Intervista a Giuseppe Facchini

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È sicuramente una sfida, anche perché si tratta di un premio che cerca di dare spazio e approfondire temi che spesso non trovano la stessa visibilità sui mezzi di informazione “generalisti”, se così vogliamo chiamarli.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Forse proprio le storie del servizio che ho proposto per questa edizione del premio: la malattia di Huntington (o morbo o corea di Huntington) è una patologia di cui si sa pochissimo, nonostante i casi in Italia non siano così pochi. È una malattia ereditaria, ci sono famiglie che convivono con lei da generazioni ed è assurdo che ancora oggi non ci sia un modo per aiutarle davvero. È una cosa che personalmente mi fa molta rabbia, spero col mio racconto di aver dato una mano alle migliaia di famiglie che cercano delle risposte concrete da troppo tempo. Io, nel mio piccolo, sono disposto a mettercela tutta.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Tutto ciò che fa più fatica a trovare uno spazio o un canale per farsi conoscere agli altri.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Noi giornalisti, probabilmente, dovremmo fare autocritica sui termini e le parole che spesso usiamo quando trattiamo temi di comunicazione sociale. Rispetto a qualche anno fa, però, qualche passo in avanti si sta facendo, anche per quanto riguarda lo spazio che viene dedicato a certe tematiche.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Tendenzialmente si, ma ci sono argomenti e notizie di cui non è mai abbastanza parlare. Come si dice, “Repetita iuvant”.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Vorrei tanto rispondere “servizi pubblici”, ma non credo sia sempre così. Purtroppo.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Significa avere sempre tanta curiosità e la giusta dose di umiltà nell’approcciarsi ad ogni genere di storia o notizia.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite internet. Non è la mia prima partecipazione, sicuramente potrebbe essere l’ultima, visto che a breve non avrò più l’età per premi e concorsi riservati ai “giovani” 🙂

Intervista ad Ottavio Cristofaro

1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Dietro ogni storia che raccontiamo ci sono sempre delle persone, con le loro vite e le loro famiglie. La vera sfida, in realtà, è quella di restituire quotidianamente una dimensione umana alla nostra attività giornalistica.

 2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ho avuto la fortuna di raccontare la storia del Capitano dei Carabinieri “Ultimo”, con i suoi risvolti umani e sociali, oltre alle questioni già note più legate ai fatti di cronaca e mafia. Di recente mi sono occupato anche di un reportage all’interno di una ex base militare, che ha giocato un ruolo strategico durante la Guerra Fredda, i cui temi sono di estrema attualità in virtù della guerra in Ucraina.

 3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Compito del giornalista è quello di tenere sempre a mente i criteri di utilità sociale e rilevanza pubblica che dovrebbero guidare l’azione professionale.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Non credo esistano parole più o meno “giuste”. Credo piuttosto che esista una sensibilità a questi temi maggiore in taluni gionalisti e in altrettante talune testate.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Alla base dell’agire giornalistico ci deve essere quella buona dose di curiosità che ti porta a ricercare notizie e storie da raccontare sempre nuove.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

È un tema di grande attualità. Possiamo dire che sono sia prodotti commerciali che servizi pubblici. Bisogna cercare il giusto mix.

7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Un buon giornalista dovrebbe avere la mentalità aperta e pronta a tutto. Ieri come oggi, il giornalista deve interessare il pubblico. Ci sono molti peccati che si possono commettere, nell’esercizio della professione. Tra i più gravi, c’è la noia. Interessare può voler dire spiegare, rispondere, incuriosire, sorprendere, affascinare, magari divertire, a secondo dei casi e delle necessità.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

L’ho conosciuto l’anno scorso, attraverso il sito dell’ordine dei giornalisti della Puglia.

Intervista ad Andrea Caruso

1.È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Non solo per il tema così specifico, ma soprattutto perché il premio pur essendo “solo” alla sua sesta edizione ha subito guadagnato una sua riconoscibilità e prestigio. Quindi, il livello degli elaborati a concorso è molto alto.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Non mi va di menzionare una storia in particolare. Come giornalista, ho sempre cercato di affrontare ogni storia a testa bassa, con rispetto, tatto e sensibilità, impedendo però che l’emotività mi coinvolgesse a tal punto da “contaminare” il lavoro giornalistico. Il rischio altrimenti è di raccontare una storia che facilmente commuoverà chi la legge/ascolta/guarda, ma priva di quel contenuto di informazione che spieghi il perché di quella storia.

3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Credo che a prescindere dalla rivoluzione attuata dai social network, l’obiettivo del giornalismo non sia poi tanto cambiato. Lo scopo è sempre quello di portare a una vasta platea la conoscenza di fatti/fenomeni che a giudizio di chi fa questo lavoro abbiano una rilevanza e un interesse pubblico.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Secondo me sì, la comunicazione sociale trova molto più spazio rispetto al passato. Si è compreso il valore delle good news, quando mescolate alle bad news, l’importanza di affrontare temi e storie che toccano da vicino e nel profondo i cittadini molto più di quanto non facciano alcuni temi cari alla politica, ad esempio. Non so se esistano parole giuste, credo però che esistano parole e approcci non “giusti”. Cerco sempre di evitare frasi fatti o artificiosamente letterarie che non aggiungono nulla e danno solo una dimensione “pietistica” a temi come la malattia e la disabilità. Ecco secondo me bisogna evitare l’approccio “oh poverini!”, un’altra cosa che detesto è l’utilizzo di perifrasi pur di non pronunciare la parola “cancro” o “tumore”.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Niente affatto. La notizia a volte è tale perché qualcosa semplicemente “accade”, tante altre volte invece i fatti sono come la parte sommersa di un iceberg e il compito del giornalista in quel caso è di riportarli in superficie. Uno sforzo ulteriore dei giornalisti deve essere orientato non solo a raccontare la notizia ma anche a spiegarla. Il giornalismo e il giornalista non devono commettere l’errore di dare per scontato alcunché. A volte accade di ascoltare in un telegiornale opinioni, commenti, dibattiti intorno a un tema e viene da chiedersi: “sì ok, ma il fatto qual è, perché le cose stanno così?”

 6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Sono prodotti commerciali che svolgono un ruolo di servizio pubblico. Il problema è che l’informazione è un bene di cui difficilmente l’utente/cliente si riesce a quantificarne valore e importanza, anche per colpa dei media stessi. Per vent’anni siamo stati abituati a poter consultare gratuitamente e leggere gratuitamente articoli sui siti web dei maggiori quotidiani italiani e poi sui social network, dunque si è consolidata la credenza che l’informazione debba essere gratuita, qualcosa di “dato”. È molto faticoso giustificare adesso il pagamento di un abbonamento digitale. Aggiungiamo a ciò il calo ineluttabile di vendite dei quotidiani cartacei, e dunque il minor appeal pubblicitario che hanno i giornali, a fronte di un costo di produzione elevato, e si comprende come mai quasi tutti i giornali siano in difficoltà nel mantenere margini di redditività ed equilibri nei bilanci.

 7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Principalmente significa avere curiosità, approcciarsi a volte anche con animo fanciullesco alle questioni, avendo poi il desiderio di condividere una scoperta = la notizia, con un pubblico a cui la si vuol provare a spiegare e raccontare. La maggior pervasività del web e dei social network, e il rumore di fondo che generano, impone anche a un buon giornalista di saper riconoscere e distinguere una notizia da un fattoide, notizie spacciate per tali ma che in realtà non lo sono, per non parlare poi delle vere e proprie bufale.

 8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Lo conosco da anni, probabilmente la prima volta che ne ho sentito parlare è stato grazie alle segnalazioni su siti/testate di settore per i giornalisti oppure proprio grazie all’Ordine dei Giornalisti. È la mia prima partecipazione, perché purtroppo negli anni passati non ho mai avuto un servizio in linea con il tema del concorso.

Intervista a Daniele Caponnetto

1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sicuramente lo è, ma proprio per questo molto stimolante. In provincia di Cuneo il terzo settore ha un ruolo chiave nello sviluppo della comunità, quindi raccontare queste tematiche può essere, forse, più agevole che altrove.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Oltre a quella portata alla vostra attenzione, c’è sicuramente la storia di otto anziani che vivono in autogestione in uno spazio concesso dal comune di Cuneo (LINK–> https://bit.ly/3QirM9q). Porto inoltre nel cuore la storia di Clemente, mio compaesano, che ha scalato a 83 anni per la la 400^ volta il Monviso, la nostra montagna (LINK–>https://bit.ly/3tvaBaF).

 3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

L’unico limite, a mio avviso, è dato dal contesto. Per quello che mi riguarda informare significa essere attento alle istanze di una comunità, ma cercando di mantenere sempre una giusta equidistanza. A volte è giusto prendersi la bega di pubblicare qualcosa con il rischio che non sia gradito (o peggio non fruito) dai lettori. Quello che non deve fare un buon giornalista è guardare al proprio ombelico. L’equidistanza deve essere anche da se stesso.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Sì, ma dovrebbe trovare ancora più spazio. Le redazioni, tutte, sono fagocitate dalla gestione del quotidiano fatto di cronaca, conferenze stampa, telefonate, colloqui con uffici stampa, interviste programmate… E a volte, sbagliando, si tralascia il sociale. Occorre parlarne con i giusti termini. Questo si può fare solamente con corsi giornalistici deontologici dove i relatori devono essere famiglie o associazioni che operano nel sociale.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non per forza, ma a volte è utile cambiare il punto di vista per evitare l’effetto infodemia. Nella velocità dell’informazione, a volte, c’è il rischio che i giornali siano uno la fotocopia dell’altro. Bisogna prendersi il tempo di guardare le cose anche da ,un’altra angolazione.

 6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Purtroppo il settore è in crisi. I fondi pubblici sono pochi e destinati a pochi. Questo rende difficile la sopravvivenza di testate che possono essere sovvenzionate solamente da pubblicità dei privati. Però il lavoro giornalistico deve assolutamente viaggiare su binari separati e concentrarsi sul servizio di informazione.

7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

L’equidistanza da se stessi e da chi ci legge caratterizza il lavoro di un buon giornalista che deve essere neutrale, ma sempre curioso, attento a saper leggere su più livelli ogni questione. Chi non cade nella tentazione di polarizzare da una parte o dall’altra un’informazione sta, a mio avviso, facendo un buon lavoro.

 8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite la newsletter di Slow News. Un movimento che sta cercando di rendere più ‘lenta’ e attenta l’informazione anche in quest’epoca di fruizione schizofrenica delle news.

Intervista a Daniele Bartocci

1.È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sicuramente sì, le sfide mi affascinano, per tale motivo ho deciso di partecipare a questo premio così prestigioso legato a tematiche assai delicate. Avendo partecipato nel corso degli anni anche a vari eventi e scritto articoli attinenti alla comunicazione sociale, solidarietà e integrazione sotto vari punti di vista… ho ritenuto opportuno seguire questo premio…

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Probabilmente lo sviluppo sostenibile e i nuovi format applicati alle discipline agonistiche e sportive, anche in tema di eventi e situazioni legati a diversamente abili. Qualche anno fa nelle Marche ad esempio c’è stato un bellissimo evento che ha affrontato in maniera perfetta sport e inclusione sociale ovvero i Giochi Integrati di Scherma  tra atleti normodotati e con disabilità provenienti da tutta Europa.

3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Credo tutte quelle tematiche sociali che sul piccolo schermo sono poco seguite ma che in realtà assumono una fondamentale rilevanza, nonostante non siano appunto sotto i riflettori nazionali.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Lo spazio mediatico riservato a queste tematiche non mi risulta essere esagerato, ma nel complesso buono. Di certo si potrebbe far meglio nei tempi dell’era digitale. Credo che le parole debbano essere scelte e selezionate, al posto giusto nel momento giusto, ai fini di un’ottimizzazione a 360 gradi.

5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Un giornalista che racconta i fatti in maniera veritiera e senza condizionamenti di varia natura, puntando sull’originalità della news e ottenendo una certa reputation e credibilità, in modo tale che anche gli stessi personaggi siano maggiormente propensi a rilasciare dichiarazioni e interviste.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

È inutile nascondere che esistono testate che mantengono una propria identità strettamente ‘commerciale’, forse dimenticando il ruolo essenziale dell’utente finale. Gli interessi commerciali ‘dominano’ e probabilmente ‘domineranno’ sempre di più nel prossimo futuro. Servizio pubblico in pericolo? No, adesso non esageriamo.

7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere credibili, autorevoli, originali. Essere onesti con se stessi per poterlo essere con i lettori, esercitare l’attività giornalistica con passione e sacrificio, e con la consapevolezza che non si tratta di un privilegio bensì di un servizio da saper esercitare con umiltà e autorevolezza.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite il web, un premio di assoluto prestigio che si ripete ogni anno.