Paolo Ruffini – Prefetto del Dicastero vaticano per la Comunicazione, già direttore di Rai 3 e del Giornale Radio
“Penso che starò nei tempi, forse sarò anche un po’ più breve, lo spero, perché non voglio annoiarvi. La mia non sarà una vera e propria relazione. Ho provato a buttare giù qualche appunto, come una testimonianza sul ruolo e sulla forza delle immagini per raccontare: questo è il tema che Raffaella (Restaino, madre di Alessandra e tra i promotori del Premio giornalistico, ndr.) mi ha affidato. Sappiamo tutti, l’importanza che le immagini hanno nel racconto di quello che siamo. Viviamo nella società dell’immagine, siamo tessuti di immagini e forse anche riguardo al modo in cui le immagini costruiscono il nostro immaginario personale e collettivo potremmo dire che noi siamo quello che mangiamo. Nel lavoro di informazione e di comunicazione dobbiamo per forza fare i conti con le immagini. Le immagini ci parlano, le immagini ci feriscono, le immagini ci svegliano, a volte ci anestetizzano, a volte svelano e a volte confondono. Non sempre sono vere, a volte sono false. Questa poi è una parte del ruolo di giornalisti che noi dobbiamo fare: discernere quali scegliere e quali no, quali tramandare e quali no. La foto abbinata ad un articolo non è solo un’esca, qualcosa che attira l’attenzione. A volte è la prima cosa che uno vede, ma spesso è anche l’unica … e può quindi nel bene o nel male farsi veicolo di un messaggio errato: vale per le foto, vale per le immagini, vale per le immagini in movimento e vale per l’audiovisivo. Ci vuole, quindi – per amore della verità e per una corretta informazione – altrettanta attenzione nella scelta delle immagini di quanto non ne mettiamo nella scelta delle parole … e ci vuole un sovrappiù di attenzione, come sappiamo, per le persone coinvolte, soprattutto quando si tratta dei minori o delle persone disabili o vulnerabili. Senza piena sintonia tra parole e immagini rischiamo di avere immagini che senza la parola sono mute o parole che senza le immagini sono secche. Le immagini alla fine rivelano il nostro sguardo. Ho provato a pensare ad alcune delle immagini di cui potevo provare a parlare oggi. Tutti noi credo che ricordiamo le immagini che hanno segnato la nostra storia personale, recente e collettiva. Credo che tutti noi ricordiamo, per quanto riguarda la storia recente, le immagini di Papa Francesco, l’anno scorso, un anno e mezzo fa in una piazza San Pietro terribilmente vuota, battuta dalla pioggia. Era il 27 marzo dell’anno scorso. Gli squarci di luce, il Papa che pregava, il suono delle sirene che rompeva il silenzio, il mondo intero che guardava il Papa avviarsi lentamente, a piedi, verso il sagrato. Le gocce che scorrevano sul volto e sul corpo del Crocifisso. Quelle immagini hanno intessuto una reazione potente, quasi una soggettiva dello sguardo del Cielo sugli uomini. Quelle immagini sono state fatte da colleghi giornalisti, fotoreporter, operatori. Esistono poi immagini che non sono neanche foto, sono immagini create da pittori, che la realtà anche la trasfigurano e che a volte possono essere utili anche a chi fa informazione e chi fa comunicazione, in questo caso sono stati utili all’Osservatore Romano che come sapete è uno dei media della Santa Sede e che quindi in qualche modo fa parte dell’universo che mi tocca coordinare in questo periodo. Anche queste immagini possono avere una forza dirompente. Quest’anno nel giorno del Giovedì Santo l’Osservatore Romano ha pubblicato un dipinto che ci era arrivato da un pittore dilettante francese che racconta lo scandalo della misericordia e che illustra pensiero che fu di don Primo Mazzolari, parroco lombardo del secolo scorso, un pensiero sul tradimento: “… e se fosse che Gesù tradito, Gesù che chiama amico Giuda mentre lo tradisce, lo avesse perdonato?”. Il quadro racconta Gesù resuscitato che abbraccia Giuda suicida per portarselo in cielo … e don Mazzolari diceva: “Lasciate per un momento che io pensi al Giuda che è dentro di me, che è dentro di voi e lasciate che io domandi a Gesù di accettare che ci accetti come siamo. Io non posso non pensare – disse in questa sua omelia straordinaria del Giovedì Santo – che anche per Giuda e il suo povero cuore la Misericordia di Dio non abbia fatto strada. Forse all’ultimo momento, ricordando quella parola, amico, e la accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse è il primo Apostolo che è entrato in Cielo insieme al Ladrone, in un corteo che certamente non pare faccia onore al Figliuolo di Dio come qualcuno lo concepisce. Ma questa forse è la Misericordia. Ecco, questa è una storia di morte e di Risurrezione che possibile raccontare per immagini. Ho portato qua, non so se riuscirete a vedere, la prima pagina dell’Osservatore di quel giorno con questo quadro. L’ho raccontata anche perché mi pare che questa immagine forse può essere contrapposta alla cultura della gogna mediatica e può aiutarci a dirci quanto, appunto, dobbiamo stare attenti nella scelta delle immagini, perché la storia ha un dinamismo che le immagini se le trasformiamo in gogna possono non avere. Questa capacità simbolica e contemplativa a volte è propria degli artisti, che cercano di scoprire l’essenziale oltre le apparenze. Ma a volte può servire anche a chi fa informazione. Questo convegno ci parla anche di nuovi linguaggi. I nuovi linguaggi, appunto, contaminano. In un suo bellissimo film sui senza fissa dimora – quindi, un documentario – un regista italiano, Corrado Franco ha raccontato per esempio per immagini il funerale di un barbone romano … si chiama “Al di qua”, un documentario bellissimo, per chi non lo avesse visto lo consiglio … in un cortometraggio portato a Venezia l’anno scorso una regista italiana, Alice Rohrwacher ha messo in scena il funerale della terra raccontando una coltivazione troppo intensiva di noccioleti nell’orvietano, chiudendolo con un epitaffio che sa di Risurrezione, dicendo: “Ci avete seppellito ma non sapevate che eravamo semi”, regalandoci una speranza che non è fondata su un intimismo di maniera, ma sulla capacità di leggere i segni dei tempi e di chiamare all’azione di semina le persone di buona volontà anche attraverso la comunicazione, perché – come si diceva prima – la comunicazione e l’informazione sono anche formazione. Poi c’è un altro genere di immagini: quelle che ci impediscono di dire “non sapevo, non potevo sapere, io non c’ero”: tutti ricordiamo le immagini dei carrarmati a Praga, quella del bambino che porta sulle spalle il corpo senza vita del fratello ucciso in guerra o di Kim Phúc, la bambina vietnamita che fugge dal fuoco del napalm che le aveva strappato i vestiti o anche le immagini del piccolo Alan Kurdi. Tutti noi verifichiamo ogni giorno le immagini nel bene e nel male e tocchiamo con mano quanto difficile sia l’esercizio della libertà, decidere cosa pubblicare e cosa no, perché le immagini possono restituire un senso al racconto, oppure possono davvero confonderci. Possono essere false e rovesciare persino il senso delle cose o coltivare una sorta di voyeurismo estetico del male. Possono essere uno schiaffo che ci risveglia dal torpore o uno schiaffo che ci dice “come fai a non vedere però?”. Come si fa allora a capire? L’Osservatore Romano pubblica ogni giorno – da quando abbiamo un po’ rivisto la sua veste grafica – una grande foto in prima pagina. Lunedì 17 maggio il direttore e la redazione dell’osservatorio Romano hanno deciso di pubblicare una foto che la settimana prima avevano pensato fosse più giusto non pubblicare. Lo hanno fatto dopo un appello del Papa a fermare lo spargimento di sangue innocente. Non è stato facile, ma la decisione sofferta si è fondata sul fatto che le parole le abbiamo a volte consumate tutte e che a volte davvero per capire dobbiamo vedere, dobbiamo vedere l’orrore. Quella scelta fu spiegata da un editoriale che adesso vorrei leggervi, perché racconta il perché di questa difficoltà di scegliere questa foto, che ora vi mostro: sembra quasi un quadro ma si tratta di una foto di mamme che piangono bambini, che piangono bambini uccisi dai bombardamenti”.
RUFFINI LEGGE L’EDITORIALE
“Quella che vedete nella prima pagina è una foto scioccante, un pugno sullo stomaco. Pubblicarla oggi è stata una scelta sofferta. Non è una foto di ieri o di oggi: è uno scatto della scorsa settimana. Quando l’avevamo vista è stata oggetto di riflessione e di una certa discussione. Andava pubblicata una fotografia con i volti riconoscibili e strazianti di due bambini distesi nella barella sotto gli sguardi disperati dei loro genitori? La settimana scorsa avevamo deciso di non metterla in pagina. Ma domenica 16 maggio a Regina Coeli implorando la pace, Papa Francesco ha parlato della morte dei bambini definendola inaccettabile. Loro, le vittime inermi e incolpevoli della guerra e della violenza sono i piccoli dai corpi martoriati. A Gaza in Israele, ma anche nello Yemen, in Siria e Iraq, in Afghanistan e nelle tante guerre dimenticate in Africa. Sono i corpi straziati dei piccoli migranti annegati cercando di attraversare un fiume o il mare aperto in cerca di salvezza e di futuro. Sono i corpi straziati dei bambini violentati e venduti ai trafficanti di esseri umani. Sono i corpi straziati dei bambini vittime del lavoro minorile. Chiediamo scusa ai lettori per questa foto choc. Ma le morti dei bambini sotto le bombe a qualsiasi popolo appartengano non ci possono lasciare indifferenti. Ci testimoniano ancora una volta che la guerra porta solo morte, distruzione e odio. Come insegna la drammatica esperienza dell’Iraq, i bambini pagano il prezzo più alto delle nostre sporche guerre e questo è inaccettabile e per capirlo veramente, scuotendoci dal torpore e dalle bolle dell’indifferenza dentro le quali spesso viviamo abbiamo spesso, purtroppo, bisogno di vedere”.
RUFFINI RIPRENDE IL SUO INTERVENTO DOPO AVER LETTO L’EDITORIALE
“Le immagini di cui abbiamo bisogno, allora, sono quelle che muovono il dinamismo della storia … e allora, visto che anche questo convegno in qualche modo richiama il messaggio di Papa Francesco per la comunicazione e visto il ruolo che oggi rivesto mi piaceva concludere questo mio intervento citando, questa volta, un brano del messaggio di Papa Francesco del 2020. Un messaggio che dice come tutti noi abbiamo bisogno di storie che nutrano la nostra anima e come le storie hanno bisogno di immagini per nutrirsi. L’uomo – adesso cito il Papa e chiudo – è un essere narrante. Le storie influenzano la nostra vita anche se non ne siamo consapevoli. Spesso decidiamo che cosa sia giusto o sbagliato in base ai personaggi e alle storie che abbiamo assimilato. I racconti ci segnano, plasmano le nostre convinzioni e i nostri comportamenti. Possono aiutarci a capire e a dire chi siamo. L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità. Ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi e di vestirsi di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti. Infatti la capacità di tessere conduce sia ai tessuti che ai testi. Le storie di ogni tempo hanno un telaio comune, la struttura prevede degli eroi, anche quotidiani, che per inseguire le situazioni difficili combattono il male sospinti una forza che li rende coraggiosi: quella dell’amore. Immergendoci nelle storie possiamo ritrovare motivazioni, anche eroiche, per affrontare le sfide della vita. Queste storie si raccontano anche con le immagini. Grazie”.