Mirella Taranto – Capo Ufficio Stampa Istituto Superiore di Sanità
“Volevo iniziare con un ricordo di quando ero giovane come loro (i ragazzi di un corso di giornalismo che hanno partecipato all’evento in presenza, ndr.) e mi veniva detto: ma tu cosa vuoi fare? La giornalista scientifica, sembra un ossimoro dire di voler fare giornalista scientifica! In queste parole si racchiude un po’ il senso dell’intervento che starò per fare. Ho vissuto in prima persona la pandemia dal punto di vista della comunicazione dei vari dati. Ma in realtà comunicare la pandemia è significato comunicare nell’incertezza: comunicare qualcosa di scientifico che è assolutamente difficile da tradurre in un format giornalistico, che è un format binario, di realtà. Ho fatto un’analisi su quello che è stato il nostro canale social, che abbiamo molto potenziato come gruppo e portato da 4mila a 80 mila followers. Abbiamo un canale che oggi rispetto ai nostri pari in Europa è tra i più seguiti. Abbiamo un numero di follower che oggi è superiore a quello dei Centri di controllo malattie europei. È stata una grande fatica, una grande soddisfazione, ma anche una grande lezione. Mi faceva piacere raccontare l’incertezza di una comunicazione che vuole raccontare l’epidemia: una incertezza che ha interessato anche il mondo dei social. Solo il 20 per cento della popolazione adulta ha strumenti per leggere, scrivere e calcolare, necessari per orientarsi nella società. Il giornalismo è un’offerta di domande o una proposizione di risposte? Siamo tra l’altro tra le popolazioni – siamo anche dietro la Spagna – che hanno meno alfabetizzazione scientifica. Siamo dei grandi umanisti, ma quando raccontiamo quello che la scienza ci dice di una epidemia lo andiamo a raccontare con degli strumenti ed un linguaggio che non è altissimo. L’incertezza è il comune denominatore che accompagna fasi lunghe, sia nella comunicazione di crisi che nella comunicazione del rischio. Le incertezze, però, per creare un rapporto di fiducia con il pubblico devono essere riconosciute e descritte. Un giornalismo che non si sforza e non ha il coraggio di descrivere l’incertezza è un giornalismo che non aiuta, soprattutto in una fase di pandemia. Questo non vuol dire che la comunicazione debba essere incerta e ve lo dico dal mio punto di vista: di una istituzione in cui, quando io dico che di un tema parla un gruppo e non parla un altro, questo non significa censurare un gruppo di ricerca o un altro punto di vista scientifico; significa che nei tempi di pandemia bisogna dare una comunicazione univoca anche nel rispetto della popolazione. Significa semplicemente prendersi la responsabilità, in quel momento, di dare una direzione. L’atteggiamento diverso lo può avere una università, una comunità scientifica, non lo può avere una istituzione della sanità pubblica, che deve indirizzare i cittadini. Il nostro sistema cognitivo gestisce male l’incertezza. La lingua dei giornali gioca su questo. Ma lingua della scienza ha un solo significato. La lingua ordinaria – che è quella con cui leggiamo e decodifichiamo i messaggi – è quella che sfrutta l’aspetto connotativo di una parola, con un nucleo e una serie di aspetti. Le sfumature semantiche, però, nella scienza non esistono. La nostra è una comunicazione complessa e per questo bisogna calibrare bene il messaggio. Vi faccio un esempio: abbiamo avuto una serie di interviste, scelto di non andare nei salotti televisivi, dato messaggi chiari, univoci. Ma anche in un tipo di comunicazione equilibrata c’è ad esempio la differenza fra la risposta di un professore e la titolazione – (la relatrice fa alcuni esempi mostrando articoli pubblicati in una slide nel video al minuto 9 al minuto 10.40, ndr.) – Quando siamo andati sui social abbiamo avuto a che fare con i complottisti, con una serie di comunicazione non verificate (ciò che distingue un giornalista da un blogger). Non è stato facile. L’istituzione pubblica deve avere però i social per ottenere ascolto, perché ormai l’informazione tradizionale è diventata di nicchia. Se si deve parlare di un’epidemia, i ragazzi si captano sui sociali. Bisogna quindi sforzarsi per esserci. Allora, abbiamo cominciato a utilizzare le grafiche, per l’importanza del linguaggio visivo e ci siamo attrezzati da quel punto di vista diventando un grosso gruppo che utilizza tanti mezzi. Abbiamo iniziato a lavorare facendo visualizzare il tema con infografiche, ad esempio come quelle sui possibili pericoli o meno dei vaccini. Leggere i numeri non è una cosa semplice, anzi. Soprattutto quando si vogliono proteggere persone fragili, anziani, donne in gravidanza. Abbiamo smontato uno per uno i falsi miti, ottenendo un buon riscontro sulla stampa. Questo, anche grazie al rimbalzo dei social. Siamo stati aiutati a salire come followers, ma se non avessimo alimentato questo social con contenuti non saremmo riusciti ad avere questi risultati. Twitter per noi è il canale più seguito, fra tutti quelli aperti. Tutti stanno crescendo, ma Twitter ha una differenza in termini di target. Twitter è proprio uno strumento da ufficio stampa. Con Twitter avevo il contatto con la casalinga e con l’impiegato. Con Twitter contatto i miei colleghi e parlo con tutti quei gruppi attivi, non come i complottisti con i quali parlare è inutile, ma con gli esitanti, con coloro che hanno il diritto di esitare: quelle persone che chiedono informazioni per poter essere messe nelle condizioni di scegliere. Quello è il nostro target. Facebook, invece, è un’altra cosa: comincia a servirsi più di storytelling ed ha un’interazione a livello emotivo. Instagram è quello che fatica di più, perché è un canal fashion, che però ha un andamento oscillante e risente maggiormente delle polemiche anti vaccino. Tuttavia continueremo, perché stiamo organizzando ad esempio un bell’archivio di immagini. Su Instagram abbiamo fatto anche i quiz, per cercare di elevare l’alfabetizzazione scientifica e di aumentare la conoscenza di ciò che sta dietro alle cose, stimolando la competizione. I vaccini sono sicuri e efficaci? Bisogna capire quali sono i farmaci e cosa fare rispetto all’evidenza. Questo è il nostro compito. La scienza indica i fatti e risponde ai fatti. La politica decide cosa fare in base alle evidenze. È stato molto difficile spiegare ai giornalisti in questi mesi, che quando volevano sapere se chiudevano o meno i cinema o se il green pass fosse giusto averlo o no, che non potevamo rispondere a queste domande. È stata la mia fatica maggiore. Non è giusto, non è democratico, sarebbe tecnocratico. Prendiamo delle evidenze, diciamo i trend e spieghiamo quali sono i rischi, con quel margine di incertezza che siamo costretti a comunicare. È alla politica, al ministero e ai governanti che bisogna chiedere se i teatri aprono o chiudono. Entrambe le cose richiedono trasparenza e responsabilità. Quando riportiamo una stima ottenuta da un’analisi statistica, stiamo riportando una estrapolazione della realtà con dei margini di incertezza, poiché si tratta sempre di interpretazioni di dati. Più informazioni si pubblicano, più è difficile avere un valore numerico che ci racconti la verità. Penso, sostanzialmente, che nella dichiarazione dell’incertezza dobbiamo costruire e crescere tutti. Dobbiamo aprire un varco in quel margine di incertezza, dove far crescere la fiducia fra le istituzioni, i giornalisti e i cittadini, fra chi produce, chi narra, chi ascolta”.