Intervista a Pietro Mecarozzi

Pietro Mecarozzi, giornalista, autore e jazzofilo. Comincia a la Repubblica Firenze, poi La Nazione, Class, Vice, The post Internazionale, Momento Italia, Gli Occhi della Guerra, The Vision, La Stampa e il Fatto Quotidiano. Ha frequentato il master in giornalismo politico-economico alla Business School de Il Sole 24 Ore. Un libro alle spalle e tanta passione per politica, economia, inchieste e data journalism. Nel tempo libero? Charles Mingus, Milan e Dosto.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?
Una sfida piacevole e stimolante.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?
Con fatica, anche se negli ultimi tempi è riuscita a ritagliarsi una sua fetta di lettori. Conquista non da poco, visto il momento storico.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?
Entrambe le cose.

Le notizie devono essere sempre nuove?
Tendenzialmente sì. L’unica eccezione è nel caso delle inchieste, dove fatti di cronaca, dati e ricerche devono fondersi in un solo prodotto completo, difficilmente inedito in tutti i suoi elementi

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?
Il giornalismo è un impegno civile, non certo mosso da fini monetari. Le testate, per sopravvivere, devo essere entrambe le cose.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?
È una persona limpida, dedita al suo lavoro e coraggiosa. Giorgio Mottola della trasmissione Rai Report.

 

Intervista a Valentina Ersilia Matrascia

Matrascia Valentina Ersilia, classe 1987, romana di nascita e napoletana d’adozione. Praticante giornalista presso la Scuola di Giornalismo di Napoli “Suor Orsola Benincasa”. Dopo gli studi classici, si laurea in Lingue e comunicazione internazionale e, presso l’università “La Sapienza” di Roma, si specializza in giornalismo laureandosi con una tesi d’inchiesta sul giornalismo in terra di camorra. Ufficio stampa e social media manager per festival, eventi ed associazioni in particolare in ambito culturale e teatrale. Collabora con diverse testate occupandosi in particolare di tematiche sociali, culturali (tematiche di genere, antimafia sociale, immigrazione, diritti civili). Vincitrice, per l’anno 2019, della borsa di studio del premio “Giancarlo Siani”.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

 Confrontarsi con una tematica importante a livello sociale e umano può rappresentare una sfida, con se stessi e con la propria capacità di raccontare la realtà. Partecipare ad un Premio Giornalistico su questi temi è quindi, oltre che una sfida, una responsabilità.

 La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

 La comunicazione sociale non trova nei media nazionali, almeno in quelli generalisti, lo spazio e l’attenzione che meriterebbe. Se non in caso di emergenze o fatti di cronaca. Fortunatamente, però, grazie all’attenzione delle testate tematiche pian piano stanno recuperando spazio nell’agenda setting del Paese e dei media. Non resta che sperare che a questo spazio conquistato corrispondano attenzione e linguaggio adeguato.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Le parole sono figlie delle storie che raccontano e vanno scelte con attenzione e sensibilità in base anche al tema di cui ci si occupa. Le parole sono importanti, “urlava” Nanni Moretti. A maggior ragione se si devono raccontare storie di vita e a maggior ragione per chi fa – o vorrebbe fare – il giornalista.

 Le notizie devono essere sempre nuove?

 Non necessariamente. Le notizie portano a conoscenza del lettore/pubblico di storie, fatti, situazioni e contesti che non conoscevano o che, pur essendo ogni giorno sotto i loro occhi, conoscevano solo parzialmente o in maniera errata o viziata da pregiudizi o preconcetti.

 Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

 Le imprese editoriali, per loro stessa definizione, sono prodotti commerciali. Questo non le esime, però, dall’essere – e dal dover essere – strumento “a servizio” del pubblico proprio in virtù della specificità della “merce informazione” che, se correttamente fornita, diventa strumento di democrazia.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

 Oggi, come ieri, un buon giornalista è una persona curiosa che non perde mai la capacità e la voglia di fare e farsi domande. Una persona capace, anche avvalendosi delle competenze e degli strumenti tecnologici, di entrare dentro le storie e, con rispetto e empatia, raccontarle e renderle fruibili ad altri. Un buon giornalista è un professionista capace di rispetto, di guardare al mondo senza farsi influenzare dal pregiudizio e consapevole della responsabilità etica e sociale che il suo lavoro gli conferisce.

Intervista ad Alvise Losi

Alvise Losi, giornalista, viaggiatore, milanese. In ordine sparso. Mi sono formato alla scuola di giornalismo “Walter Tobagi” dell’Università degli Studi di Milano e dal 2012 sono professionista. Ho accumulato esperienza in diversi settori durante i miei primi anni da freelance, grazie a collaborazioni con varie testate, principalmente carta e web, e a esperienze interne ad alcune redazioni. Musica, cultura, enogastronomia, ma anche politica, ambiente e sociale. Nel 2015 ho partecipato al concorso pubblico indetto dalla Rai e nel gennaio 2018 sono stato chiamato a lavorare nella Testata giornalistica regionale siciliana. Mi sono riscoperto giornalista televisivo e ho passato quasi due anni in Sicilia, a Catania. Un’esperienza meravigliosa dal punto di vista umano e professionale, che mi ha consentito di occuparmi di notizie di grande impatto nazionale (come il “caso Diciotti” nell’agosto 2018 o l’alluvione del novembre 2018) ma anche, e soprattutto, delle tante piccole storie di singoli cittadini che possono arrivare ad assumere significati universali. Da febbraio 2020 sono tornato a Milano, come redattore della sede distaccata del Tg3.”

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Più che una sfida la considero una opportunità per dare voce a chi di solito ha meno spazio sui media di far conoscere la condizione propria o dei propri familiari. E, nello specifico, rappresenta anche la possibilità di far conoscere i meriti del nostro servizio sanitario nazionale quando funziona.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

La mia percezione è che fino a pochi anni fa la comunicazione sociale avesse uno spazio ridotto all’interno delle testate, ma che il problema maggiore fosse il suo “isolamento”, quasi dovesse essere trattata a parte rispetto ad altri temi. Invece negli ultimi anni mi pare si stia cercando di trovare il modo di includere elementi sociali all’interno di articoli che, almeno teoricamente, sarebbero incentrati su altri temi. Quindi anche se lo spazio forse non è aumentato, si è fatto però più trasversale, il che è senza dubbio importante.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Io credo che un giornalista, a prescindere dal tema, non dovrebbe mai avere delle parole “già scelte”. E persino le domande non dovrebbero essere “già scelte”. Le parole si scelgono sulla base di ciò che uno vede e scopre, e dovrebbero essere parole il più possibile trasparenti, nel senso che il sentito del giornalista, per quanto importante, non deve indirizzare ciò che viene raccontato ma, al più, filtrarlo senza però modificarlo. Questo dovrebbe valere per ogni notizia. Ed è ancora più importante sui temi sociali: mai partire da una tesi, al massimo da un’ipotesi.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Naturalmente è auspicabile che le notizie varino, anche solo per dare la possibilità al lettore o all’ascoltatore di conoscere più realtà. Ma anche una stessa notizia può diventare nuova. Per esempio se viene raccontata in modi diversi da giornalisti diversi o persino dallo stesso giornalista. Soprattutto una stessa notizia può avere diverse sfaccettature che meritano ognuna il suo spazio.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Lavorando per il servizio pubblico radio-televisivo, è sin troppo facile intuire la mia risposta. Ma pensavo lo stesso quando negli anni passati lavoravo per testate private. A dire il vero, credo che sia il giornalismo stesso a dover essere concepito come servizio pubblico. Certo non si può negare che il mondo oggi imponga serie riflessioni sull’economia dei media, mentre fino a un paio di decenni fa era più semplice far funzionare un’impresa editoriale. Il rischio però è proprio pensarli come prodotti commerciali invece che come progetti imprenditoriali, con un fine culturale che debba mantenere anche un (importante) risvolto commerciale.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Qualcuno che abbia la passione per raccontare ciò che vede senza influenzarlo con i naturali pre-giudizi che porta con sé. Pre-giudizi nel senso di valutazioni che ognuno ha prima ancora di conoscere una storia: possono quindi essere anche pregiudizi positivi che però non fanno bene alla professione se quella predisposizione positiva a trattare la notizia impedisce di trattarla con oggettività. Perché è vero che l’oggettività stessa è un miraggio, ma proprio come giornalisti dovremmo essere particolarmente consapevoli del nostro ruolo di filtri della realtà e cercare in questo senso di renderci trasparenti senza scomparire. Questo non significa eliminare del tutto l’elemento soggettivo, perché il rischio diventerebbe poi perdere quella componente di passione che aiuta una storia a essere raccontata e, in fondo, a entrare nel cuore e nella mente di chi legge o ascolta. Un buon giornalista è anche qualcuno che sappia stare un passo avanti nel valutare quello che potrebbe succedere, così da provare a spiegarlo, ma mantenga sempre un passo indietro nel non entrare in modo ingombrante nelle notizie che tratta. Ogni tanto è difficile, soprattutto su temi sociali che trascinano chi li vive dentro la storia, ma è necessario provarci.

Intervista a Elisa Toma

Elisa Toma, nata il 13/08/90, è originaria del Salento. Ha conseguito la laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l’Universita “La Sapienza” di Roma. Oggi frequenta il Master in Giornalismo dell’Universita di Bologna ed è iscritta all’albo dei praticanti. È autrice e responsabile Ufficio Stampa della rivista letteraria Passaporto Nansen ed ha collaborato con i magazine on Line: InsideArt, SnapItaly, Fourzine. Ha lavorato in agenzie di comunicazione, presso la redazione Rai “Mi manda Rai 3”, l’Uff icio Stampa del CNR e la Divisione Studi CONSOB.

 

 Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

 La sfida è poter affrontare temi così specifici con la stessa naturalezza degli altri.  Rispettando i protagonisti, le loro vite e i loro sforzi e sacrifici. La sfida è far emergere storie che spesso non vengono raccontate.

 La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

La Comunicazione Sociale non trova il giusto spazio nelle testate italiane. Spesso il pietismo prevale rispetto alla concretezza ed essenzialità del racconto. Il buon giornalismo può fare molto di più ma sono tanti i bravi giornalisti che lavorano con sensibilità e professionalità al fine di raccontare il sociale nei suoi aspetti più duri ma anche in quelli positivi.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

 Nel video-reportage realizzato con Valerio Lo Muzio, le parole sono state affidate alla protagonista della storia. Le parole e il loro suono hanno un valore importante perché potevano non esserci, potevano non formarsi nella mente della piccola Giulia nata sorda al 100%, potevano non essere mai scelte, o essere collegate ad un concetto o ad un oggetto. La scienza e il coraggio di Giulia e della sua famiglia hanno permesso che le parole trovassero forma, consistenza, così come tutti gli altri suoni che permettono il nostro equilibrio nel mondo.

 Le notizie devono essere sempre nuove?

 La notizia è nuova quando nessuno l’ha già racconta. Ma è nuova anche per chi la legge per la prima volta. È nuova quando si rinfresca di nuovi particolari, quando merita di una seconda rilettura. Quando riesce a scuotere gli animi.

 Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

 La qualità del giornalismo dovrebbe prevalere sul prodotto commerciale. Il giornalismo è vocazione, è passione. Sì, è in primis servizio pubblico. Il lavoro giornalistico, però, merita di essere rispettato e tutelato affinché nessun giornalista possa sentirsi solo e vulnerabile nell’affrontare le sue battaglie, nell’inseguire le notizie. Il giornalismo in Italia ha bisogno di rinnovarsi in ottiche che permettano la sopravvivenza del mestiere, l’aumento dei lettori e la qualità di prodotti informativi.

 Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

 Il buon giornalista è chi è riverente solo ai fatti. Chi non scende a compromessi. Chi non si accontenta della superficie e scava alla ricerca della verità. Chi lotta e crede in questa professione, nonostante le difficoltà di ogni giorno, perché dietro al buon giornalismo c’è la tenuta stessa della democrazia e il senso critico dei suoi cittadini.

Intervista a Valerio Lo Muzio

Valerio Lo Muzio, nato a Foggia il 15/09/1990, è un giornalista professionista e videomaker. È corrispondente dall’Emilia Romagna per l’edizione nazionale di Repubblica.it. Collabora con il programma Tagada, talkshow pomeridiano di La 7. Ha collaborato per I l Fatto Quotidiano, il Corriere della Sera (Youreporter e Reportime), Daily Mirror, Ticino online, il Resto del Carlino e Ruptly.tv.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

No, credo sia importante da giornalista trattare temi specifici e cercare di far emergere le storie di chi non ha voce.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

La comunicazione sociale in genere non trova tanto spazio sulle testate, se non per creare sensazionalismo, tuttavia ritengo che grazie alla sensibilità di molti colleghi e di alcune testate, queste tematiche oggi rispetto a prima stanno trovando sempre maggior spazio

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Nel lavoro presentato con la mia collega Elisa Toma, abbiamo scelto di lasciare le parole a chi vive sulla propria pelle ogni giorno una malattia come la sordità.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Le notizie devono interessare chi le legge, non importa che siano fresche di giornata.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Non esistono editori puri, ma credo che i giornali siano dei loro lettori e dei giornalisti che ci lavorano. Queste due componenti, con la passione, la professionalità e le competenze fanno l’anima di un giornale. Quando facciamo il nostro lavoro dobbiamo sempre tenere a mente che non lo facciamo per noi, ma per i nostri lettori e che stiamo facendo un servizio pubblico, oltre che costituzionalmente garantito. Quando poi i giornali riusciranno a smarcarsi completamente da certe dinamiche legate agli introiti pubblicitari,  puntando maggiormente sulle inchieste riusciremo finalmente a rispondere alla sempre crescente richiesta di un giornalismo di qualità.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Non riesco a indicare un singolo giornalista, stimo e apprezzo più delle “grandi firme” ogni collega freelance, che ogni giorno come me, lotta contro la precarietà, facendo i salti mortali e spesso incastrando vari lavori, ma cercando ogni volta con professionalità e serietà di raccontare i fatti.

Intervista a Valentina Leone

Valentina Leone, classe 1989, nata a Maglie, in provincia di Lecce, da sei anni vive e lavora a Trento. Laureata in Scienze Politiche a Roma Tre, ha poi collaborato con diverse testate con sede nella Capitale, tra cui Libera Informazione e l’agenzia Adnkronos. Nel 2016, dopo un periodo di collaborazione, è stata assunta come praticante al Corriere dell’Alto Adige, dorso bolzanino del Corriere della Sera, dove si è occupata principalmente di cronaca nera e giudiziaria. Nel 2019 dopo l’iscrizione all’Ordine dei Giornalisti della Puglia nell’albo professionisti dal gennaio del 2019 – ha iniziato a collaborare da free-lance con alcune testate locali, tra le quali L’Adige e il Trentino, occupandosi di cronaca nera e cronaca politica. Parallelamente ha avviato collaborazioni con testate che si occupano di terzo settore, solidarietà e immigrazione, due temi che da sempre la appassionano. Dal 2019 collabora con Redattore Sociale e Open Migration. Attualmente è collaboratrice fissa per la sede Ansa di Trento, per la quale segue principalmente la cronaca giudiziaria.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Sottoporre un proprio lavoro ad una commissione di professionisti, specializzata, su un tema così specifico e anche relativo a una sfera molto delicata della società rappresenta sicuramente una sfida.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?
Purtroppo viene dedicato ancora troppo poco spazio, anche se le testate locali o di settore sono spesso virtuose da questo punto di vista.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?
Si scelgono, ed è forse la sfida più difficile quando si deve raccontare una storia.

Le notizie devono essere sempre nuove?
La “novità”, almeno per la comunicazione sociale, non è sempre essenziale. L’importante, secondo me, è portare a conoscenza dei lettori qualcosa che ci può essere già da tempo ma che magari non è ancora nota al grande pubblico.
Raccontare, ad esempio, realtà di nicchia già esistenti e consolidate o storie conosciute solo dagli addetti ai lavori.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?
L’informazione, in una fase come questa, deve necessariamente misurarsi con il tema del “saper stare sul mercato”. Ciò non toglie che la stampa è un presidio di fondamentale importanza e rende ancora un importante servizio alla società.
Non tutte le testate inseguono i click o antepongono il sensazionalismo ai fatti e alle notizie ed esistono ancora tanti esempi positivi.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Una persona umile, semplice, capace di scrivere ma soprattutto di ascoltare, una persona che continua a consumare le suole delle scarpe nonostante spesso i ritmi di questo mestiere suggeriscano il contrario.

Intervista a Jeniffer Guerra

Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia. Attualmente vive a Milano, dove ha conseguito la laurea triennale in Lettere e la magistrale in Editoria, Comunicazione e Moda. I suoi scritti sono apparsi su Soft Revolution Zine, Forbes e The Vision, dove dal 2018 lavora come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi, in uscita ogni mercoledì su Spotify, Google Podcasts e Apple Podcasts. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+.  Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico (in uscita ad aprile). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.

 

 Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Partecipare a un Premio Giornalistico è sempre una sfida perché implica mettersi in gioco e provare a testare la propria sensibilità con altre persone. Soprattutto quando si affronta questo tema è fondamentale creare un rapporto di equilibrio tra il giornalista, il lettore e il soggetto che è raccontato. Se all’equazione si aggiunge anche la giuria di un Premio, che deve valutare anche aspetti più tecnici, allora la sfida è ancora più interessante.

 La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Ho l’impressione che la comunicazione sociale abbia sì spazio nelle testate, ma spesso in modi inopportuni e, a volte, persino discriminatori. Nonostante l’attivismo delle persone con disabilità o con malattie rare, molto spesso il punto di vista è abilista: a parlare e a portare avanti la narrazione sono sempre persone sane e abili, senza lasciare spazio a chi è interessato a tali questioni in prima persona. L’altro problema, molto evidente, è che la comunicazione sociale va in due direzioni contrapposte: o se ne parla in molto pietista e drammatico, oppure per esaltare solo buone azioni e buoni sentimenti. Peccato che spesso il modo in cui vengono veicolate queste notizie vuole compiacere i sentimenti dei lettori e non fare vera informazione.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Le parole si scelgono perché ogni scelta di linguaggio ha un preciso significato politico e sociale. Esistono termini corretti e accettati dalla comunità disabile e delle malattie rare per parlare di questi temi in modo inclusivo e non discriminante, anche se spesso vengono ignorati o scartati perché si crede che il pubblico dei lettori non le possa capire. Ma finché non verranno usate dai media non entreranno mai nel vocabolario delle persone.

 Le notizie devono essere sempre nuove?

L’attualità della notizia è un principio cardine del giornalismo, anche se spesso degli avvenimenti del passato possono aiutarci a comprendere il presente, se opportunamente contestualizzati. Certo, non si devono far riemergere notizie vecchie solo per il gusto di fare lo “scoop”, ma spesso si devono prendere in considerazione anche fatti avvenuti in un altro tempo. Poi, se ben raccontata, ogni cosa diventa “notizia”, anche un libro o un film o un’opera di cinquant’anni fa.

 Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Le testate sono servizi pubblici, anche se non si può nascondere che devono basarsi sulla solidità commerciale per garantire dignità ai giornalisti e, di conseguenza, informazione di qualità ai lettori. Molto spesso si rimpiange un’idea “romantica” di giornalismo, ma anche in passato, quando la situazione dei lettori era molto diversa, gli editori dovevano stare attenti alla dimensione economica. Bisogna essere realisti.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Un buon giornalista è un professionista della comunicazione e della scrittura che ha come primo obiettivo il perseguimento della verità e della chiarezza. Da questo primo principio ne nascono necessariamente altri: la verifica delle fonti, la costruzione di un rapporto di fiducia e paritario nel lettore, l’obiettività, il servizio e – ne sono convinta – anche il saper scrivere bene. Come diceva Nanni Moretti nella Palombella Rossa, “Chi parla male pensa male e vive male”.

Intervista a Elvira Iadanza

Elvira Iadanza, nata a Benevento, ha vissuto fino ai 18 anni a Reino, nella provincia sannita. Laureata in lettere all’Università Sapienza di Roma, ha sempre sognato di diventare giornalista e per questo si iscrive alla Scuola di giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Proprio nella città di Partenope inizia a collaborare con testate locali, dal Corriere del Mezzogiorno, fino al Mattino, con cui collabora tutt’ora.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

È stata una sfida perché non è facile affrontare tematiche così delicate e soprattutto trovare il giusto linguaggio per parlarne. È stata una sfida anche emotiva: la storia che abbiamo raccontato parla di persone sole, che hanno trovato un equilibrio attraverso la vita insieme. Inoltre è stato difficile anche trovare un riscontro nelle istituzioni, che spesso non danno la dovuta rilevanza al problema.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Non quanto dovrebbe. Spesso si raccontano i casi eclatanti, ma la vita “normale” delle persone con disabilità solitamente non rientra fra le prime pagine dei giornali. Sull’inclusione sociale bisognerebbe lavorare di più. Ma non mancano iniziative come questa che mettono al centro del loro progetto le problematiche della disabilità e dell’inclusione sociale.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Le parole vanno sempre scelte da chi scrive, sia in un articolo cartaceo che in una registrazione sonora. Bisogna trovare un equilibrio: non compatire, ma raccontare. È questo che rende più giusta la narrazione e soprattutto che racconta la verità della vita di chi con molte difficoltà cerca di portare avanti una battaglia.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Non per forza. Si può raccontare l’inizio di un’esperienza, ma anche aggiornare su ciò che è iniziato un po’ di tempo fa. Lo scopo, ad esempio, può anche essere quello di sensibilizzare o di sposare una causa.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Non mi sento di abbracciare nessuna delle due definizioni. Si cerca di mediare fra l’attualità, l’informazione e anche le entrate. In un settore sempre più in crisi come quello editoriale, però, forse si dovrebbe ritornare alla qualità delle notizie. E qualità significa parlare a tutti e delle problematiche di tutti. Nessuno deve sentirsi escluso.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Il buon giornalista è chi cerca di raccontare la realtà da un punto di vista inedito. In un mondo in cui l’informazione viaggia velocemente, c’è bisogno di un passo in più. Deve entrare nei fatti, non limitarsi a guardarli a distanza. È un buon giornalista chi fa il suo lavoro senza offendere, chi controlla le fonti e ne trova delle sue. È un buon giornalista chi rispetta le regole deontologiche. Chi si batte per un’ideale di verità. Chi non fa sconti a nessuno. Chi non ha paura. Chi è sensibile a ciò che lo circonda. Un buon giornalista nota i particolari, ma non se ne lascia ammaliare. È un buon giornalista chi scrive ciò che è importante far sapere.

 

Intervista a Francesco Gucci

Francesco Gucci nato a Gioia del Colle vive a Matera da tutta la vita. Laureato a Bari in Lettere e poi in  Scienze dell’Informazione Editoriale. Da sempre sogna di diventare giornalista e si avvicina al settore tramite diversi giornali online. Grande appassionato di sport, videogames, fumetti e informatica, decide dopo qualche anno di frequentare una scuola di giornalismo, quella dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, per poter finalmente accedere all’esame per diventare professionista. Collabora intanto con diverse testate online e cartacee.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Indubbiamente sì, c’è, purtroppo, poca attenzione mediatica verso le esperienze come quella della quale ci siamo occupati per il premio e non è stato così facile trovare informazioni e contatti. Poi, essendo sommersi di lavoro con la Scuola, non è stato semplice nemmeno ritagliarsi tutto il tempo necessario che un lavoro come questo necessitava.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Non quanto dovrebbe. Nel nostro piccolo proviamo a ritagliare il più possibile dello spazio per il tema dell’inclusione sociale e del riscatto delle persone affette da disabilità, molti di noi sono vicini alla tematica per motivi personali, di conseguenza, probabilmente, siamo più sensibili di altri alla questione.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Come diceva Nanni Moretti, le parole sono importanti. La differenza semantica tra parole può essere sottile ma il loro risultato può essere diametralmente opposto. Trovare il giusto mezzo è una sfida complicata, bisogna stare attenti a non usare parole che possano sembrare discriminatorie ma sarebbe quasi peggio scadere nel pietismo. Inoltre, ogni situazione ha delle contingenze specifiche per le quali è meglio scegliere una parola piuttosto che un’altra, non esistono parole già scelte, sta a noi scegliere ogni volta quelle giuste. In ogni caso, un giornalista che si possa considerare tale dovrebbe seguire sempre il faro dei “fatti”. Attenendosi strettamente alla descrizione di questi ultimi è più facile non perdere la bussola.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Non necessariamente. Portare una notizia in senso stretto è utile e necessario per svolgere al meglio il mestiere, ma per temi come questo non è tutto. Lo scopo, in certi casi, deve essere sensibilizzare verso un tema poco conosciuto o verso il quale molti preferiscono girarsi dall’altro lato. Uno di questi è quello centrale del nostro video, la malattia mentale. Le patologie psichiatriche sono proprio il simbolo di ciò che si preferisce nascondere sotto il tappeto. Il nostro compito è sdoganare ‘la vergogna’ e dare alla gente la giusta prospettiva da cui guardare alle disabilità.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Anche qui non esiste bianco o nero, tutte le tastate nascono idealmente come servizio pubblico. Purtroppo, tutti devono fare i conti con le entrate. Io credo ancora fermamente nel giornalismo come informazione pura, anche se è inevitabile, in un momento storico come il nostro, il proliferare di non notizie commerciali, o peggio, di notizie false.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Il buon giornalista oggi è colui che rispetta le più basilari regole del mestiere, in primis la verifica delle fonti. Come detto, è facile farsi prendere dalla foga di essere tempestivi e rilanciare contenuti non verificati. La tempestività, però, è spesso sorella dell’approssimazione. Verificare le fonti è la base da cui partire, il resto lo fa la conoscenza. Il giornalista, per antonomasia, è un tuttologo, qualcuno che deve dimenarsi in ogni argomento senza scrivere o dire castronerie. Di conseguenza fare il giornalista significa studiare in maniera perpetua, il buon giornalista è quello che sa un po’ di tutto, ma è anche quello che quando non sa si ferma, si informa e poi informa.

Intervista a Gloria Giavaldi

Gloria Giavaldi, classe 1993. Dopo il diploma al liceo classico, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza. Prosegue gli studi, ma inciampa nella passione per la scrittura. Da sempre interessata al sociale, crede nel giornalismo capace di produrre risultati concreti. Racconta storie e raccoglie pezzi di vite coraggiose. Pubblicista appassionata, attualmente collabora con la testata online “Crem@online” e svolge attività di comunicazione e ufficio stampa per alcune associazioni operanti nel settore della disabilità. Ama raccontare buone notizie e descrivere la diversità con spirito di verità, convinta che il cambiamento culturale tanto richiesto passi necessariamente dalle parole. Quelle grazie alle quali rinasce ogni giorno, cucendosi addosso il coraggio e la speranza degli eroi del quotidiano.

 

 Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

 Raccontare storie di vite coraggiose per me è una sfida quotidiana. Il Premio Giornalistico “Alessandra Bisceglia” è una grande opportunità per aiutare il mondo a cambiare prospettiva in tema di diversità e a valorizzare le persone.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Sì, ma non abbastanza e con poca consapevolezza. Personalmente mi dedico solo a questo prezioso settore, e, nonostante questo, non mi stanco mai. Perché ogni storia è a sé ed ogni vita ha qualcosa da insegnare.  Mi auguro che questa attenzione nei riguardi della tematica possa contagiare sempre più colleghi, convinta che il cambiamento culturale tanto richiesto in tema di diversità passi necessariamente dalle parole.

 Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

 Le parole hanno un peso. Per fare comunicazione sociale non basta saper “fare notizia”, bisogna usare empatia e aver cura dei termini impiegati. Cerco sempre di raccontare la diversità con spirito di verità, evitando, tanto il pietismo, quanto “l’abilismo”. Lo faccio profondamente convinta come sono che si potrà avere una piena integrazione sociale solo quando ciascuno di noi smetterà di avere paura delle parole. Perché risiede molta più ignoranza in un atteggiamento pietistico o negazionista, che nella volontà di descrivere la realtà per ciò che è. La diversità va difesa strenuamente e spiegata, chiamandola con il suo nome, per generare ed alimentare cultura, per raccontare e celebrare talenti diversi da quelli che le convenzioni ci suggeriscono.

 Le notizie devono essere sempre nuove?

 Non necessariamente. Anche una notizia “vecchia” può fornire nuovi spunti. Le storie di vita dense di coraggio e di forza non passano mai di moda.

 Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Le testate offrono un servizio pubblico fondamentale, contribuiscono alla diffusione della cultura e sono protagoniste della costruzione di una consapevolezza che, soprattutto nel settore della comunicazione sociale, ancora manca.

 Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Un buon giornalista è colui che non si stanca mai di imparare e concepisce qualsiasi intervista come possibilità di arricchimento professionale ed umano. Non può bastare un eccellente stile di scrittura a rendere giustizia a storie di vita così ricche. Penso sia necessario anche calarsi nel dialogo, senza perdere l’obiettività, ed evitare il sensazionalismo. Lo stabiliscono le carte deontologiche in materia, ma, prima ancora, lo impone la coscienza.