Intervista a Simona Berterame

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sicuramente sì però mi trovo spesso a trattare tematiche legate al mondo del sociale, della disabilità e dell’integrazione. Sono racconti complessi, che ti entrano dentro ma una volta pubblicati regalano tanta soddisfazione e ti insegnano sempre qualcosa.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Mi occupo da anni del mondo manicomiale e in particolare ho raccolto diverse testimonianze di ex pazienti internati in manicomio prima dell’approvazione della Legge Basaglia. Le loro voci ti spiazzano, raccontano di veri e propri lager dove si finiva anche senza avere nessuna malattia mentale.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

L’informazione deve essere legata ad una notizia, un episodio che valga la pena raccontare. Perché trattare quella storia? I motivi possono essere tanti, il primo fra tutti ovviamente è quello di informare chi ci ascolta, ma anche far riflettere e scatenare la curiosità su un certo argomento.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

In alcuni periodi l’informazione è diventata quasi monotematica. Prima con la pandemia, adesso con la guerra, diventa perciò sempre più difficile in quei momenti ritagliare uno spazio per altri argomenti. La bravura del giornalista in questo caso sta proprio nel riuscire a trovare il canale giusto, il titolo accattivante per permettere anche a quell’argomento di uscire fuori.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non necessariamente. Esistono le ricorrenze, gli anniversari per riproporre storie già trattate ma magari con un taglio diverso. I racconti esclusivi sono fondamentali per il prestigio di una testata ma anche stimolare la memoria storica è importante.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Dovrebbero essere servizi pubblici ma spesso sono (anche) prodotti commerciali. La difficoltà è fare coesistere questi due elementi cercando di far prevalere sempre l’importanza dell’informazione.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Un buon giornalista sa ascoltare, non affronta una notizia con preconcetti e pregiudizi. Pone domande senza avere già una risposta, è curioso di tutto ciò che lo circonda e cerca sempre di apprendere nozioni nuove.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Conosco questo premio da diversi anni e l’ho scoperto grazie alla vostra pagina Facebook.

Intervista a Stefano Scibilia

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Si, certamente.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Proprio in questi giorni al Ducato di Urbino abbiamo trattato il caso di Fabio Ridolfi di Fermignano.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Tutto. Sempre all’insegna del rispetto della privacy, dei minori e delle fonti.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La maggior parte delle testate ha sempre spazi per il Sociale.

Noi ragazzi studiamo proprio per questo…ci insegnano a trovare il “giusto” modo per porgere certe notizie.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non per forza. Molte riguardano approfondimenti,continuano un discorso gia’ iniziato…

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Entrambe le cose

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

E’ quello che spero di diventare. Un professionista.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Seguo tutti i bandi di concorso. Con questo rispondo anche alla domanda del punto 1.

Intervista a Lamberto Rinaldi

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È sempre una sfida raccontare una storia nascosta, darle lo spazio che si merita, farla riscoprire, apprezzare, innescare una riflessione. Poi, per me, è stata una sfida misurarmi con un tema che non conoscevo e di cui si parla sempre troppo poco: la salute mentale, la condizione dei pazienti psichiatrici, il ruolo che ha lo sport in tutto questo.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Quella della Nazionale “Crazy For Football” è senza dubbio una delle storie più emozionanti che abbia mai raccontato. Ho conosciuto e ho parlato con i ragazzi che sono scesi in campo e potevo vedere nei loro occhi una speranza, una passione, un obiettivo. Vedevo nei loro sguardi e sentivo nelle loro parole il senso di appartenenza, a una squadra, a un gruppo, a un progetto. Come si fa a non raccontare una storia simile?

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Informazione vuol dire “dare forma”, nello stesso modo in cui istruzione vuol dire “dare una struttura”. E secondo me sono due concetti simili. L’informazione dà forma sia alla notizia, sia a chi la legge. Quindi deve essere oggetto di informazione tutto ciò che chiarisca, faccia riflettere e ragionare, proponga una nuova visione, indaghi, accerti. Tutto ciò che contribuisce a dare una forma a qualcosa che non ce l’ha.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Secondo me la comunicazione sociale non trova lo spazio che merita. D’altronde è un atteggiamento figlio dei tempi: la comunicazione sociale parla di un noi quando va sempre più di moda l’io, spinge per l’apertura quando ormai tutto parla di chiusura, è per il dialogo e i ponti in un’era di silenzio e di muri. In tutti gli ambiti: dalla politica allo sport. Per questo si deve tornare a parlare di sociale.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

No, non per forza. Una notizia può essere anche una riscoperta, una nuova lettura, un nuovo spiraglio. In una comunicazione dettata sempre di più alla velocità, alla logica dell’arrivare per primi, vale la pena fermarsi, lavorare sulle cose, andarle a cercare. Anche correndo il rischio di farle scadere. Se una notizia è valida lo è sempre.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Mi ricollego a quanto detto prima, al tema della velocità e della lentezza. Il voler arrivare per forza primi, urlare di più, risaltare di più, è ovviamente un atteggiamento commerciale, da marketing. Se si mira solo a questo si perde di vista l’utilità vera del giornalismo, che è quella appunto di fare informazione. Penso che nel nostro panorama ci sia ancora tanto servizio pubblico, ma stia crescendo, soprattutto nell’online, una logica di consumo, di vendita, di notizia come merce.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Sono due i motti a cui mi rifaccio per provare a essere, innanzitutto io, un buon giornalista. Il primo è di Gianni Mura: “Saper fare un uovo in padella non fa di me uno chef”. Il secondo è “Andare, guardare, cercare di capire, raccontare”. Con il tempo di internet tutti possono essere giornalisti, scrivere articoli, riportare notizie. Per farlo in maniera vera, positiva, bisogna avere spirito critico, bisogna uscire, non restare incollati uno schermo, scavare e svelare, ascoltare e cercare. Solo così le storie, le persone, i luoghi, saranno raccontati in maniera vera.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Attraverso i social e il sito dell’Ordine dei Giornalisti.

 

Intervista ad Agnese Palmucci

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

E’ sicuramente una sfida grande, e soprattutto per un giornalista in formazione. Per me ha significato tornare al cuore delle mie motivazioni, perché parlare di disabilità è parlare di vita, di dolori e sogni. Insomma, di umanità pura. E’ stato sfidante cercare di capire cosa comporta una malattia, come si muove nel tempo, certo. Ancor di più, però, è stato farlo cercando di non mettere mai al centro il problema, ma sempre la donna, che nel mio caso si chiama Graziella. Insieme abbiamo voluto raccontare prima di tutto la vita quotidiana di una mamma, di una moglie, di un’amica che lotta ogni giorno, anche contro le istituzioni, per una vita normale, senza pietismo.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Devo ringraziare questo premio, senza piaggeria, perché mi ha permesso di conoscere una donna e una famiglia straordinaria, di diventare loro amica. Di entrare nella vita di Graziella e Giuseppe, di farmi da parte per mettere al centro un vissuto così ricco. Devo dire che, per la mia storia familiare, ho sempre avuto il desiderio di raccontare esperienze di disabilità che facessero emergere la forza di volontà, la voglia di distruggere le barriere e la gioia di vivere. Questa è stata per me la prima occasione in cui ho potuto, vivendo alcuni giorni accanto a lei, sperimentare le difficoltà di chi vive in carrozzina a Roma.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Sicuramente due elementi, nel caso di Graziella: l’assurda inadeguatezza delle infrastrutture, ancora nel 2022 non a norma per i disabili in carrozzina, e il carente supporto alle necessità di una madre non autosufficiente. Per quanto riguarda la prima situazione, accompagnando Graziella per le strade del suo quartiere ho sperimentato l’impossibilità di scendere da un marciapiede, di entrare in un negozio, di prendere i bimbi a scuola da sola e poi tanto altro che raccontiamo nel servizio. Riguardo al secondo punto, una delle difficoltà meno conosciute è la ricerca, spesso estenuante e infruttuosa, di un’assistente domestica che possa aiutare in casa le madri disabili con i bambini. Proprio per l’assenza di questa presenza fissa, ad esempio, Giuseppe è stato costretto a diminuire le ore di lavoro per venire incontro alle esigenze della casa.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La comunicazione sociale ha rilevante spazio su alcune testate, come Avvenire, ad esempio, che puntano molto sulla narrazione della prossimità e sulla denuncia dei disagi di chi è meno ascoltato dalle istituzioni.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Spesso pensiamo che “notizia” debba significare “novità”, a tutti i costi.              Ma le disabilità, le povertà, le disuguaglianze, così come tutti i problemi relativi all’umano, non sono né vecchi né nuovi. Semplicemente esistono e si evolvono, e in quanto ciò hanno tutta la dignità per essere raccontati, per denunciare, per chiedere interventi mirati, per spingere alla ricerca, per alimentare la speranza.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

C’è tanto lavoro dietro una pagina di giornale, dietro una home page piena di pezzi. C’è impegno, sacrificio, ci sono giornate con poche ore di sonno. Se una scelta editoriale è fatta per “vendere”, questo può sembrare immorale, e a volte lo è. Nella maggioranza dei casi, quello che sembra un “tradimento” del servizio pubblico, diventa economicamente necessario per sostenere il lavoro giornalistico “vero” di quella testata. Nel mio modo di vedere questa nostra “missione” di giornalisti, tutto quello che facciamo deve essere mirato al servizio.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Significa amare la verità e gli esseri umani, mettendo ciò prima di sé. Significa dare voce a chi non ha spazio, a chi non viene ascoltato, a chi ha da dire e anche ha timore di parlare, ma ha tanto nel cuore. Significa studiare, leggere senza posa, ma non per mero intellettualismo, no. Piuttosto per capire meglio e in profondità tutto quello che accade, vicino e lontano da noi. Significa illuminare gli angoli più bui, denunciare quello che proprio non va, senza paura, ma “compromettendosi” con le vite di chi si incontra. Nella mia breve carriera, ho capito che non mi interessa essere una giornalista “estranea” alle cose, che non si lascia toccare da niente, che racconta asetticamente.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Sto frequentando il master di giornalismo all’Università Lumsa di Roma, e sono venuta a conoscenza del premio lo scorso autunno 2021, quando ho assistito alla premiazione in ateneo. Quello delle disabilità è un tema che mi sta a cuore da sempre, e la storia di Alessandra mi ha colpito davvero molto.

Intervista a Marta Occhipinti

1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

L’intera professione giornalistica è una sfida per chi ama questo mestiere. Ma, di certo scrivere di integrazione sociale e cercare di restituire storie di resilienza è oltre che una sfida in più, un impagabile paga di valori.

 2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Non saprei. Ogni storia, ogni volto, ogni racconto restituito sulla pagina scritta si porta con sé tutto un mondo difficile da dimenticare. Ci sono particolari di migranti, loro mani, occhi, volti di ragazzi, storie di recupero post tumore, che non dimenticherò.

 3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

La realtà di un caso o una storia premiante in valori che diventa esempio per tanti o argomento su cui riflettere.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Sì, ma non in tutte allo stesso modo. Ciò dipende ovviamente dall’agenda e dalla direzione editoriale di una testata, come sappiamo. Le parole giuste sono deontologicamente essenziali per una corretta e veritiera informazione. Le parole giuste partono dalla conoscenza, innanzitutto.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non sempre, alcune magari sono sotto i nostri occhi da tanto tempo, ma diventano nuove per noi quando le scopriamo. Non è mai troppo tardi per raccontare una storia o sviscerare reportage. Ciò che è nuovo, deve esserlo sempre agli occhi del cronista, principale stakeholder dell’opinione pubblica.

 6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Credo ancora nel servizio pubblico.

 7. Che significa essere un buon giornalista?

Rispettare la deontologia, divulgare notizie secondo la verità sostanziale dei fatti, essere scomodi.

 8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Mi tengo sempre aggiornata sui premi giornalistici per under35. Dunque, via internet, al momento della pubblicazione del bando di partecipazione.

Intervista a Giancarla Manzari

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Per me non è una vera e propria sfida, ma un’opportunità per far conoscere e diffondere le tante associazioni che aiutano a vivere a tante persone con la speranza e i sorrisi in più.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Una delle storie che mi ha colpito di più è quella di Sinisa Mihajlovic, allenatore del Bologna calcio, colpito dalla leucemia melodie acuta e che dopo vari cicli di chemioterapia e trapianto di midollo osseo, è tornato sulla panchina della squadra che allena con forza e determinazione dando così coraggio a tante persone che lottano contro questa malattia. Sento di essere vicina e comprendere tante situazioni perché anche io sono monitorata e seguita dal team dell’ospedale oncologico ematologico di Bari per una lieve patologia.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

 Tutte queste situazioni elencate devono essere divulgate rispettando la privacy dei pazienti e delle persone affette da varie patologie e handicap. Vanno condivise per poter dare un contributo fondamentale alla cura, prevenzione e aiuto post diagnosi.  Gli oggetti di informazione possono essere le vite quotidiane delle persone affette da qualche patologia, come vivono e come affrontano la malattia, la cura e il dopo.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

 La comunicazione sociale non trova molto spazio nelle testate, ma solo in quelle specifiche. Non esistono parole giuste per promuovere i diritti, la giustizia, e soprattutto divulgare le difficoltà in questa società. La solidarietà sociale va condivisa e diffusa attraverso idee, significati e valori.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

 Le notizie che devono essere pubblicate devono avere sempre un collegamento temporale ad un avvenimento attuale.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

 Attualmente le testate sono influenzate dalla pubblicità e dalle aziende che le finanziano, soprattutto a causa del passaggio dalla carta stampata al digitale.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

 Essere un buon giornalista significa voler divulgare in qualsiasi forma la verità, interpretandola e raccontandola, con la giusta formazione e con la conoscenza della deontologia che non vada mai a danneggiare inutilmente nessuno.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Frequentando il master in giornalismo di Bari e, visitando la pagina dell’Ordine dei Giornalisti, mi sono accorta della bellissima iniziativa del Premio Bisceglia.

Intervista a Emanuele La Veglia

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

In realtà no, ma semplicemente perché è la terza volta che vi concorro. L’anno scorso ho ottenuto la menzione web per un mio articolo pubblicato su Ohga.it ed ho avuto l’occasione di trascorrere una piacevole giornata a Roma e di approfondire la storia di Alessandra Bisceglia.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Le storie che mi hanno più segnato in verità le porto dentro da prima di cominciare a scrivere, perché riguardano alcuni aspetti del mio vissuto. E forse da questo nasce quella sensibilità con cui cerco di accostarmi a temi delicati, alle esperienze cosiddette “forti”. Basta scorrere le interviste fatte nel periodo in cui ho scritto per Vanity Fair e se ne trovano davvero tante.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Io credo che in un mondo disattento, fatto di scroll sui social e di distrazioni continue, quello che attrae più l’attenzione sono le storie. Tessuti narrativi, ma realmente accaduti, in cui possiamo identificarci e da lì iniziare una riflessione su temi caldi, di attualità.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Io mi soffermerei proprio su queste due parole: “comunicazione” e “sociale”. Quando possono andare di pari passo è un grande traguardo, ad esempio se in un’azienda si fa attenzione agli aspetti di sostenibilità, sia ambientale che appunto sociale. Non esistono parole giuste o sbagliate, ma è importante che il linguaggio sia rispettoso nei confronti delle singole diversità.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

A volte può capitare di riproporre magari delle persone, o delle realtà che possono costituire di riferimento. Riparlarne ha senso se ci sono nuove iniziative o collegamenti con vicende appena accadute. In generale, ciò che non è mai stato visto colpisce sempre perché magari riporta alla mente bei ricordi e perché suscita nel pubblico curiosità e sorprese.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Come mi trovai a dire già in questa intervista lo scorso anno, il servizio pubblico è quello offerto in particolare dalla Rai, in quanto televisione di stato. Per il resto ogni testata o gruppo segue una propria linea editoriale e l’indipendenza o meno è legata a fattori soprattutto economici e di finanziamenti. E, parallelamente, c’è l’universo del brand journalism, siti online o riviste che si rivolgono alle imprese, citando successi e casi studio.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Penso che sia una definizione idealistica, nel senso che i percorsi diversissimi e chiunque intraprende questa strada cerca di fare del suo meglio. Per la crisi del settore, però, l’essere in gamba non è direttamente proporzionale alle continuità dell’impiego e delle collaborazioni, che si concludono per mille motivi, dovuti a un’evoluzione delle esigenze o a rallentamenti burocratici.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Lo conosco da anni, per cui non ricordo il momento esatto in cui ho ricevuto la prima mail, ma probabilmente è capitato negli anni di studio, attraverso le università. C’è da dire comunque che mi sono attivato, sin da quando ho iniziato questo mestiere, nel 2010, a cercare premi e concorsi a cui poter partecipare fino a vincerne tre, oltre alla menzione del “Bisceglia” nel 2021.

Intervista a Filippo Gozzo

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È sicuramente una sfida dal punto di vista giornalistico, ma non è un peso perché le tematiche trattate sono di rilevanza fondamentale per la società.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Senza dubbio quello che presento per il Premio. Poter parlare e raccontare la storia di un’atleta italiana come Arjola Trimi è stata una fortuna e un’esperienza importante, perché lei racchiude in sé la passione per lo sport e l’importanza di credere sempre in sé stessi nonostante le difficoltà, che possano essere fisiche o di vita.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Se incide sulla vita delle persone, sia in senso positivo che negativo, allora deve essere oggetto di informazione. Ci devono essere limiti, ma non si può privare il lettore della conoscenza di ciò che lo circonda.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Non a sufficienza, perché spesso si privilegiano argomenti più “leggeri” e di facile consumo. Per parlare di Comunicazione Sociale esistono termini appropriati, più sensibili e indicati. È sempre fondamentale il rispetto dei soggetti di cui si sta raccontando la storia.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non necessariamente. A volte spunti originali possono offrire una visione d’insieme, anche alternativa, di una notizia già trattata.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Sono prodotti commerciali che svolgono un servizio pubblico. Dovrebbe in linea di massima prevalere il servizio pubblico, ma se gli interessi economici che derivano dal prodotto influenzano il servizio che la testata svolge a livello sociale, allora prevale la componente economica.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Un buon giornalista deve informare il lettore nel modo più completo e coerente possibile. Ha il compito di mettere a conoscenza, limitando all’essenziale le opinioni personali e riducendo al minimo i giudizi. Questi però sono elementi che non si possono eliminare totalmente e deve essere il giornalista a capire quando e in che modalità una sua opinione possa essere utile ed efficace.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Ho partecipato alla V edizione nel 2021.

Intervista a Fabio Giuffrida

1.È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È una sfida per il nome che porta questo concorso, per la storia di Alessandra Bisceglia, per la sua forza, la sua determinazione, il suo coraggio. Bisceglia ha trasformato una passione, quella per il giornalismo, in un lavoro, andando contro tutto e tutti, contro ostacoli che sembravano essere insormontabili. Lei è stata l’esempio che volere è potere e che niente è impossibile.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

A colpirmi di più, in questi anni, è stata la storia che ho proposto per questo concorso. “PizzAut” nasce grazie alla forza di un uomo, di un padre che ha aperto, alle porte di Milano, una pizzeria gestita da ragazzi autistici per dare loro un futuro libero e dignitoso. Ragazzi che prima erano tenuti ai margini della società, ai quali lo Stato pensa poco o nulla (soprattutto dopo la maggiore età) e che il proprietario di “PizzAut” ha riabilitato trattandoli semplicemente come persone, come lavoratori con precisi diritti e doveri. La condizione dei ragazzi autistici non deve essere un ostacolo ma deve costituire un valore aggiunto, una marcia in più. Non è un caso che “PizzAut” ha avuto un’eco mediatica incredibile e che la pizza – e lo dico senza pietismo alcuno – è tra le migliori in assoluto.

3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Veicolare buone notizie fa bene a tutti. È bene parlare sia dei gravi fatti di cronaca sia delle storie comuni, della gente normale, di chi ogni giorno ce la fa, di chi affronta la vita, nonostante le difficoltò, con grande forza. La disabilità o la malattia più in generale va raccontata non con pietismo ma con grande normalità. Le buone pratiche di integrazione vanno messe in luce per far conoscere a chi giustamente non lo sa che una malattia non può frenare un sogno, che non può essere un limite e che ci sono diverse strade tutte percorribili, tutte raggiungibili. L’informazione, tra l’altro, deve veicolare l’importanza dell’evidenza scientifica e dell’equità nell’accesso alle cure.

4. La comunicazione sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Negli ultimi anni c’è sempre più comunicazione sociale sui giornali. Parlarne è giusto ma bisogna usare le parole “giuste”, senza pressappochismo e soprattutto senza trattare il malato o il diversamente abile come un extraterrestre o come un “fenomeno” di cui parlare perché “ci fa pena”. Ecco, questo è quello che non bisogna fare perché restituirebbe un’immagine distorta delle cose. La parola chiave deve essere sempre: normalità.

5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Tendenzialmente devono essere  nuove per aggiungere dettagli e spunti di riflessione in più al dibattito pubblico. Ma, attenzione, non sempre è giusto che vada così. Soprattutto nella comunicazione sociale, è bene raccontare un fatto e poi tornare sulla storia dando spazio ai protagonisti così da veicolare meglio l’informazione. Un conto è scrivere “ha aperto la prima pizzeria gestita da ragazzi autistici”, un altro è far parlare direttamente i ragazzi che la gestiscono. Una testimonianza è sempre un valore aggiunto.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Viviamo in un’epoca in cui, grazie all’avvento di internet, c’è molta diversificazione. Le testate sono tutte aziende, hanno tutte un bilancio da far quadrare e degli sponsor da trovare per garantire l’indipendenza dei giornalisti. Quindi sono da una parte prodotti commerciali, dall’altra sempre servizi pubblici. Con grande piacere ho notato che negli ultimi anni le testate giornalistiche stanno prendono posizione su molti temi sensibili, contribuendo attivamente a migliorare il dibattito del nostro Paese e invitando i lettori alla riflessione critica e costruttiva. I giornali devono essere sempre al servizio dei lettori.

7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Raccontare la vita, la società che cambia, dare spazio agli ultimi, a chi spesso non ha voce. Fare il giornalista è una missione, è aiutare chi grida giustizia ed è un esercizio di verità e libertà. Un buon giornalista è colui che non ha pregiudizi, che non si pone limiti, che sa di non sapere, che ascolta tutti, che racconta i fatti così come sono e che aiuta a migliorare la nostra società. Un buon giornalista è quello che si “sporca”, che va in strada, che è curioso, che si pone mille domande, che invita i lettori a esplorare nuovi mondi. È colui che mantiene sempre la schiena dritta senza avere paura sapendo, tra l’altro, di avere un compito importantissimo. L’informazione non è un gioco.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite l’associazione GVPress a cui sono iscritto per il riconoscimento e la tutela dei diritti dei videomaker in Italia.

Intervista a Giada Giorgi

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È la stessa sfida a cui il giornalismo oggi deve rispondere, fare luce su realtà che solo in apparenza possono sembrare specifiche o di nicchia ma che in verità comprendono molte più persone e molti più bisogni di quanto si immagini. Quindi sí, è una sfida stimolante e più che mai attuale.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia di Francesco Mercurio. Un ragazzo sordocieco che ha deciso di farmi assistere a uno dei suoi massimi momenti di libertà, un volo in deltaplano. La cosa che mi ha più segnato però è stata la sua capacità di abbattere ogni retorica: “Smettetela di chiamare la disabilità “un dono”, la disabilità è un problema che ha bisogno di soluzioni”.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Il diritto negato a molti esseri umani di avere un posto nel mondo alla pari degli altri.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La Comunicazione Sociale non trova abbastanza spazio sulle testate giornalistiche. E quando succede viene spesso associata a racconti pietistici che poco contribuiscono all’idea di un’informazione costruttiva. Esiste un linguaggio adatto fatto di parole pesate e non “etichettanti”,  superficiali o “drammatizzanti”.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Le notizie da divulgare devono avere senza dubbio il carattere dell’attualità, cercando di andare sempre un po’ più oltre a quello che si è già detto o scoperto. Ma al di là della novità dei contenuti quello che più importa è l’emancipazione del racconto. A volte i problemi irrisolti della società rimangono purtroppo gli stessi, quello che siamo chiamati a fare come giornalisti è riuscire a proporre punti di vista e spunti sempre nuovi.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Voglio continuare a pensare che la mia professione sia ancora un servizio. L’informazione online, così come viene intesa attualmente,  ha purtroppo contribuito a rendere le testate giornalistiche delle grandi vetrine dove chi espone la merce più abbagliante riesce ad avere la meglio. Il rischio è che dietro l’abbaglio ci sia poca sostanza e pochi contenuti.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Significa essere un veicolo di informazione verificata per tutti quelli che la cercano. Un ponte tra la realtà e il lettore, nel tentativo di offrire un servizio concreto.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

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