pace? Con un sistema di trattati politici, mediante il denaro o addirittura mediante un riarmo pacifico generale con lo scopo di assicurare la pace? No, attraverso nessuna di queste cose e questo per un unico motivo, perché si confondono sempre pace e sicurezza, ma la pace va osata, mai e poi mai può essere assicurata, la pace è il contrario della sicurezza. Esigere sicurezza significa essere diffidenti e a sua volta la diffidenza genera la guerra”. Ecco, un altro elemento di riflessione a proposito del modo in cui intendiamo la comunicazione, riguarda l’obbligo per ogni buon giornalista di non vedere le cose da un unico punto di vista, l’obbligo di porsi dubbi, in questo caso di distinguere tra la sicurezza giusta e quella ingiusta.
La quarta riflessione che voglio condividere riguarda la rete, nel tempo della interconnessione dei social, del passaggio della società della comunicazione alla società della conversazione, dobbiamo stare attenti a non trasformare la rete in quel che essa per sua natura non è, non necessariamente almeno, un luogo dove più ci si addentra più si perde la propria unicità e la propria identità personale e anche l’orientamento, la capacità di distinguere fra vero e falso, coerente e incoerente, rimanendo intrappolati in un gioco in cui finisce ogni relazione vera. Le reti sociali sono diventate giornalismo sociale, dove appunto si fondano anche le nostre identità, le nostre conoscenze, le nostre memorie, le nostre scelte; da un lato ci permettono di essere in ogni luogo e in ogni tempo, e dall’altro il modo in cui ci avvolgono, virtuale, disincarnato, rischia di ridurre tutto ad un dualismo feroce, a quel dualismo amico-nemico che appunto non costruisce un giornalismo di pace, ma costruisce un giornalismo di rancori, una identità fondata sulla negazione dell’altro. Da un lato distruggono ogni alibi, dall’altro costruiscono alibi perfetti e spacciano opinioni per verità, inseguendo fantasmi che costruiscono in maniera instancabile. Da un lato riscattano le periferie dalla loro marginalità, nella rete non c’è centro e non c’è periferia, e ogni nodo è il centro, dall’altro rischiano di distruggere il mondo reale per sostituirlo con un luogo dove lo spazio e il tempo sono annullati, dove la radicalizzazione violenta diventa una tentazione facile, strumento potente e terribile, capace di fornire una figura a chiunque, ma anche di produrre maggioranze feroci e minoranze fanatiche, capace di unire ma anche di scavare divisioni profonde, trasparente ma anche opaco, custode della verità ma anche della menzogna.
Dunque la sfida del giornalismo costruttore di pace è esattamente qui, nella capacità di essere misura, metro, parametro, di fronte a tutto questo, di recuperare capacità di visione e di condivisione. Ho detto che non ci sono formule matematiche, è una questione di metodo, e ci sono tutti gli errori da evitare, non bisognerebbe mai decontestualizzare, non bisognerebbe mai cadere nella tentazione di semplificare, non bisognerebbe mai accontentarsi del paradigma del capro espiatorio. Bisognerebbe non cedere mai alla dittatura dell’istantaneità, controllando il riflesso mediante la riflessione. Perdonatemi dunque se concludo questo mio breve intervento con le parole di Papa Francesco ai giornalisti, quando ha ricevuto i corrispondenti alla stampa estera, il 18 maggio dell’anno scorso: “Vi esorto, dunque, a operare secondo verità e giustizia affinché la comunicazione sia davvero strumento per costruire e non per distruggere, per incontrarsi e non per scontrarsi, per dialogare e non per monologare, per orientare non per disorientare, per capirsi e non per fraintendersi, per camminare in pace e non per seminare odio, per dare voce a chi non ha voce e non per fare da megafono a chi urla più forte”.