Il podcast e l’ascolto delle fragilità: perché la voce vince sull’immagine

Laura Pertici, giornalista del quotidiano la Repubblica

“La parola è per metà di colui che parla e per metà di colui che ascolta”

Michel Eyquem de Montaigne

“Qual è la scala delle fragilità? È dettata dalla gravità dello stato di chi ha bisogno d’aiuto, indubbiamente. Ma sappiamo anche che dipende nella società dal numero di persone che reclamano una qualche attenzione oltre che la nostra assistenza. Dipende dalla concentrazione di questi singoli in un luogo che evidentemente dobbiamo sentire vicino perché la nostra reazione sia, se non immediata, almeno efficace. Questi sono dati di realtà, magari non ci piacciono, non ci descrivono in modo edificante, ma sono lì, sotto ai nostri occhi, e anche se vogliamo far finta di non vedere, non scompaiano. Piuttosto negarli, negare la verità, ritarda la sua correzione, ritarda il tempo di una cura.

Perché partire da una scala delle fragilità per parlare di malattie rare e pensare ad Alessandra? Perché al tempo della pandemia (quindi di un virus tanto contagioso e così globalizzato da non rendere “sicuro” neanche un luogo remoto della Terra se comunque più di qualcuno ci può arrivare), e in special modo al tempo della guerra, le fragilità cui può prestare attenzione un Paese evoluto – perché se lo può permettere, perché le sensibilità possono connettersi alla ricerca di soluzioni o di stati di sollievo – all’improvviso rischiano di diventare invisibili, trasparenti. E solo quindi la dedizione di professionisti, oltre che dei più vicini, i cari di chi soffre; la conoscenza; la consapevolezza che la rarità non è meno grave e uno spazio per ciascuno va trovato, possono fare la differenza.

Il mio intervento però non è così facile da inquadrare in questo contesto, perché pensare ai podcast come parte di un cammino, può sembrare straniante. Curioso, sì. Ma poco aderente, poco attinente. E se (nonostante tutto) può anche essere vero, ciò su cui voglio sollecitare la vostra attenzione è solo l’esperienza fatta negli ultimi due anni e mezzo. A partire quindi sì dall’esplosione del Covid in Italia e quindi nel mondo. Passando per la guerra pure. Ma cercando un modo per non fare sentire lontani o sperduti. Con un lavoro giornalistico, in una redazione – quella di Repubblica – nella quale però come tutti ci siamo dovuti velocemente adattare alla realtà che cambiava all’improvviso. Costringendoci all’immobilità, all’isolamento, mentre cresceva a dismisura la fame di informazione.

I podcast quindi. Avevamo già cominciato a sperimentare dei format nel 2019 a Repubblica. Si stava affermando questo strumento in tutto il mondo, si partiva dall’enorme successo di “Serial” – qui siamo nell’ambito del giornalismo investigativo, negli Stati Uniti, un lavoro che inizia nel 2014 e diventa un super-caso, grazie al consumo di massa, come quello di una serie tv, tra l’altro la scorsa settimana è stato scarcerato l’uomo di cui raccontava la storia, era stato condannato per l’omicidio della sua ragazza quando aveva 17 anni, grazie a questo podcast il caso era stato riaperto – comunque, non perdiamoci, dicevamo i podcast.

Tre anni fa in Italia erano in netta crescita, li ascoltavano circa 12 milioni di persone, in prevalenza donne, in prevalenza giovani. Oggi siamo a circa 16 milioni di ascoltatori. Sono sempre i millennials i maggiori consumatori (il 77 cento di loro ha un’età fra i 19 ed i 24 anni, secondo l’ultimo rapporto Nielsen). Ma rispetto allo scorso anno c’è un deciso aumento di persone fra i 55 ed i 69 anni, tra gli users, in quella fascia quasi sei persone su dieci ascoltano podcast. Tutti sono comunque abituati ad essere molto connessi. E infatti, se agli albori del podcast si ascoltava in prevalenza nel tragitto da casa al lavoro o a scuola, mentre si faceva sport ora – la pandemia sì che ha cambiato le cose – ci si predispone all’ascolto soprattutto a casa, sebbene capiti poi di avviare un podcast un po’ ovunque, visto che è un’operazione semplice e ha bisogno al massimo di uno smartphone e due cuffiette. E il tempo che vi si dedica – nel mentre si può fare molto altro – in media è di ben 23 minuti.

Tutto questo ve lo racconto soprattutto per farvi capire che – date queste premesse – si poteva sperare che fosse uno strumento utile a raccontare il Covid o la guerra. Ma non potevamo immaginare, in redazione, che la risposta degli utenti fosse così positiva. Che il nostro lavoro giornalistico poteva ancora cambiare, in fondo tornare all’antico, al fascino della radio, avendo spazi per la profondità, nell’era in cui è tutto volatile, velocissimo, e un titolo (che costa fatica) vale un tempo molto limitato, perché su tutti si impone il tempo reale. La notizia successiva, a rullo, 24 ore su 24. Ovunque. Dai social, ai siti, alle tv, ai giornali che con tenacia arrancano dietro.

La ricerca Nielsen ‘22 già citata ci spiega che per il 39 per cento degli ascoltatori di podcast pesa moltissimo la tematica, seguita dall’autore o narratore (non è detto che siano la stessa persona, e quando è dichiarato a me personalmente va benissimo, mi risento un po’ quando è facilmente intuibile, ma si costruiscono narrazioni un po’ fantasiose…). Questo dato è centrale perché effettivamente visto che in questo tipo di ascolto la predisposizione, la disponibilità a non andar di corsa, è molto alta, si è aperto uno spazio di informazione d’approfondimento come da un po’ non succedeva. E la voce è stata/è parte – se parliamo di informazione – del successo dei tentativi messi in produzione. Perché una voce, ancora di più di una penna, vibra, trasmette emozioni, e più facilmente si può sentire sincera, quindi in modo molto diretto toglie o aggiunge credibilità al lavoro giornalistico. E può dare magari conforto oltre che nozioni, notizie, informazioni a chi si sente fragile e lontano. E invece diventa vicinissimo”.

COSA ABBIAMO REALIZZATO IN QUEST’ULTIMO ANNO E MEZZO?

Molti Focus, interviste sul Covid, sui vaccini, schede audio sui sintomi, sulle regole da seguire durante la pandemia. E poi abbiamo pubblicato molti podcast dedicati ai fragili. A partire da:

Risvegli

https://www.repubblica.it/podcast/storie/risvegli/stagione1/

In collaborazione con il Centro nazionale rianimatori , la Casa di Luca e il  Centro nazionale trapianti

Noi e loro

https://www.repubblica.it/salute/dossier/noi-e-loro/

Sulla storia dei vaccini, e su anticorpi e vaccini al tempo del Covid 19

La vita comincia ogni giorno

https://www.repubblica.it/salute/dossier/giornata-mondiale-leucemia-mieloide-cronica/2021/09/22/news/podcast_la_vita_comincia_ogni_giorno-317935832/

Niente più cicatrici (questo non è produzione nostra ma lo abbiamo acquistato in esclusiva e ci abbiamo costruito intorno un approfondimento)

https://www.repubblica.it/salute/2021/03/01/news/un_podcast_racconta_storie_di_ragazze_interrotte_fra_ferite_e_cicatrici-288892508/

Io sono qui

https://www.repubblica.it/salute/2022/05/18/news/io_sono_qui_il_podcast_che_racconta_la_vita_dei_pazienti_con_la_colite_ulcerosa-350093311/

La Rai per la Sostenibilità: gli spazi d’informazione durante le grandi emergenze

Roberto Natale, Rai per la Sostenibilità

“La Rai per la Sostenibilità: gli spazi d’informazione durante le grandi emergenze”

“Il motivo formale per il quale sono qui, è perché sono direttore della neonata direzione della Rai per la sostenibilità ESG, dove S sta per “sociale”. Il motivo vero per il quale sono qui è perché anch’io sono stato uno di quelli che ha avuto la fortuna di incrociare Alessandra … e incrociare la luce della quale si è parlato e rimediarci anche una cravatta!!! … Non so se Andrea abbia avuto questa stessa fortuna. Il mio intervento sarà breve – e questo non è certo un male – perché, me ne scuso, alle 17.30 devo essere a viale Mazzini per un impegno improrogabile. Nella ha fatto un riferimento al lavoro sociale Rai e la ringrazio per aver dato modo di incontrarci con lei negli anni scorsi, la struttura della quale sono direttore era ed è quella che gestisce le campagne sociali, la raccolta degli spazi di raccolta fondi, gli sms solidali e gli spot di comunicazione sociale, le campagne di sensibilizzazione. Non voglio fare qui, essendo tifoso accanito del servizio pubblico, uno spot per lo stesso. Dico solo una cosa che parla del servizio pubblico del Paese. Un dato che non ha fatto forse clamore, ma che è importante: la raccolta di fondi lanciata dalla Protezione Civile sugli schermi Rai nel primo anno della pandemia lanciata raccolse 169 milioni di euro. Solo per fare un raffronto, nei terremoti del 2016 che devastarono il Centro Italia si arrivò a 36 milioni di denaro raccolto. Questo è per dire, non del servizio pubblico, ma della generosità di questo Paese e di come i grandi mezzi di comunicazione quando vogliono sappiano supportare queste nobili e dolorose cause. Sono stato però chiamato a parlare degli spazi di informazione durante le emergenze. Me la potrei cavare, in sintesi, dicendo che l’informazione durante le grandi emergenze si comporta bene. In questi due anni è cresciuta la fiducia dell’informazione … Guerra, pure sulla guerra mi sento di dire ci comportiamo bene nell’emergenza. Penso … e non solo guardando al servizio pubblico, alla quantità racconti che ci arrivano, a quanti giovani inviate di guerra: è uno spettacolo nel dramma entusiasmante vedere come stia cambiando pelle la professione e lo dico con tutto il rispetto. Non sopporto la nostalgia di chi dice “Quando c’era Montanelli che ci raccontava la crisi in Ungheria”. Giustissimo, ma ciascuna epoca ha i suoi Santi e i suoi grandi nomi. Guardiamo con fiducia anche a quanto di nuovo sta producendo il giornalismo. Terzo tema, le catastrofi naturali: anche qui, sinteticamente, sulle emergenze ci siamo. Dopo pochi minuti e poche ore siamo lì e raccontiamo. Dov’è il problema? Il problema è negli spazi di informazione durante le grandi emergenze. Il problema purtroppo non è il durante, sono il prima e il dopo. Pandemia. Prima dove eravamo? Alle cifre che diceva Andrea aggiungo solo una cifra che a me continua a bruciare, se non ricordo male 47 miliardi tagliati in 10 anni alla sanità pubblica. Come abbiamo fatto a non accorgercene? Svuotavano la cassaforte di casa e noi fischiettavamo, dove stavamo noi come informazione? È stato detto il PNR adesso c’è … e un piccolo spot per la Rai lo faccio. In questi giorni è stato costituito gruppo Rai per il PNR. Vuol essere un lavoro di lungo periodo, per andare a guardare come i soldi del PNR verranno impiegati, non solo per far parlare le istituzioni ai cittadini. Sarà un lavoro che permetterà anche ai cittadini, alla rappresentanza organizzata, al volontariato, al terzo settore, ai territori di dire la loro sui progetti… A proposito del dopo c’è un gruppo sociale verso il quale sento vergogna: le ragazze afghane. Ad agosto dell’anno scorso dicemmo loro che non le avremmo dimenticate. Lo disse la politica internazionale, lo dicemmo anche noi dell’informazione, che fanno adesso le ragazze afghane? Ci stiamo commuovendo adesso per le ragazze iraniane. Quanto durerà la nostra commozione? Il nostro lavoro è serio se si ricorda di esserci anche dopo. Terzo esempio: catastrofi naturali. In Italia abbiamo ricchezza di esempi: è stata citata la catastrofe delle Marche. Mi è tornata alla mente una bellissima frase che usò qualche anno fa Mattia Feltri: “I giornalisti come i magistrati, anzi come i pubblici ministeri, sono quelli che dopo si sapeva tutto prima”. Certo che le immagini di Senigallia inondata sono di grandissima presa emotiva. Ma è già stato ricordato che nel 2016 era stato varato il piano che avrebbe dovuto evitare una nuova Senigallia allaga. Dove eravamo noi? Perché non lo abbiamo chiesto alla politica competente? Avevamo gli strumenti per farlo … poi è stato detto: “Cosa ce ne facciamo del dolore?”. “Ma non sarà che qualche volta il nostro racconto del dolore pure emotivamente coinvolgente toglie lo spazio a qualche notizia?” Lo dico a bassa voce, perché sono questioni di tanta delicatezza che davvero nessuno può presumere di avere in tasca la soluzione. Ma intervistare a quattro giorni dalla sua scomparsa il padre di Mattia facendogli dire che spera di ritrovarlo vivo quando tutta Italia sapeva che era impossibile, non ha tolto lo spazio a qualche altra informazione vera? Nei giorni scorsi mi è capitato di parlare con un esperto di crisi climatica. Era stato chiamato sui fatti delle Marche in un talk di mezzora. Racconta però che hanno chiesto all’edicolante che si era vista portar via dalla piena la sua edicola, quali fossero le soluzioni per evitare che questo disastro si ripetesse di nuovo. Raccontò che quell’edicolante disse con grande trasporto emotivo cose assolutamente infondate, mentre sarebbe stato il caso di sfruttare quell’occasione in altro modo. Con queste osservazioni chiudo. Bisogna tenere a mente non il durante ma il prima e il dopo. Due sottolineature: una ottimistica e una che è una possibile pista di lavoro. La sottolineatura ottimistica – e comunque colgo l’occasione per ringraziare la famiglia Bisceglia, che fa parte di questo movimento che ha permesso al giornalismo sociale di crescere – è che uno dei vantaggi dei capelli bianchi è che uno si ricorda e misura in decenni. Il primo corso sull’informazione sociale lo facemmo all’Unità di Capodarco redattore sociale, era la fine degli anni Ottanta. Oggi grazie anche al cammino che tutti insieme abbiamo fatto di giornalismo sociale ce n’è; formazione al giornalismo sociale se ne fa; il giornalismo sociale non è più una Cenerentola, anche se la politica ovviamente ci domina. L’ultima osservazione invece è la proposta, che torna al tema dei giovani, che toccava così efficacemente Mirella. Si tratta di una proposta che alcuni di noi hanno provato ad avanzare per decenni, fin qui senza risultato. Quella di una educazione sull’uso critico dei media fatta nelle scuole medie inferiori e medie superiori e forse anche nelle elementari. Ha ragione Mirella: oggi i giovani si informano su tanti siti, io sento parlare di fattanza, roba che non so cosa sia e poi scopro che hanno 4 milioni e mezzo di follower. Noi giornalisti e giornaliste, magari sta cominciando la legislatura, io ho provato a dirlo ai colleghi dell’ordine, al sindacato, al garante della privacy che la settimana scorsa ha fatto un’iniziativa anche su questi temi, dobbiamo provare a inizio legislatura provare chiedere al Ministero dell’istruzione se questi temi della società della comunicazione non possano entrare a scuola. Credo che ci sia modo per esserci e noi giornalisti e giornalisti. Altrimenti è inutile lamentarsi che l’intervista del pur grandissimo Aldo Cazzullo al pur grandissimo Totti faccia quel botto di click che ha fatto”.

La fragilità come opportunità: nuove risorse messe in campo dalle televisioni durante la pandemia e la guerra – Vincenzo Morgante

Vincenzo Morgante, direttore TV2000
“La fragilità come opportunità: nuove risorse messe in campo dalle televisioni durante la pandemia e la guerra”

IMPATTO DELLE CRISI

“La premessa che vorrei proporre, alle brevi note che sottopongo oggi alla vostra cortese attenzione, è che le situazioni di crisi spaventano e feriscono soprattutto i più fragili, i più deboli, i più vulnerabili. È vero che l’ombra minacciosa causata dal peggioramento delle condizioni e delle aspettative incombe sull’intera comunità chiamata in causa da un veloce mutamento negativo, ma è altrettanto vero che turbamento e smarrimento si impadroniscono in primis di quanti sono consapevoli di avere scarse risorse per fronteggiare ulteriori difficoltà.  

Soggetti non abbienti oppure non in piena salute oppure le cui condizioni lavorative, logistiche, relazionali e psicologiche non sono ottimali vengono sottoposti – quando si prospetta o si manifesta una crisi – a un sostanziale incremento di tensione la cui risultante può essere uno stato di grave disagio sia fisico che morale.

LINEA DELLE EMITTENTI CEI

Faccio questa premessa perché uno dei capisaldi della linea editoriale delle due emittenti di cui mi occupo da alcuni anni (Tv2000 e inBlu2000) è proprio l’attenzione alle fasce più bisognose, più delicate, più sensibili. E qui mi riferisco ai bisogni in modo generale e cioè non solo in termini economici, ma anche in termini di “sensibilità sociale” se mi passate questa espressione. Con “sensibilità sociale” intendo una forte suscettibilità di alcune fasce della popolazione rispetto a cambiamenti, pressioni e criticità, poiché si tratta di persone, di famiglie, di comunità, che vivono sulla soglia ossia in uno stato di equilibrio abbastanza precario e, quindi, soggetto a vacillare e magari a divenire instabile quando sottoposto a mutamenti importanti o a veri e propri sconvolgimenti.

Tutto questo per dire che il nostro punto di osservazione, dalla cabina di regia delle emittenti radiotelevisive della CEI è già di per sé particolarmente attento ai temi della sofferenza, della fragilità e dell’emergenza. Questi argomenti sono la sostanza stessa del nostro lavoro nel campo della comunicazione, sia perché sono temi basilari rispetto alla nostra “missione” sia perché il nostro pubblico è coinvolto in prima persona da tematiche di questa portata. Naturalmente, il coinvolgimento può essere anche parzialmente indiretto, come nel caso di chi si occupi di assistenza, di volontariato, di supporto, di aiuto e di sostegno.

PANDEMIA E CONSEGUENZE SULLA COMUNICAZIONE

Il Covid19 ha precipitato tutti noi che operiamo nella sfera della comunicazione in una condizione che potremmo, a buon titolo, definire di disabilità professionale. Infatti, abbiamo vissuto una sorta di menomazione, di disallineamento tra ciò che ciascuno di noi – come singolo giornalista e come azienda di informazione – avrebbe voluto fare e ciò che è riuscito effettivamente a fare con i mezzi consentiti e con le possibilità limitate da una situazione che non devo ricordare poiché certamente nessuno di noi l’ha dimenticata.

Questo disequilibrio, questo sfasamento ha avuto luogo non solo durante il lockdown più rigido (quello scattato a marzo 2020), ma anche dopo. E – per certi aspetti – ancora oggi presenta dei trascinamenti e delle conseguenze di lungo periodo. Siamo stati (e siamo ancora per alcuni versi) incapacitati, inabili, limitati.

In qualche modo, siamo stati costretti a metterci nei panni dell’altro, e – visto che parliamo del nostro mestiere di comunicatori – l’altro (nel nostro specifico caso) è stato affrontare il lavoro quotidiano in una cornice sorprendentemente diversa ossia con meno strumenti, meno risorse e meno possibilità rispetto a come ci eravamo ormai abituati durante gli anni della cosiddetta “normalità”.

Se penso alla esperienza di Tv2000 e inBlu2000, le due emittenti della Cei (una televisiva e l’altra radiofonica), la nostra “disabilità professionale” è stata determinata soprattutto dalla impossibilità di incontrare fisicamente le persone, di viaggiare in lungo e in largo, di andare materialmente sui luoghi delle notizie, e di avere ospiti e pubblico nei nostri studi. Tutto ciò ha avuto – a mio parere – un impatto davvero significativo sul nostro modo di raccontare la realtà, di organizzare il lavoro, di rapportarci con il pubblico da casa. 

NECESSITA’ DI ADATTAMENTO ALLA NUOVA SITUAZIONE

Così, davanti allo stravolgimento delle abitudini, abbiamo fatto di necessità virtù: abbiamo spostato il baricentro della nostra organizzazione del lavoro quotidiano, cambiando anche approccio ai temi, ai fatti e alle persone.

Prima che intervenissero le limitazioni sul distanziamento sociale, ospiti e pubblico presenti in studio consentivano, ad esempio, al conduttore, di sviluppare un fitto reticolo di confronti e scambi – magari anche solo empatici, cioè fatti di sguardi ed espressioni rivelatrici del viso – con il risultato (costruttivo) di spunti e occasioni per le successive domande e interlocuzioni.

I collegamenti in videoconferenza ovviamente hanno limitato questo vasto patrimonio di modulazione del rapporto fra conduttore, pubblico e ospiti. Il conduttore, spesso da solo in studio, ha dovuto adattare alla situazione contingente il proprio linguaggio e finanche la propria postura: parlare guardando negli occhi la persona che ti è seduta davanti in carne e ossa è cosa diversa dall’intervistarla mentre sei in piedi in uno studio vuoto e quella persona se ne sta seduta nel salotto della propria abitazione dinanzi a un computer.

Telegiornale, giornale radio e programmi di approfondimento, non potendo inviare i giornalisti sui posti dove accadevano le notizie, hanno messo in campo coraggio informativo, creatività e idee innovative, tra l’altro nel contesto di una narrazione complessa come necessariamente è quella riguardante una pandemia. Con accenti e sfumature diverse, una situazione analoga è quella determinata dalla guerra. Ma è chiaro che se una è una guerra al virus e l’altra è una guerra combattuta fra uomini, siamo comunque sempre dinanzi a fattori di tensione, pericoli e rischi molto accentuati. Comunque, sulla guerra militare tornerò fra un attimo.

ESEMPI DI PROPOSTE INNOVATIVE DIRETTE AL PUBBLICO

Noi di Tv2000 possiamo affermare, a proposito delle iniziative messe in campo per cambiare l’offerta informativa e adattarla alla nuova situazione pandemica, di essere riusciti a dar vita a molti nuovi appuntamenti.

Cominciamo da Tempo Sospeso, il titolo prescelto per identificare gli editoriali quotidiani realizzati per il nostro telegiornale da una firma autorevole e prestigiosa come quella di Ferruccio De Bortoli: in collegamento da casa sua, questo attento ed equilibrato maestro del giornalismo contemporaneo ha consegnato al nostro pubblico una serie di approfondimenti della durata ciascuno di circa tre minuti. Questi commenti, questi appunti sulla pandemia, ci hanno consentito di fornire ogni giorno ai nostri telespettatori un punto di vista preciso, misurato e pacato sui fatti del giorno.

Vorrei citare ancora la rubrica del Tg2000 Giovani costruttori, in onda nell’aprile 2021: abbiamo chiesto agli studenti di cinque importanti università italiane di proporre e sviluppare idee concrete per la ripresa del nostro Paese indebolito socio-economicamente dalla pandemia. L’idea è nata ascoltando le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando nel discorso di fine 2020 ha detto: “Questo è tempo di costruttori”. Abbiamo messo a disposizione dei ragazzi una finestra del nostro telegiornale affinché vestissero i panni dei progettisti e, appunto, dei costruttori.

I giovani sono il nostro futuro, ma anche il nostro presente: perciò abbiamo voluto dare loro voce, con una occasione concreta per farsi sentire, e ci siamo messi in ascolto. Molti giovani oggi sono davvero competenti e preparati, con esperienze anche all’estero. Molti sono in grado di vedere le cose con sguardo nuovo e con la consapevolezza che il futuro dipende anche da loro.

Ecco, questo riguardo e questa attenzione ai giovani è un altro esempio di come gli ultimi accadimenti mondiali abbiano fatto cambiare il nostro lavoro. La chiave è in fondo piuttosto semplice: mettersi sempre di più in ascolto degli altri, come auspicato anche dal presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, pochi giorni fa, proprio durante la presentazione dei nuovi palinsesti di Tv2000 e inBlu2000. 

È un momento – ha spiegato il cardinale Zuppi – di grande trasformazione del mondo, delle persone e della Chiesa. Parlo di una Chiesa – ha detto Zuppi – che ascolta e che si rimette a camminare insieme ai tanti compagni di strada ai quali, qualche volta, ha parlato prima di ascoltarli. Talvolta, la Chiesa ha preteso di spiegare ai propri interlocutori chi loro fossero, prima di capire chi essi realmente fossero. A questi soggetti dobbiamo parlare di più e toccare di più i loro cuori – ha sottolineato il cardinale Zuppi – cercando di comprendere tante situazioni diverse, le sofferenze, i disagi e le tante domande in attesa di risposte”.



Bene, a proposito del saper ascoltare (soprattutto i giovani) con l’obbiettivo di poter raccontare meglio la realtà, posso citare un altro esperimento del nostro telegiornale: la rubrica Giovani lettori. Abbiamo chiesto ad alcuni ragazzi, studenti e laureati, di raccontare in un video il loro libro della vita, ossia il libro che ha rivestito un ruolo importante per la loro formazione o comunque il testo che è rimasto impresso nella loro memoria. Anche qui abbiamo valorizzato le idee di ragazze e ragazzi che probabilmente sarebbero rimaste inespresse.

RELAZIONE VIRTUOSA FRA COMUNICATORI E PUBBLICO

La pandemia – cito un fatto che è sotto gli occhi di tutti – ha allargato ulteriormente il divario fra le persone più fragili e le loro esistenze quotidiane, facendo emergere e accrescere enormi criticità, dall’accesso ai diritti elementari a quello riguardante il sostegno e l’assistenza fino alla semplice partecipazione alla vita sociale.

Noi comunicatori abbiamo un compito decisivo per arginare la deriva dell’esclusione attraverso la costruzione di processi di informazione dedicati.

Possiamo fare tanto perché abbiamo un privilegio che altri professionisti non hanno: quello di entrare in relazione quasi confidenziale con gli utenti cioè con i nostri telespettatori e con quanti ci seguono sulle altre piattaforme comunicative. Si tratta di una relazione speciale ed essa ha anche la caratteristica di consolidarsi quando ci si fida reciprocamente. La relazione si rafforza e si radica quando noi diventiamo credibili e acquistiamo autorevolezza perché siamo coerenti rispetto a ciò che comunichiamo e non “diamo fregature” al telespettatore.

Proprio quest’anno abbiamo deciso di cambiare il claim della nostra televisione. Così, abbiamo scelto lo slogan “Autentici per vocazione”.

Questa è da sempre la nostra sostanza ed è ciò su cui continueremo a costruire, mentre siamo impegnati a innovare e rinnovarci. Chi opera nel mondo della comunicazione ha il vantaggio di lavorare in una dimensione straordinaria, ma ha anche una grande responsabilità. Comunicare al pubblico è un servizio fatto di importanza sociale, bellezza e soddisfazione, ma solo se è svolto con responsabilità poiché – quando questa viene meno – l’informazione diventa manipolazione, inganno e autoreferenzialità. Siamo e saremo autentici in quanto responsabili: questa è la nostra vocazione.

GUERRA E OPPORTUNITA’ DI COMUNICAZIONE

Spostiamo ora il focus su un altro settore della comunicazione che ha recentemente mostrato enormi novità e capacità di adattamento. Come sapete, infatti, la dimensione comunicativa digitale ha rivelato al mondo che l’Ucraina resisteva e che lo faceva con convinzione e assoluta determinazione. Ci si aspettava una guerra-lampo con la resa quasi immediata degli aggrediti (fragili e vulnerabili) dinanzi allo spiegamento di forze del colosso russo. Invece, c’è stata la grande sorpresa, da parte dell’Ucraina, di una fierezza e di una volontà ferrea di opporsi al corso del destino. Tutti noi abbiamo saputo di questa non scontata resistenza perché il presidente Volodymyr Zelensky (con il supporto di altri suoi collaboratori) ha comunicato al mondo tramite le tv e tramite i social in modo continuativo, puntuale e inesausto. L’impressionante raffica di messaggi degli ucraini ha, sin dall’inizio, determinato un vero e proprio vantaggio comunicazionale. E questo vantaggio è stata la seconda grande sorpresa che ha accompagnato la prima sorpresa cioè quella della resistenza. Mentre da parte degli aggrediti si palesava una informazione dettagliata, regolare e molto efficace, gli aggressori restavano in un cono d’ombra inquietante e imperscrutabile. In estrema sintesi, possiamo dire che gli ucraini – fragili ed altamente esposti alla furia della macchina militare di Mosca – (dal punto di vista degli armamenti), sono stati invece prontissimi e abilissimi a cogliere tutte le opportunità offerte dai social e dal web, al fine di diffondere informazione e di favorire il consenso alla loro causa e alla loro posizione.

LA FORZA DELLE IMMAGINI

Pensiamo alla innegabile inferiorità dei combattenti ucraini asserragliati nella acciaieria Azovstal e pensiamo, però, a cosa è riuscito a determinare – in termini psicologici e comunicativi – un soldato-fotografo il quale – non potendo fare altro – ha documentato scatto dopo scatto i tre mesi nell’inferno dei sotterranei dell’acciaieria. Ebbene, prima di arrendersi, obbedendo all’ordine ricevuto dal proprio comando, quel soldato-fotografo ha messo tutte le sue immagini in rete raccomandando agli utenti di inviarle ai concorsi fotografici, sperando di vincere e di avere la massima esposizione per la sua documentazione. Ovviamente, un premio speciale lo ha avuto: è il The Polish Grand Press Photo 2022 attribuito in Polonia alle migliori opere fotografiche dell’anno. Tuttavia, il vero premio è stato l’effetto ottenuto dalla massima circolazione dei suoi scatti in tutto il mondo.

Qualcuno ha parlato di una nuova Resistenza imperniata sulle tecnologie che consentono una informazione tempestiva, a volte immediata.

Dietro all’account twitter di Zelensky sicuramente c’è un team di comunicazione digitale molto preparato e soprattutto instancabile e appassionato.

Ma davanti all’account del presidente ucraino sicuramente c’è una moltitudine di persone, un mondo, che vuole sapere, che vuole essere informato (al netto della propaganda, che inevitabilmente c’è e sempre ci sarà).

L’intreccio tra comunicazione e strategie di guerra è in un groviglio sempre più intricato e stringente. I conflitti si combattono sul campo ma soprattutto con le immagini capaci di influenzare l’opinione pubblica di tutto il mondo.

CONSIDERAZIONI FINALI

In conclusione, possiamo osservare come le fragilità, evidenziate in particolare dalla pandemia e dal conflitto in Ucraina, siano diventate un’opportunità per la televisione e per gli altri mezzi di comunicazione di tornare a essere servizio pubblico in una vasta articolazione di modalità. Un mezzo di servizio potente e credibile che entra ogni giorno nelle case di milioni di persone. Una responsabilità che deve continuare ad essere prioritaria nelle nostre scelte su come fare la televisione del futuro”.

Come sono organizzate le agende informative: tutto quello che i media non dicono – Andrea Garibaldi

Andrea Garibaldi, giornalista, socio fondatore della Fondazione Alessandra Bisceglia ViVa Ale Onlus

“Come sono organizzate le agende informative: tutto quello che i media non dicono”

“Vorrei ragionare con voi su alcuni “grandi vizi” dell’informazione italiana, che possono aiutarci ad approfondire il tema di questo pomeriggio. A capire perché le persone fragili sono scomparse dai media, schiacciate da Covid e guerra. Per la verità, non è che prima fossero così presenti.

I “grandi vizi” sono essenzialmente quattro.

Il primo lo chiamerei “gli eccessi”.

Quando c’è un grande evento, l’informazione si concentra su quello. Giustamente, ma in modo esagerato. Col Covid, con la guerra lontana da qui, la vita è continuata: il lavoro, i figli, gli anziani, la spesa, gli incidenti. E continuavano ad esistere i fragili, i malati di altre malattie, i poveri.

Certo, Covid e guerra sono due eventi enormi, forse i più importanti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma il fatto interessante è tutto italiano: il 21 luglio è caduto il governo Draghi e sono state fissate le elezioni al 25 settembre. Da quel momento -più o meno- sia il Covid, che era già in calo, sia la guerra in Ucraina, che ancora causa centinaia di morti al giorno, sono state spinte verso le ultime pagine dei giornali, verso la metà dei telegiornali e sul fondo delle schermate dei siti. Spazzati via dalle elezioni, dalle dichiarazioni dei politici, dai temi imposti dai politici, dalle interviste, dai confronti, dai sondaggi.

Ecco, un eccesso che scaccia due altri eccessi. Ma questo è l’eccesso che sui media italiani c’è tutti i giorni: pagine e pagine di politica, come in nessun altro Paese al mondo. Anzi, si può notare come solo due mega eventi, Covid e guerra, fossero riusciti a ridurre l’interesse quasi morboso di media tradizionali e tv per i palazzi del Potere.

Il secondo “grande vizio” lo chiamerei “le dimenticanze”. Dopo il primo choc, quando si cominciò a razionalizzare la pandemia, vennero alla luce le carenze del Servizio Sanitario Nazionale, che era stato, negli anni passati, un nostro fiore all’occhiello. Fu chiaro ed evidente che non eravamo pronti ad affrontare il Covid e fu chiaro ed evidente che negli ultimi anni il Servizio Sanitario pubblico era stato indebolito, pezzo dopo pezzo. I posti letto pubblici erano passati da 530mila nel 1981 a 200mila nel 2022. In alcuni casi è stato giusto chiudere alcuni ospedali, ma si sarebbe dovuto parallelamente investire nelle strutture territoriali e di comunità. Invece, spendiamo l’1,2 del Pil per l’assistenza domiciliare e territoriale, contro il 2,9 per cento della Germania. Alla sanità pubblica destiniamo il 6,5 per cento del Pil mentre Germania e Francia spendono il 9,5 per cento, abbiamo 58 infermieri ogni 10mila abitanti, Germania e Francia ne hanno il doppio. Avevamo 5000 letti in terapia intensiva, ne sarebbero stati necessari 10mila. Nel frattempo, sono aumentate, in alcuni casi raddoppiate, le spese per rimborsare la sanità privata. In Lombardia il 40 per cento della spesa sanitaria pubblica va a strutture private convenzionate, che sostituiscono cioè le strutture pubbliche.

E per parlare dei fragili: liste di attesa per le visite specialistiche di sei mesi/ un anno, calo delle diagnosi oncologiche del 20 per cento, hospice per i bambini non in tutte le Regioni, come invece prevedeva una legge del 2010. Per minori, anziani e disabili, l’Italia spende un terzo della media europea. E comunque a Vibo Valentia si spendono 6 euro a persona e a Bolzano 583 euro a persona. Le famiglie dei malati di Alzheimer, dei bimbi autistici, di chi è colpito da una malattia rara sono lasciate molto da sole.

Si disse, in pieno Covid: l’insegnamento ci servirà, va ricostruito il Servizio pubblico, non ricapiterà quello che sta capitando.

Al momento non sembra che questo stia succedendo. Aspettiamo i venti miliardi del Pnrr, che dovrebbero essere utilizzati per ospedali di comunità, case della salute territoriali, assunzioni di 33mila infermieri. Per la verità, intanto, si sente parlare di revisione dei piani del Pnrr. Chissà se l’intenzione è proprio di togliere miliardi alla Sanità.

È vero che i giornali devono dare notizie, ma è notizia anche una promessa non mantenuta, è notizia anche il controllo sulla riparazione di ciò che si è rivelato insufficiente. Ma il ripristino del Servizio Sanitario Nazionale, prima e durante la campagna elettorale, è assente anche dalle agende dei media.

A Roma, qui dove viviamo tutti noi, ma anche in tante altre parti d’Italia, la paura di stare male è aggravata dall’idea di doversi rivolgere a un pronto soccorso. Un collega, Vittorio Di Trapani, per molti anni segretario del sindacato dei giornalisti Rai, Usigrai, ha raccontato recentemente di aver passato 14 ore in attesa all’ospedale Sant’Andrea prima di essere visitato, controllato e curato, dopo un tamponamento in auto. “È un dovere -ha scritto- impedire che accadano cose del genere. Ma un’altra cosa ho voglia di dire: quanto dolore ho visto! Quanto dolore! Perché tutto questo dolore?!?!? Perché?!?!?!?”.

Fabio De Iaco, presidente della Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza, prima delle elezioni ha scritto un articolo così intitolato: “Caro candidato, per capire passi un giorno al pronto soccorso”. Diceva, fra l’altro: “Se si vuole conoscere la vera condizione di un Paese non esiste miglior punto di osservazione. È solo lì, caro candidato, che troverà l’esatta fotografia del reale: perché le necessità sociali ed economiche non soddisfatte diventano inesorabilmente necessità sanitarie. E il Pronto Soccorso le raccoglie tutte: famiglie che non possono più assistere i propri cari, adolescenti preda del disagio mentale, nel vuoto assoluto di cura e occasioni che questo Paese offre loro, stranieri che sopravvivono e spesso producono in un limbo di ignoranza e marginalità”. Non risulta che nessun candidato abbia ascoltato il consiglio.

Ecco, questo discorso introduce il terzo “grande vizio”: la mancata vigilanza dei media sulle esigenze di carattere collettivo. Qui gli esempi possono essere molteplici.

La tragedia del fiume Misa esondato nelle Marche: 2,5 miliardi stanziati nel 2018 per metterlo in sicurezza e spesi solo in piccola parte. Diciotto miliardi stanziati in Italia per il dissesto idrogeologico e non spesi.

In Italia si perdono due metri quadrati di suolo al secondo, terreno che viene coperto da asfalto. E l’asfalto è la causa della impermeabilizzazione, degli allagamenti e delle falde che l’acqua piovana non può alimentare e quindi delle coltivazioni che non si possono fare.

I media dovrebbero ricordare questi fatti, o meglio non fatti, periodicamente, quando si può fare qualcosa di positivo e non scrivere soltanto pagine indignate, mentre si contano le vittime.

Altro esempio, l’emergenza clima, di cui molto si tratta. Ma poi, crescono i consumi dopo il lockdown, scoppia la guerra in Ucraina e ricominciano gli investimenti sul carbone: le aziende dei combustibili fossili in tutto il mondo hanno già approvato enormi progetti per lo sfruttamento di nuovi giacimenti, che porteranno l’aumento delle temperature globali oltre tutti i limiti fissati dagli accordi internazionali. E i mezzi d’informazione accettano senza battere ciglio il tradimento di ogni buon proposito di transizione energetica. In nome di un interesse superiore, che di solito non è quello dei cittadini.

Oppure, altro esempio, l’aumento delle spese militari in Italia, a seguito sempre della guerra, per un miliardo e duecento milioni. Quanto basterebbe per costruire trenta nuovi ospedali. Ma queste connessioni raramente vengono fatte.

E siamo al quarto e ultimo “grande vizio”. Che li riassume un po’ tutti: le presunte priorità.

Per i media italiani la priorità delle priorità -come abbiamo già accennato- è la politica. Ma non la politica dove si confrontano idee diverse di società, le decisioni diverse su dove investire e come redistribuire i redditi. Piuttosto, il racconto dei mezzi d’informazione si concentra sulla lotta fra i partiti o meglio sulla lotta fra i leader, sulle alleanze che si fanno e si disfano, sulle tattiche molto più che sulle strategie.

Non sembra, invece, una priorità l’evasione fiscale: 100 miliardi di evasione l’anno, con i quali si coprirebbe l’intera spesa sanitaria.

Non sembrano una priorità il 23 per cento dei giovani fra 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione.

Non è una priorità che negli ultimi 50 anni abbiamo perso 40 milioni di metri quadrati di spiagge, che le spiagge italiane sono occupate per il 43 per cento da stabilimenti balneari, che i proprietari di questi stabilimenti si oppongono con ferocia ogni qualvolta qualcuno (l’ultimo è stato Mario Draghi) cerchi di regolare i canoni ridicoli che pagano allo Stato per occupare il pubblico demanio.

Non è una priorità che fra il 2014 e il 2020 l’Italia è stata capace di spendere solo 17,3 miliardi sui 75,2 miliardi che l’Europa ci ha dato per fare strade, scuole, fibra ottica, sostegno al Mezzogiorno.

Non è una priorità che in Italia il 36 per cento dell’acqua immessa nei nostri acquedotti si disperde, si butta via a causa del degrado degli acquedotti stessi. Però si grida ai danni della siccità, al disastro dell’economia lungo il Po.

Certo, dove ho letto tutti questi dati? Sui mezzi d’informazione. Ma una cosa sono articoli en passant, altra cosa è insistere, scavare, bussare alle porte dei responsabili finché le questioni non vengano affrontate davvero.

Non sono priorità i problemi che riguardano le persone fragili. Esempio: 67 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno (furono 57 in tutto il 2021). Alcuni dei detenuti che si sono tolti la vita erano lì da pochi giorni, uno aveva rubato un telefonino, uno aveva oltraggiato un pubblico ufficiale, un altro aveva fatto una rapina in un supermercato. In carcere si tolgono la vita 11 persone ogni diecimila, fra i cosiddetti “liberi” 0,7 persone ogni diecimila.

Tutte le persone fragili sicuramente diventano più fragili in crisi eccezionali come la pandemia e la guerra, ma anche in tempi “normali” sono sempre e comunque relegate in nicchie di informazione. Appaiono quando chi è in grado di gridare per loro -associazioni, parenti- riesce a raggiungere le agende dei media.

L’ipotesi di tutto questo discorso è dunque che questa indifferenza è un problema strutturale e non legato alle ultime due situazioni che abbiamo vissuto. Con lodevolissime eccezioni, che abbiamo ascoltato qui e che continueremo ad ascoltare.

Vorrei concludere con una piccola postilla. Ho esaminato il comportamento dei mezzi di informazione tradizionale. Ma che dire dei nuovi mezzi di informazione? Intendiamo quelli che sono nati sull’online e non sono mai stati di carta (Fanpage, Open, Huffington Post) e quelli che navigano all’interno dei social network rispettando alcune delle regole del giornalismo (Will_Ita, Factanza, Torcha)?

Riguardo ai grandi vizi di cui abbiamo parlato, direi che questi nuovi mezzi ne evitano due e condividono gli altri due. Sono senz’altro meno sensibili al primo e quarto vizio. Quindi, meno eccessi, non smontano tutto per immersioni globali in eventi come il Covid e la guerra. Questo anche per l’esigenza di mantenere quote di intrattenimento. Quindi, meno presunte priorità. La loro offerta informativa -parliamo in generale- indirizza meno il lettore di quanto facciano i media tradizionali. L’idea -specie nell’informazione sui social- è quella di un grande supermercato con scaffali dai quali ciascuno prende il prodotto (la notizia, il servizio, l’approfondimento) che desidera.

Sulle dimenticanze e sulla mancata vigilanza invece i vizi si perpetuano, talvolta si amplificano, visto che qui più che nei mezzi tradizionali contano la velocità, l’immediatezza, la freschezza, il bisogno di tener desta l’attenzione con fatti sempre nuovi.

Infine, vi prego di credermi: non ho voluto dare lezioni, né pagelle, solo invitare la platea alla riflessione”.

L’alfabeto della fragilità – Fabio Zavattaro

Fabio Zavattaro, Direttore Master in Giornalismo, Università LUMSA

L’alfabeto della fragilità

“Andrà tutto bene!

Ricorderete tutti queste parole quasi esercizio per esorcizzare la paura del contagio, di finire in un reparto di terapia intensiva o, più semplicemente in un corridoio di ospedale. Da quelle parole, dall’inizio della pandemia, scoppiata in Cina alla fine del 2019, e da noi il 9 marzo 2020, o forse dovremmo dire 21 febbraio, Codogno, Lodi, il paziente uno, ci siamo sentiti quasi aiutati nella ricerca della luce in fondo al tunnel. Andrà tutto bene continuavamo a dire mentre cresceva il numero dei morti, dei contagiati, dei ricoveri, e anche delle polemiche da parte di chi negava l’efficacia dei vaccini per combattere il covid.

A questo punto poniamoci la domanda: è andato davvero tutto bene? Due cifre soltanto: dall’inizio della diffusione del Covid vi sono stati oltre 21 milioni e 100 mila contagiati, e, purtroppo, 172.397 morti. Quanto abbiamo discusso, un po’ tutti, sulla fragilità delle persone che hanno perso la vita a causa della pandemia, quasi a trovare una sorta di tranquillizzante giustificazione: sono in buona salute, non ho patologie più o meno gravi, e dunque rischio di meno. Con il tempo, i vaccini, e le attenzioni la curva dei contagi, i ricoveri sono scesi e abbiamo tutti turato un sospiro di sollievo.

Andrà tutto bene!

Poi, il 24 febbraio di quest’anno, la Russia invade l’Ucraina, a otto anni dalla precedente crisi scoppiata con l’allontanamento del presidente filorusso, un allineamento occidentale del nuovo governo ucraino, l’occupazione della Crimea e le prime proteste nel Donbass. Così abbiamo iniziato a scoprire nuove fragilità; abbiamo imparato a conoscere i bambini e i malati in terapia costretti a sfidare la sorte, assieme a medici e infermieri, nella speranza che missili e bombe non arrivassero a colpire l’ospedale.

Voi direte che sto andando fuori tema, che c’entra la guerra – ops, operazione militare speciale – con la fragilità? O forse dovremmo dire che proprio le persone fragili, sofferenti sono ancora più fragili in un conflitto che non risparmia ospedali e centrali nucleari; proprio queste persone sono ancora più fragili anche di fronte a una pandemia che, nonostante i vaccini, è ancora in agguato. E poi ci sono i poveri e i nuovi poveri, il cui numero è cresciuto di 6 milioni rispetto al 2021, e il 57 per cento degli italiani, secondo il rapporto Coop 2022, rischia di non riuscire a pagare l’affitto. Infine, ci sono coloro per i quali le limitazioni fisiche e psichiche sono compagni di vita, nel nascondimento di una abitazione o di una casa di cura. Storie che non vengono raccontate, che noi giornalisti non raccontiamo, se non saltuariamente, perché non fanno notizia. Poi leggiamo, troviamo articoli su chi ha scelto di mettere la parola fine alla propria esistenza, l’ultimo Jean-Luc Godard, o chi, dal silenzio del proprio letto, ci manda, sulle pagine di un quotidiano, una riflessione che ci provoca, che chiede il rispetto della sua esistenza, anche se segnata da malattie e sofferenze.

La prima parola di questo alfabeto della fragilità – ammalarsi – la lascio alla penna di un nostro collega malato di sla. Non faccio il suo nome perché non gli ho chiesto il permesso di citarlo in questo mio intervento, e perché, in fondo, è come se attraverso la sua voce arrivassero a noi le voci di tanti come lui costretti all’immobilità e la cui vita dipende da alcune macchine che devono restare accese 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno.

Risponde, il nostro, a una donna che vorrebbe interrompere la sua esistenza. Il suo corsivo anticipa di due mesi l’inizio della pandemia nel nostro paese:

“non mi permetto di giudicare il suo appello a morire con dignità, ma proprio adesso che il Parlamento sta per affrontare la questione, credo che prima abbiamo il dovere di rivendicare il diritto a vivere con dignità, anche in questa condizione estrema. E sappiamo molto bene, lei ed io, come questo ci sia negato. La burocrazia ci uccide con le sue lentezze inesorabili, fingendo di ignorare che per noi contano i minuti, non i mesi.

Siamo la nazione europea in cui si spende di meno per sanità, e dove i servizi domiciliari praticamente non esistono. Se lei ed io fossimo ammalati in Germania lo Stato avrebbe adeguato a sue spese le nostre abitazioni, potremmo contare su tutto quello di cui abbiamo bisogno quotidianamente, e non parlo solo di presidi medici, ma anche, per esempio, di computer speciali per poter lavorare o anche solo passare il tempo; addirittura, lo Stato arriva a pagare il surplus di energia elettrica necessaria a far funzionare le macchine di cui abbiamo bisogno. Io credo che questa sia civiltà, un assicurare una vita dignitosa che non può non precedere l’assicurare una fine dignitosa. Senza quella, riconoscere il “diritto a morire” è semplicemente un modo di lavarsi le mani di noi e dei nostri problemi, sperando che togliamo in fretta il disturbo; una sorta di moderna Rupe Tarpea da cui gettare le persone ritenute inutili. Assicurarci il diritto a vivere con dignità costerebbe pochissimo considerato quanti siamo. Ma proprio perché siamo pochi, non contiamo, non valiamo, non siamo nulla. Siamo, appunto, già morti, e riconoscerci il diritto a morire è una grandissima, ipocrita comodità”.

Pochi giorni fa è tornato a scrivere per mettere in primo piano le difficoltà che il conflitto in Ucraina e il crescente aumento del costo dell’elettricità, e di altro ancora, sta provocando alle persone che si trovano nelle sue stesse condizioni. Ha sottolineato come tutti siamo chiamati a risparmiare là dove è possibile, ma ci sono cose “sulle quali nessun risparmio è possibile. Le disabilità sono tra queste, anche se credo che nessuno l’abbia presente”. Poi esprime il suo no a nuovi tagli sulla sanità, come da qualche parte si prospetta: perché questi andranno a ricadere sulle spalle dei disabili “con i soliti tagli feroci alle spese per l’assistenza domiciliare. Fondi già risicati, e che sono sempre i primi a venire falcidiati”. Da quelle macchine non può separarsi “è appesa la mia vita, e non è possibile spegnerle. O meglio sarebbe possibile, certo, e in questo modo si potrebbe ulteriormente risparmiare sui fondi dell’assistenza”.

Una seconda parola di questo alfabeto è disabilità

Una definizione: per l’OMS è “qualsiasi restrizione o carenza (conseguente a una menomazione) della capacità di svolgere un’attività nel modo e nei limiti ritenuti normali per un essere umano”. Per l’International Classification of Impairments, Disabilities and Handicap – ovvero la Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap pubblicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1980 a scopo di ricerca – si tratta di “scostamenti, per eccesso o per difetto, nella realizzazione dei compiti e nella espressione dei comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso…”

Ecco che disabilità viene subito accostata alla parola normalità, alla capacità di svolgere un’attività. Ma domandiamoci se sia giusto legare la lettura di questa situazione dovuta a una menomazione, alla capacità del fare. La disabilità, anch’io continuo a utilizzare questo termine e vi chiedo scusa, esiste da sempre, è compagna della nostra vita. Disabili erano Tutankhamon, Cesare, l’imperatore Claudio, Roosvelt, Churchill, Stalin. La disabilità è vista come una sorta di male da curare; e ancora oggi quel modo di percepire la fragilità o la menomazione di una persona è ben presente e spesso utilizzato anche per offendere.

C’è un termine che segna in modo chiaro la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità: abilismo. Termine nato nel mondo anglosassone alla fine degli anni 80 e viene attuato attraverso il linguaggio, gli atteggiamenti, la mancanza di leggi e qualsiasi comportamento non inclusivo.

La disabilità non è una malattia e la persona non è la sua disabilità. Dovremmo proprio partire da questo concetto per costruire un nuovo modo di approcciarci con queste persone. Spesso si usano espressioni pietistiche, o le narriamo quando fanno delle scelte di diversa natura – attività sportiva, pubblicazioni, o altre espressioni dell’intelligenza – attraverso un linguaggio come dire eroico. È una persona che va presa in considerazione per quello che ha e non per quello che non ha. E se il risultato ottenuto, l’atto compiuto è degno di citazione perché bello, ecco diciamolo senza aggiungere altro, senza dire: bello perché ottenuto da una persona disabile.

Nel narrare fatti e episodi spesso si usano termini quali: handicappato, affetto da disabilità o portatore di; ancora, diversamente abile. C’è poi tutta una terminologia che vorrebbe essere di attenzione, ma che invece è ancora più fastidiosa soprattutto per la persona di cui parliamo o a cui ci rivolgiamo: poverino, sfortunato, sventurato, infelice. Meglio persona con disabilità, con la sindrome di…

La cosa più importante da tenere a mente quando trattiamo questo tema, è che ci rivolgiamo, o parliamo, di una persona, con i suoi diritti e la sua dignità. Ua persona che non vuole, non cerca la pietà tout court.

Ma c’è una seconda possibilità di lettura della lettera D, ovvero dubbio. La pandemia non è ancora finita, anche se è abbastanza sotto controllo; la guerra nel cuore dell’Europa è ancora lì a dirci la stupidità di una scelta che porta con sé ferite dolorose, distruzioni e morte. Dubbio perché il nostro incipit – andrà tutto bene – ci sembra suoni falso; il futuro lo vediamo ancora incerto, ricco di incognite in una Europa, ma anche nel nostro paese, che fa fatica a far passare due concetti chiave: solidarietà e bene comune. Non sappiamo più bene cosa davvero significhino. E pensate quale preoccupazione ricade su coloro che vivono questo tempo nella fragilità e nella sofferenza. Papa Francesco – scusatemi ma il mio passato di giornalista vaticanista torna ad affacciarsi quando scrivo – il Papa ci ricordava, il 27 marzo di due anni fa, che non ci si salva da soli, c’è bisogno di condivisione, di solidarietà. Diceva Francesco: “avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta”; e guardando il crocifisso di san Marcellino al Corso a Roma, in quella preghiera in piazza San Pietro, ha aggiunto: “non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.

Non c’erano le folle quella sera in piazza San Pietro; forse, mai come in quei giorni quel vuoto desolante si è riempito da una folla di credenti e non credenti che hanno accompagnato il vescovo di Roma in tutti i suoi momenti di preghiera, grazie alla televisione e ai nuovi media. Francesco è ancora una volta solo, ma porta con sé tutta la sofferenza del mondo. La sua è la voce di uno che grida nel deserto, che chiede di guardare all’uomo, a tutto l’uomo e a ogni uomo, anche l’uomo, o la donna, sofferente; oggi è il Papa che chiede la fine del conflitto, di quella terza guerra mondiale a pezzi, come ha detto più volte. Per il Papa non è soprattutto il tempo della dimenticanza, il nostro, e per questo chiedeva, lo ha detto due anni fa, di conquistare un diritto fondamentale che non ci sarà tolto: il diritto alla speranza.

Ecco un’altra parola, anzi due, per il nostro vocabolario: egoismo indifferente. Le fitte tenebre della pandemia ci hanno resi ancora più chiusi; quel distanziamento sociale – termine che ho sempre contestato – si è impadronito delle nostre vite, ci ha fatto costruire una sorta di zona franca dove l’altro non è ammesso, se non in rarissimi momenti. Il conflitto tra Russia e Ucraina ha ridestato una paura che lentamente pensavamo di aver superato dopo la pandemia. E abbiamo mai pensato, guardato, alle persone chiuse nelle loro case o in qualche clinica o ospedale; ci siamo mai chiesti come vivono queste persone la loro fragilità.

E allora ecco un’altra parola: ricominciare. Già, ma come? Abbiamo vissuto un tempo sospeso e oggi ci troviamo a scegliere la strada da percorrere. L’immagine che qui mi piace ricordare è di un grande scrittore russo Lev Tolstoj che, nel libro “Il Regno di Dio è in voi”, descrivere con queste parole la verità: è come una lanterna nelle mani di un viandante, il quale “non vede ciò che la lanterna non rischiara ancora; non vede neanche la via percorsa e che è già ricaduta nell’oscurità; ma in qualunque luogo si trovi, egli vede ciò che è rischiarato dalla lanterna, ed è sempre libero di scegliere l’uno o l’altro lato della via”. Ecco abbiamo questa lanterna nelle nostre mani e nel ricominciare dobbiamo stare bene attenti alla strada da percorrere. I cambiamenti che abbiamo di fronte sono grandi e chiedono prospettive nuove: non possiamo voltarci indietro, ma la memoria di quanto abbiamo vissuto ci deve aiutare a compiere le scelte giuste. Come diceva Thomas Eliot ne “La rocca”: “in posti abbandonati noi costruiamo con mattoni nuovi. Dove le travi son marcite costruiremo con nuovo legname. Dove parole non son pronunciate costruiremo con nuovo linguaggio”.

Vogliamo ricominciare? Ma non si tratta di un ritorno al 2019, a prima della pandemia. La lanterna di Tolstoj che ci deve guidare facendoci mettere da parte i nostri egoismi e aprirci all’altro; dobbiamo riscoprire l’importanza di parole come solidarietà, condivisione, bene comune. Quando torneremo alla normalità – ecco sono caduto anch’io nella trappola di questa parola che aggiusta tutto – e allora chiediamoci cosa vuol dire normalità…

Forse dovremmo pensare a costruire parole nuove, a dare nuova luce a quelle già note: anche questo sarà un modo per non voltarci indietro e camminare invece in una prospettiva di cambiamento.

In questo alfabeto, l’ho pronunciata più volte, non poteva mancare la parola fragilità. Nel nostro immaginario collettivo la fragilità è associata alla parola debolezza. Certo è anche vero, ma pensiamo a quanta forza, a quanta volontà è necessaria per superare la situazione di fragilità. Torniamo per un attimo alla lettera del nostro collega che ho citato prima: quanta forza nelle parole che ha consegnato alla nostra lettura. Per lui, e spero non solo per lui, vale quanto afferma San Paolo: quando sono debole è allora che sono forte.

La fragilità, nel nostro mondo così convulso e ricco di stimoli, è associata alla mancanza di efficienza: fragile è chi non corre, non si muove con scioltezza; è il mito della perfezione, del non aver bisogno di un aiuto, dell’altro.

Un proverbio indiano narra di quattro stadi, quattro età, della vita dell’uomo. Il primo è lo stadio in cui si impara; il secondo è quello in cui si insegna e si servono gli altri; nel terzo si va nel bosco, il bosco profondo del silenzio, della riflessione, del ripensamento. Nel quarto stadio, si impara a mendicare; l’andare a mendicare è il sommo della vita ascetica, e il mendicante rappresenta lo stadio più alto dell’esistenza umana. È soprattutto la consapevolezza che si ha bisogno dell’altro, di avere accanto qualcuno che sia di aiuto.

La fragilità, dunque, è la nostra condizione umana. Ne facciamo esperienza sempre di più nella complessità delle relazioni. Fragili sono le relazioni personali e sociali. Fragili le parole che usiamo. Fragili sono le stesse democrazie, sotto la spinta di fenomeni eversivi, tra populismi e sovranismi. Fragili sono le persone…

Ma proprio perché è una condizione umana dobbiamo, noi giornalisti, essere attenti a come trattiamo il tema. Forse non ci rendiamo nemmeno conto, e, soprattutto, non lo facciamo con malizia, ma quando affrontiamo, ad esempio, nei servizi di cronaca, la questione dei falsi invalidi, ecco che rischiamo di mettere in cattiva luce anche le persone che vivono davvero e con dignità la propria condizione di disabilità.

Tutti conosciamo, o abbiamo visto in azione, Oscar Pistorius. Provate a digitare il suo nome e la prima frase che apparirà sul video del vostro computer vi stupirà: Pistorius, soprannominato “the fastest man on no legs” (il più veloce uomo senza gambe). Torna il concetto del superuomo, capace di stupire e di superare gli ostacoli nonostante la sua disabilità, che va menzionata, mentre dovremmo semplicemente mettere la persona al primo posto.

Infine, attenzione a quando ci rivolgiamo a una persona con disabilità: dobbiamo parlargli guardandolo, non avendo paura di dire espressioni che sono di uso comune e che, invece, omettiamo perché pensiamo che così non urtiamo la sua suscettibilità.

Permettetemi, infine, un ultimo veloce cenno alle nostre regole deontologiche, al Testo unico dei doveri del giornalista, in vigore dal primo gennaio 2021. Cito solo una parte dell’articolo 6 sui

Doveri nei confronti dei soggetti deboli. Informazione scientifica e sanitaria

Il giornalista:

a) rispetta diritti e la dignità delle persone malate o con disabilità siano esse portatrici di menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali, in analogia con quanto già sancito per i minori dalla «Carta di Treviso»;

b) evita nella pubblicazione di notizie su argomenti scientifici   un sensazionalismo che potrebbe far sorgere timori o speranze infondate avendo cura di segnalare i tempi necessari per ulteriori ricerche e sperimentazioni; dà conto, inoltre, se non v’è certezza relativamente ad un argomento, delle diverse posizioni in campo e delle diverse analisi nel rispetto del principio di completezza della notizia;

c) diffonde notizie sanitarie e scientifiche solo se verificate con fonti qualificate sia di carattere nazionale che internazionale nonché con enti di ricerca italiani e internazionali provvedendo a evidenziare eventuali notizie rivelatesi non veritiere;

d) non cita il nome commerciale di farmaci e di prodotti in un contesto che possa favorirne il consumo e fornisce tempestivamente notizie su quelli ritirati o sospesi perché nocivi alla salute.

Cito, infine, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, dove, all’articolo 2 si legge

per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo.

Nella Convenzione vengono elencati una serie di principi generali, e tra questi:

(a) il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone;

(b) la non discriminazione;

(c) la piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società;

(d) il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa;

(e) la parità di opportunità;

(f) l’accessibilità;

(g) la parità tra uomini e donne;

(h) il rispetto dello sviluppo delle capacità dei minori con disabilità e il rispetto del diritto dei minori con disabilità a preservare la propria identità.

Se vogliamo ricominciare davvero lasciandoci alle spalle la pandemia e, speriamo quanto prima, anche la guerra, recuperiamo quella lanterna e illuminiamo i nostri passi che siano nella prospettiva di un vero e profondo cambiamento che sappia accogliere l’altro nel rispetto della sua dignità e della sua libertà. Il senso della vita riguarda tutti e non può mai essere misurato e calcolato.

Permettetemi un’ultima citazione, una poesia di Montale del 1967. Quattro anni prima la morte della moglie Drusilla Tanzi, e il vuoto di questa mancanza l’affida a queste poche righe:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue”.

Saluti istituzionali – Marcello Cattani Presidente Farmindustria

“Come presidente di Farmindustria è un onore per me essere qui, nel ricordo di Alessandra. Non ho avuto il piacere personale di conoscerla, ma il video mi è bastato: sorrisi, gioia di vivere e professionalità, competenze, un’età fresca e una malattia. Noi – ed io personalmente per il mio percorso professionale – siamo molto vicini al mondo dei malati rari, dove ancor di più che in tanti altri casi si celano drammi e gioie familiari al tempo stesso: gioie quando si vedono momenti positivi, piccoli miglioramenti, piccoli passi; ma c’è anche un tema sociale, un tema di stigma che riguarda spesso i familiari e i genitori; un tema che non deve essere trascurato. Prima di tutto, quindi, il mio è un messaggio di vicinanza alla famiglia, perché il ricordo è molto bello, ma credo che crei e rinnovi emozioni come dolori. Oggi lo scopo è quello di celebrare e dare un riconoscimento anche ai giovani come Alessandra che intendono impegnarsi su questo fronte del giornalismo. Un giornalismo che ha un bisogno enorme di autorevolezza nel condurre il filone della narrazione legato alle malattie rare, in un contesto che ci vede trascinati da tante contingenze, da crisi, ma che non deve dimenticarsi di questo come di altri temi che nel quotidiano rischiano di perdersi. Ora vengo più al nostro specifico impegno, più vivo che mai, come associazione d’imprese farmaceutiche. Negli ultimi 20 anni in Europa, il mondo delle malattie rare, la ricerca, il diritto e l’accesso ai farmaci sono stati una grandissima conquista. Siamo passati da pochissimi farmaci agli inizi degli anni 2000 a oltre 200 farmaci; anche il nostro Paese ha un ruolo importante nella ricerca. Ma anche da questo punto vista, non è tutto rose e fiori. L’Europa si sta attrezzando per una nuova rivisitazione della normativa sui farmaci che sono tanti: oltre 2500, di cui tanti destinati ai malati rari. Questa legislazione, purtroppo, sta avendo un iter troppo lento. L’Europa complessivamente ha perso la gara della ricerca e dell’innovazione non solo in questo settore, ma anche nella transizione ecologica, nella ricerca delle fonti alternative, nell’idrogeno. Il mondo si è polarizzato con Stati Uniti da una parte e Cina dall’altra e anche nel nostro settore stiamo vivendo questa realtà. Credo, quindi, che sia importante portare questo confronto anche all’interno dell’Università credo, poiché si uniscono i mondi della ricerca, della scienza, della comunicazione e della divulgazione, per condividere e per fare fronte comune. Riteniamo che il valore della ricerca sia oggi incontrovertibile. Vi sono studi di farmacoeconomia che dimostrano il valore della ricerca. Le aziende in Italia investono tanto: si parla di oltre 700 studi all’anno e molti di essi sono nell’ambito delle malattie rare, che sappiamo essere 8.000. Solo il 5% di queste 8.000 malattie, oggi, ha una terapia. C’è ancora molto da fare, quindi, per conoscerle, per scoprirle, per aiutare gli screening neonatali e quindi per poter dare accesso e cure migliori ai cittadini. Siamo tutti prima o poi pazienti nella vita: c’è chi ha più fortuna e chi è meno fortunato. Ma riguarda tutti direttamente. Credo, quindi, che in un Paese che ha scelto la strada democratica di un sistema sanitario universalistico, coniugare un maggiore investimento nella ricerca, quando si investe ancora troppo poco in ricerca pubblica – soltanto 1,3% del Pil rispetto ai nostri competitor europei – sia un messaggio forte da portare anche alle nuove istituzioni e al nuovo governo che verrà. E quindi vorrei ribadire il nostro impegno e la nostra vicinanza alla famiglia di Alessandra, alla Fondazione e al Premio, che ha una finalità molto alta e nobile: assegnare riconoscimenti a chi si impegna nel fronte del giornalismo a raccontare storie come l’esempio di Alessandra – che ha vissuto una vita piena, nonostante le difficoltà e nonostante le malattia – che a volte sono davvero storie di vita impensabili, di grande forza, di grande dignità e di grande inclusione sociale. È tutto questo il collante, il filo di unione tra Alessandra, il presente e il futuro di chi, come lei, si sta impegnando e si impegnerà per un’informazione autorevole, libera e aperta al mondo”.

Saluti istituzionali – Lorenza Lei Presidente Onoraria Fondazione Alessandra Bisceglia

“Per me Alessandra, come per tutti i presenti, rappresenta in quest’aula universitaria l’incontro tra l’io individuale e l’io sociale. Il video che abbiamo visto rappresenta frammenti di una vita vissuta intensamente seppur brevemente. Colgo l’occasione per ringraziare tutti i presenti, perché in sei anni abbiamo costruito realmente tanto e sto parlando del Premio giornalistico, un grande indicatore del successo di Alessandra, che sta riunendo insieme tante persone che l’hanno vissuta e che l’hanno seguita e che le hanno voluto bene. Devo alzarmi in piedi tutte le volte che parlo in quest’aula, perché altrimenti mi viene da piangere e quindi devo trattenermi, devo prendere fiato ed una piccola rincorsa per dire grazie a tutti veramente. Pensate che il sorriso di Alessandra apre le porte, come io ho aperto la mia porta in un giorno veramente incredibile. La porta era più piccola e io non sapevo che lei fosse su una sedia a rotelle. La convocai perché avevo avuto il suo curriculum, mi era arrivato. Me l’aveva mandato e l’avevo letto. Così ho detto: “Andiamo subito nella 789 perché qui non entra”. Chi è stato in Rai sa che cos’è la 789: è una piccola sala riunioni che però ha una porta regolare; mentre la mia stanza aveva una porta non angolare … questo mi dava molta agitazione, anche perché Alessandra non la vedevo sulla sedia a rotelle, così come voglio vedere tutti coloro che hanno delle abilità diverse. Mi fermo qua, perché potrei trattenervi e anche emozionarvi e invece vi auguro buon lavoro”.

Saluti istituzionali – Francesco Bonini, Rettore Università Lumsa

“L’Università è una struttura molto articolata e complessa, ma l’Università vive soprattutto delle persone concrete, degli studenti, dei docenti, di tutti coloro che compongono la comunità universitaria. La caratteristica dell’Università è proprio quella di dispiegarsi nel tempo e credo che questa occasione che segue – come diceva Donatella Pacelli diversa dalle altre precedenti – ci faccia entrare nello spirito vero dell’Università, intorno ad Alessandra Bisceglia. Tutti noi, quindi, non solo siamo convinti. Siamo contenti di questo contributo annuale, che è un momento di ricordo, di riconoscenza, di riflessione. L’Università è una struttura complessa, che vive in un sistema. Sono molto lieto, quindi, che ci siano esponenti di rilievo dell’Ordine dei giornalisti della regione Lazio e dell’Ordine nazionale, di Farmindustria, del mondo di quella che si chiama, con un’espressione ricorrente, società civile: perché l’Università, appunto, è dentro questo sistema. Fare bene l’Università significa fare memoria e avere l’eredità del passato per avere prospettive per il futuro. Grazie veramente, quindi, alla famiglia Bisceglia; grazie ad Alessandra; grazie a tutti i docenti che si sono alternati e che hanno costruito il sistema della nostra Facoltà di Scienze della Comunicazione, che è stato il primo Italia e che continua ad esserlo e non soltanto dal punto di vista cronologico. Buon lavoro a tutti e buon cammino per il nostro impegno”.

Intervista ad Elisabetta Rosso

1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?
Sicuramente. Sia per la specificità del tema sia per la delicatezza dell’argomento.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?
La storia di Mariano. Purtroppo molte volte le malattie rare vengono trattate con superficialità. A pagare l’incompetenza sono proprio le persone affette da determinate patologie, che non solo devono affrontare una situazione difficile come la malattia, ma anche scontrarsi con l’ incompetenza di alcuni medici.

3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?
Le storie, che possono diventare sia esempi positivi sia moniti per i rischi di determinate situazioni. Da rispettare invece la privacy dei pazienti.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?
Sì, non sempre, ma alcune storie riescono a raggiungere anche le testate giornalistiche. Come in ogni ambito esistono parole giuste, ancor di più quando le parole vengono usate per raccontare situazioni delicate e dolorose. Da sottolineare anche l’attenzione per il gerco tecnico e scientifico.

5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?
L’attualità della notizia è sicuramente un criterio importante, ma l’attualità non è sempre legata alla cronologia dei fatti. Se una notizia può essere rilevante anche anni dopo allora deve essere raccontata.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?
Sono entrambe le cose. Dipende dalla testata.

7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?
Riuscire a portare alla luce notizie rilevanti che creino maggior consapevolezza, farlo in modo corretto e rispettoso.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?
Attraverso alcuni colleghi che mi hanno consigliato di partecipare.

Intervista a Francesco Sinigaglia

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È un vero piacere poter partecipare alla nuova edizione un Premio così importante e prestigioso che affronta tematiche di alta caratura soprattutto in virtù dell’obiettivo di sensibilizzazione dei più giovani alla voce viva del Giornalismo, nella scrittura convergente di penne esperte con quelle in erba, provenienti dal mondo della Scuola. Una sfida ambiziosa che oggi si fa certezza: un chiaro riferimento per la Stampa nazionale.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Tra le indagini condotte, certamente, quelle a sfondo sociale e culturale sono quelle che hanno maggiormente catturato la mia attenzione: mi hanno spinto a esaminare con profondità tematiche concernenti i problemi della Salute internazionale, in un periodo come il nostro, fortemente legato alle emergenze sanitarie, nell’ottica di un focus mirato sulla questione alimentare e sul fabbisogno della popolazione, nella direzione di scandagliare e contribuire a portar luce sulle numerose difficoltà dovute ai blocchi delle importazioni e delle esportazioni, cagionate dal conflitto tra Russia e Ucraina. Nel particolare dell’indagine proposta, mi sono chiesto come nel nostro piccolo possiamo contribuire a dare una mano effettiva agli altri: la mia ricerca ha preso le mosse dall’operatività di comuni cittadini e di piccole associazioni attive sul territorio, impegnate concretamente ad aiutare, anche con ottimi risultati, chi vive in condizioni di disagio e di difficoltà.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Tutto ciò che possa stimolare la coscienza dei fruitori: oggi in molti – anche nel nostro settore – ritengono che possa bastare un titolo o una buona immagine. Tuttavia, al raggiungimento dei presupposti di una informazione efficace (accurata, sintetica ma complessiva), è opportuno far rientrare poche battute essenziali e coerenti a oggetto di interesse della comunità di riferimento. Potenzialmente, a oggi tutto può essere motivo di informazione: è importante però avere chiaro il pubblico di riferimento della notizia e la prassi comunicativa.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La comunicazione sociale allo stato dell’arte è uno degli elementi su cui un giornalista può lavorare e “fare gavetta”, iniziando cioè a trattare questi temi sin da giovane, per intraprendere la professione e la carriera giornalistica. Sovente osserviamo che le notizie relative alla comunicazione di natura “sociale” vengono collocate in secondo piano, rispetto alle informazioni legate ad argomenti quali politica locale, nazionale o internazionale, o notizie di cronaca. Il sociale, però, toccando maggiormente le sensibilità e le intelligenze, potrebbe assumere un ruolo, per così dire, pedagogico ed educativo – quindi non solo informativo -, soprattutto in riferimento ai lettori più giovani a costituire una coscienza “sostenibile”, “ecologica”, “digitale”, e, più in generale, “umana”: key words della nuova comunicazione. Attraverso di esse, a mio avviso, è possibile raggiungere quello che un tempo risultava essere l’obiettivo massimo dei maître-à-penser della filosofia occidentale per il raggiungimento della cosiddetta “pubblica felicità”.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Vediamo continuamente che le notizie riportate anche dai programmi di informazione televisiva si rincorrono, si inseguono, aggiungono dettagli “a spizzico”, in una strategia che tiene incollato lo spettatore-uditore-fruitore a “stare sempre sul pezzo”, ruotando in sostanza attorno alla medesima questione. Implementano la notizia cioè di dettagli anche di minore rilevanza, rispetto alle informazioni già diramate e diffuse. Pertanto, sarebbe opportuno cercare di informare i lettori più diffusamente affinché si possa tornare ad acquistare il giornale – che sia anche quello online – che rende specifica la notizia rispetto a un target di riferimento ben individuato. Ciò si dovrebbe adottare sia a livello locale, soprattutto per le province d’Italia, che a circoscrizioni più ampie, cercando di coprire quanto più possibile gli interessi dei fruitori e tutti i colori della notizia.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Il lavoro del giornalista rientra nell’ambito delle funzioni del Servizio Pubblico. È anche necessario focalizzare l’attenzione sulla corretta gestione che si ha rispetto a un giornale: può essere il caso delle testate (soprattutto di concerto alle difficoltà dei piccoli giornali e delle testate locali). Sia però che si tratti di testate in quanto prodotto commerciale o nella considerazione ampia e complessa di servizio pubblico, è importante che il giornalista non disorienti il lettore, inseguendo un senso piuttosto che l’altro, ma mantenga il giusto equilibrio.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere sul pezzo, non rincorrere la notizia e approfondire i propri campi di interesse rispetto al proprio percorso professionale e di vita, rimanendo libero e fornendo al lettore una notizia che sia imparziale e oggettiva, nel pieno rispetto dei canoni deontologici.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Per il terzo anno consecutivo sono a partecipare all’edizione del Premio: è come tornare a casa. È sempre bello poter candidare propri lavori che hanno impiegato passione, tempo, dedizione e spirito critico, rispetto ai problemi che sono contemplati dalla società attuale, in una prospettiva di ricerca e di indagine che combacia con gli interessi del Premio in sé, con la sua consueta ed eccellente organizzazione.