Massimiliano Padula – docente Università Lateranense e Presidente Copercom
Elaborare una riflessione sul legame tra giornalismo/informazione e cultura digitale non può prescindere da un discorso centrato sulla complessità dello scenario contemporaneo i cui fenomeni (compreso quello informativo) sono in continua trasformazione. Le conclusioni a cui si arriverà saranno, quindi, parziali e certamente mutevoli in un futuro prossimo. Alla luce di questa premessa, il legame succitato (informazione-digitalizzazione) merita di certo una riconsiderazione se si tiene conto della rimodulazione dell’universo giornalistico negli ultimi decenni: il riferimento non è esclusivamente alla diffusione delle tecnologie digitali e alle piattaforme social (che hanno certamente riposizionato la riflessione intorno alla questione). L’accento è invece da porre sulla cornice sociometrica che vede – come riportato dall’Osservatorio sul giornalismo dell’Agcom nel 2020 – “gli ultimi venti anni […] contraddistinti, in Italia, da un deciso invecchiamento della popolazione giornalistica, con la progressiva scomparsa di under 30 e una forte riduzione di under 40.” Si tratta di un rapporto – quello dell’Autorità garante delle comunicazioni – che ben fotografa la situazione giornalistica italiana ed evidenzia come “più di quattro giornalisti italiani su dieci rientrano nella categoria freelance” (costituita da autonomi e parasubordinati) e confermano di conseguenza “le profonde e strutturali differenze in termini di reddito tra questi ultimi e i dipendenti”.
(CONTINUARE A) INFORMARE TRA MOTIVAZIONE, DONO, GARANZIE E INSTABILITÀ
Non ci si soffermerà ulteriormente sulle caratteristiche proprie di ognuno delle due categorie. È importante, invece, fare una sottolineatura su alcuni aspetti che caratterizzano l’impatto dell’informazione sulla società.
Il primo è la motivazione.
L’aspetto motivazionale continua a essere alla base del lavoro giornalistico anche per coloro (sempre di più) che svolgono la professione nonostante condizioni di precarietà e basso reddito. Potremmo definirli giornalisti idealisti”. Si tratta di coloro che nonostante manchino di garanzie contrattuali e retribuzioni dignitose (per molti di loro il giornalismo non è prima attività), attribuiscono maggiore importanza all’opportunità di essere utili alla collettività o al grado di autonomia oppure alla possibilità di avere una qualche influenza sull’agenda politica.
È interessante notare come lo sviluppo di quella che possiamo definire una “informazione idealista” rimandi, in un certo senso, a un giornalismo animato da ciò che Jacques Godbout definisce lo spirito del dono, che rende “ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”. Il dono, dunque, è la seconda variabile emergente di una informazione libera, priva di garanzie di tipo economico e che si basa sulla solidarietà creando legami tra le parti coinvolte. L’analisi del sociologo canadese può essere presa in prestito per riflettere ancora una volta sull’informazione oggi. Una informazione che si fonda su un concetto di libertà allargata (non solo garantita dal diritto di libertà) ma anche dalla moltiplicazione degli spazi e dei tempi informativi grazie alle logiche del web. Ancora, lo scenario informativo è sempre meno strutturato in termini tradizionali. Siamo di fronte a uno scenario piuttosto semplificato, in controtendenza con l’aumento esponenziale delle situazioni di complessità a livello sociale: esistono – come si è scritto – giornalisti garantiti (dai contratti nazionali o da altre forme contrattuali a loro tutela) e giornalisti instabili sia per l’incertezza relativa alle dimensioni proprie della professione (contratti, retribuzioni, altre garanzie) sia per l’indeterminatezza della tradizionale prassi giornalistica che è sempre più fagocitata e orientata dalle logiche della cultura digitale. Entrambi non rifiutano le opportunità, lo evidenzia la ricerca Agcom parlando di “normalizzazione ibrida”) offerte dal digitale, ma con motivazioni differenti. Se per i garantiti che lavorano per media tradizionali un profilo social è un’opportunità addizionale alle consuetudini assicurate del proprio mestiere, per gli instabili (secondo i dati del Rapporto la maggioranza opera per testate online) diventa spesso la sola strada per affermare la propria professionalità. Un’ultima istanza che contraddistingue l’impatto dell’informazione sulla società è il dato anagrafico dei professionisti dell’informazione. Siamo di fronte a una informazione vecchia nel duplice significato che ci offre la lingua francese: quello di âgée, nel senso di anziano, fatta strutturalmente e istituzionalmente da non più giovanissimi; e quello di ancien, ovvero di qualcosa che un tempo era operativo e funzionale e, adesso non lo è più (obsoleto, si direbbe in italiano). Alla luce di queste premesse viene da chiedersi ancora quale (e quanto) sia l’impatto della informazione (intesa come professione giornalistica) sulla società.
INFORMAZIONE AL BIVIO (O IN VICOLO CIECO): IDENTITÀ, TEMPI, SPAZI DEL GIORNALISTA
Probabilmente fino a qualche anno fa, una riflessione sull’impatto dell’informazione sulla società avrebbe avuto presupposti differenti. Avrebbe prevalso un atteggiamento di apertura, di entusiasmo, di passione e positività verso il futuro, sollecitato dalle novità della cosiddetta “rivoluzione digitale”. Le valutazioni a riguardo sarebbero state dirette alle sfide del giornalismo nella nuova cultura del web, alla possibilità di abitare nuovi spazi e di esplorare nuovi linguaggi. Oggi, ci si ritrova a riflettere, invece, di scenari e sfide differenti, con margini di preoccupazione, d’insicurezza, di non consapevolezza di quel che sarà. Questo stato d’animo non può essere scisso dall’adesso. Contemporaneità oggi significa anzitutto “incertezza”, ossia quella conditio humana – scrive Ulrick Beck – nella quale “le barriere delle competenze specializzate cadono”. Questo è ancora più evidente nella contemporaneità (post) pandemica nella quale il ruolo dell’informazione è stato centrale a livello di copertura e fonti, ma anche – come è ormai triste realtà – nei termini di disinformazione, misinformazione e infodemia. L’incertezza quindi investe un mondo dell’informazione profondamento destrutturato da un punto di vista identitario, dei suoi tempi e dei suoi spazi. Questo decostruzione non riguarda naturalmente soltanto l’ambito giornalistico ma, più in generale, investe la società e i suoi innumerevoli fenomeni. È innegabile, infatti, che il web (inteso come tecnologia, ma anche come apparato culturale generatore di percezioni, simboli, narrazioni e rappresentazioni specifiche) abbia sovvertito l’immaginario consueto e delineando nuove pratiche e nuovi formati socio-culturali. La professione giornalistica tende a ibridarsi sempre più con le professioni del web, e molti giornalisti iniziano a impiegarsi in attività di social media management e content management. Questo processo porta certamente a una ridefinizione dell’identità del giornalista.
L’IDENTITÀ DEL GIORNALISTA
La cultura digitale, infatti, ha annullato alcuni paradigmi archetipici del giornalismo de-professionalizzandolo (in senso scolastico, deontologico, ordinato), ossia spogliandolo di quell’etichetta di esclusività che lo ha sempre contraddistinto. Il rimando, in questo caso, è abbastanza evidente. Se con i media tradizionali (possiamo definirli media offline) il rapporto creatore/fruitore era decisamente sbilanciato sul primo che si poneva come metamedium (ovvero mediatore dello strumento tecnologico) assoluto, nel caso dei media digitali questo legame trova inaspettatamente un equilibrio stabile. Da qui scaturisce una rimodulazione dei ruoli che, in alcuni casi, destabilizza, sovverte il certo, spalanca spiragli di novità. Si pensi a come negli ultimi anni si sia trasformato totalmente il contesto competitivo di un giornale. Da ristretto, limitato ad alcuni competitors definiti (e quindi riconoscibili e controllabili), si è allargato, ovvero ha sciolto i suoi confini ritrovandosi in un ambiente molteplice e spesso indefinito dove uno youtuber o un account Twitter o Instagram di un influencer (chi sul web fa tendenza, crea seguito) possono fare informazione e opinione in modo più incisivo, con più appeal, in spazi di fruizione più agevoli, giocando con tanti codici e linguaggi, in tempi contratti. Non si dimentichi, inoltre, che in questo vaso di pandora esploso è presente anche il lettore che diventa coautore (prosumer) e quindi, un nuovo, potenziale concorrente. Per sintetizzare: si è passati da un mercato definito nel quale a competere erano i giornali, le redazioni, gli stessi media a un spazio informativo allargato caratterizzato da una molteplicità di interlocutori, ognuno dei quali (può) fa(re) informazione. In un certo senso giornalista e lettore sono diventati concorrenti, ma possono altresì finire per mescolarsi ed evaporarsi da un punto di vista identitario. Lo dimostra anche la decostruzione dilagante di due grandezze costitutive dell’agire giornalistico: il tempo e lo spazio.
IL TEMPO DEL GIORNALISTA
Una delle caratteristiche della cultura mediale è lo sbilanciamento del tempo sul presente. Questo significa considerare la memoria come un optional oppure come un automatismo digitale che ricorda ogni cosa senza selezionare (c’è sempre qualcosa che ci ricorda, c’è sempre un archivio a disposizione, ci sono sempre fonti disponibili da cui attingere) e disinteressarsi di un ciò che sarà. È questo uno dei motivi che certamente condiziona e sbilancia l’impatto dell’informazione sull’oggi sacrificando la memoria e non curandosi del futuro. Questo scenario è evidente nella pratica giornalista quotidiana o periodica. Colui che lavora per un quotidiano scrive per un futuro prossimo. E quando quel futuro diventa presente racconta di un passato prossimo. Si pensi, altresì, a chi scrive per un quindicinale o per un mensile: il racconto del suo presente diventa, in un batter d’occhio, passato remoto. Sono effetti evidenti (e per giunta banali) di una contemporaneità mediale spinta sul presente, ovvero sulla soddisfazione immediata di qualunque bisogno. Compreso quello informativo che è ormai soddisfabile nell’immediato attraverso lo screen del nostro smartphone.
LO SPAZIO DEL GIORNALISTA
Tempo chiama spazio. L’antropologo francese Marc Augè spiega come oggi, tutti gli individui, devono confrontarsi con “una ideologia della globalità senza frontiere, che si manifesta nei più diversi campi dell’attività umana mondiale”. Secondo l’antropologo “sul pianeta si moltiplicano gli spazi di circolazione, di consumo, di comunicazione, rendendo visibile molto concretamente l’esistenza della rete”. Questo scenario da reale è diventato sempre più percepito. Ogni individuo, infatti, ha colto nell’abbattimento delle barriere spaziali un’opportunità di migliorare e ampliare il proprio lavoro. Si pensi al lavoro quotidiano del giornalista e alla scrittura di un pezzo. Il web (potenzialmente) ingloba e sostituisce tutto, annulla l’attesa, moltiplica il ventaglio di interlocutori, elimina (potenzialmente) l’errore, la mancanza, la lacuna, completa la conoscenza. Gli spazi si ampliano, si globalizzano, ma nello stesso diventano indistinti. Lo spazio redazionale classico sparisce, diventa nomade, viandante, itinerante. Alla comunicazione politica, ad esempio, sta sempre più stretto un corsivo, un editoriale su un giornale o un settimanale. Predilige spazi radicali, autopromozionali in cui non c’è il tempo dell’approfondimento, in cui la mediazione è sempre più sfumata, in cui i filtri sono sempre più aperti, in cui la costruzione dell’opinione è sempre più immediata. Si pensi a Twitter diventato in pochi anni (gli ultimi dati rilevano una flessione significativa) il luogo privilegiato della comunicazione politica perché asciutto, chiuso, propenso alla contrapposizione immediata, alle dinamiche del conflitto, all’emozione istantanea, alla reazione di pancia. Lo stesso vale per Instagram che risulta uno spazio crescente di influenza sociale che, attraverso cui un’esperienza foto-ritoccata e una conseguente prospettiva migliorata, determina consenso e gratificazione immediata.
LA LOGICA DEL DIGITAL FIRST
Decostruire spazi e tempi tradizionali incarnandoli in pratiche e formati giornalistici orientati da quelli della Rete sembra l’imperativo funzionale. Lo fa già che nasce giornalista digitale. Lo iniziano a fare i media mainstream come i quotidiani o le redazioni televisive. Lo spiega bene Maurizio Molinari nell’ordine di servizio ai suoi giornalisti, diventato ormai un caso di scuola.
PER CONCLUDERE: VIZI PUBBLICI E VIRTÙ PRIVATE DELL’INFORMAZIONE
Un vecchio adagio popolare recita così: “Fai come il prete dice, ma non come il prete fa”
La conclusione di questo contributo parte proprio dall’incoerenza dilagante di un universo informativo che risulta caotico e turbolento alla luce del presente digitale. Un giornalismo che spesso predica bene ma che può razzolare male, cedendo alle tentazioni di un consenso prêt-à-porter, di contenuti snackable e acchiappaclick. Alla luce di questo scenario, il giornalismo all’arsenico e vecchi merletti, del tempo che fu, delle macro redazioni alla Quarto (giornali) e Quinto Potere (la televisione), difficilmente potrà tornare. Si tratterà di casi isolati, a tempo determinato, legati al finanziatore di turno o all’iniziativa personale di gruppi di giornalisti. Lo spiega in modo illuminante l’economista Julia Cagè quando auspica (per scongiurare la morte dei media informativi) a nuovi modelli di governance e di finanziamento, tali da consentire ai mezzi di informazione di evitare di diventare preda di miliardari in cerca di potere. La studiosa francese propone per i media un nuovo modello associativo, una organizzazione no profit a metà strada tra una fondazione e una società per azioni. Solo così – spiega – si potrà garantire indipendenza, ci si potrà svincolare dal sistema degli aiuti di stato, si potrà conferire un potere decisionale ai “lettori, agli ascoltatori, ai telespettatori, ai giornalisti, garantendo una riappropriazione democratica dell’informazione per chi la fa e per chi la consuma. Non manipolata da chi vuole fare opinione. Non manipolata da chi detiene un capitale sufficiente per influenzare i nostri voti e le nostre decisioni”.
Il cambiamento però, oltre che strutturale, riguarda in primis la forma mentis giornalistica. È necessario ristabilire priorità e punti fermi della professione sfatando anzitutto quel mito che vede il passaggio al digitale come l’unico tentativo di svolta, la soluzione olistica dei problemi. Questo approccio è, per certi aspetti, limitante e non tiene conto della naturalizzazione (e normalizzazione) che riguarda anche il rapporto tra informazione e società: “l’aspetto più evidente del vivere contemporaneo è la fine dei dispositivi mediali che aveva caratterizzato la modernità»12. Oggi, infatti, non è più possibile stabilire con chiarezza cosa è mediale e cosa non lo è, né si può definire quando entriamo in una situazione mediale e quando ne usciamo. […] I media sono ovunque. L’evoluzione del giornalismo è l’esempio perfetto di questo cambio di paradigma epico che si fonda su tre concetti bene espressi dal semiologo dell’Università Cattolica: naturalizzazione, soggettivazione e socializzazione. Si pensi a come le pratiche giornalistiche siano sempre più connaturate alle nostre esistenze quotidiane ed incentrate su uno sguardo soggettivo, su un punto di vista “ipersonale”13 e sempre più condivise e socializzate con altri. L’informazione oggi è anche questo: un infinito processo di notiziabilità dell’esistente, nel quale ogni fatto è potenzialmente raccontabile, indipendentemente dal suo valore di notizia. Un meccanismo che prescinde sempre più spesso dalle norme deontologiche per riaffermarsi in modo imperscrutabile, inintercettabile. Prenderne coscienza uscendo dai labirinti dell’autoreferenzialità è il primo passo per non deturpare la bellezza di una professione che fa del racconto autentico il suo fondamento più robusto.
I rischi sono di questa mancata comprensione sono molteplici. Se ne individuano tre principali sintetizzati in altrettanti passaggi.
- Da esclusivi ad esclusi
- Da identitari a identici
- Da opinion leader (e maker) a opionion slave
Il giornalismo è sempre stato un mestiere elitario. Chi deteneva le redini dell’informazione ha da sempre goduto di privilegi a diversi livelli. Il tesserino è sempre stato una sorta di passe-partout sociale. Oggi questa esclusività rischia di disperdersi nel disordine digitale e di trasformarsi in esclusione. Diretta conseguenza della potenziale esclusione è la perdita dell’identità di un mestiere considerato “eletto”. Il giornalista ha sempre avuto una connotazione identitaria ben evidente, esercitando un potere rilevante a livello sociale, distinguendosi per i suoi ruoli e le sue funzioni e differenziandosi per i temi trattati. Oggi gli spazi digitali rischiano di renderlo indistinto, incapace di caratterizzarsi rispetto a ciò che gli somiglia sempre più. Nello stesso tempo, la restrizione delle garanzie contrattuali ed economiche riducono in modo esponenziale la sua libertà di espressione indebolendo altresì la sua capacità generativa, la sua curiosità individuale e la sua propensione all’originalità e all’approfondimento. Rischio reale è ritrovarsi giornalisti in serie piegati alla schiavitù dell’audience, al numero di copie vendute (sempre meno, purtroppo) e ai click, like e visualizzazioni. E un escluso e un unknow (senza identità) non può che ridursi a diventare schiavo: dell’opinione dominante, della vulgata pseudo-rivoluzionaria, del capopopolo di turno, del contenuto più scioccante, di una estetica immorale e di tutto ciò che può dare linfa vitale al suo prodotto editoriale, mentendolo in vita forse, ma svuotandolo della sua capacità di creare opinione. Il legame tra informazione e società di gioca su queste minacce che possono diventare, però, anche sfide e opportunità importanti. Essere uomini, giornalisti, professionisti mediali significa anzitutto intercettare il latente, l’incerto, gli assiomi della contemporaneità. Significa ristabilire un legame equilibrato con le grandezze sociali più importanti come lo spazio, il tempo e l’identità. E anche condividere pratiche culturali ad hoc fondamentali per agire giornalisticamente in modo efficace ed efficiente. Non è un’operazione facile. L’umanità è per definizione instabile, tende all’autocompiacimento, alla distrazione, alla stanchezza. Per questo anche chi fa informazione deve essere protagonista di un percorso educativo. Che non fa riferimento alle mere competenze giornalistiche (le cosiddette “basi del mestiere”) ma a una graduale presa di coscienza delle proprie “qualità superiori” (Pier Cesare Rivoltella le chiama “virtù del digitale”) adottando costumi esistenziali come l’etica della professione, il gusto per la libertà di opinione, l’intelligenza dell’approfondimento, la ricerca della verità e la sua successiva affermazione. Sono queste le basi per un giornalismo che abbandoni il suo ruolo novecentesco di “powerful media” per vestire quello di “service media” (media in the service of). Soltanto così questo nobile mestiere (il giornalista della Gazzetta dello sport Luigi Garlando lo definisce “il mestiere più bello del mondo”, nonostante per alcuni sia sempre meglio che lavorare) potrà scongiurare l’estinzione e (ri)diventare una professione dotata di saggezza, ovvero di quella capacità di trovare soluzioni pratiche, creative, appropriate al contesto ed emotivamente soddisfacenti a problemi umani complessi. In conclusione, per ristabilire un sano impatto dell’informazione sulla società la strada da percorrere è quella della costruzione di una “digital journalism skillness”, ovvero di ciò che Ryzard Kapuscinski, parlando del proprio mestiere, chiamava il “Pianeta della Grande Occasione”: un’occasione non incondizionata, ma alla portata solo di coloro che prendono il proprio compito sul serio, dimostrando automaticamente di prendere sul serio se stessi. Un mondo che se, da un lato, offre molto, dall’altro chiede anche molto e dove cercare facili scorciatoie significa spesso non arrivare da nessuna parte.