Saluti iniziali – Carlo Verna

CARLO VERNA – Presidente Ordine Nazionale dei Giornalisti

Io non ho avuto, come diceva la professoressa Pacelli, il dono e l’onore di conoscere Alessandra; l’ho conosciuta attraverso un libretto che mi è stato dato dalla madre, alla quale avevo fatto la promessa di partecipare alle manifestazioni del Premio Alessandra Bisceglia.

Come Ordine dei Giornalisti vogliamo rendere omaggio a figure che hanno lasciato un seme importante nella storia del giornalismo, ragion per cui era assolutamente indispensabile esserci.

Proprio oggi, nel giorno di questa premiazione, è venuto a mancare un grande giornalista Rai, Pino Scaccia, di cui voglio ricordare la professionalità e la qualità del suo lavoro.

Recentemente un padre, Fortunato Nicoletti, mi ha chiesto di scrivere la prefazione a un libro che si intitola “Nessuno è escluso” dedicato alla figlia, anche lei nata con una rara malformazione. Ho scritto in questa prefazione che noi giornalisti lavoriamo maneggiando parole, talvolta maldestramente le usiamo come pietre, tal altra ricorriamo a eufemismi. Credo che però in questo caso definire il disabile “diversamente abile” sia utile per collegare la vicenda narrata al titolo “Nessuno escluso”: c’è una vita, come ci ha insegnato Alessandra, che promette per tutti, anche per chi deve rimontare svantaggi, le cui ragioni capiremo forse solo quando l’esperienza terrena sarà terminata.

Perché qualcuno nasce diversamente abile e non abile tout court, perché è permessa una diseguaglianza fin dalla nascita?

Domande dello stesso tipo ce le poniamo di fronte a catastrofi, o scomparse premature di persone buone e giuste, la nostra mente non arriva alla risposta appropriata, ma ne può concepire altre, potremmo dire, diversamente utili.

Fatemi dire anche una cosa sul tema principale di questo convegno, che vale anche come formazione.

Sono orgoglioso di averla potuta autorizzare come Consiglio Nazionale anche in streaming. Il tema delle fake: io spesso dico “noi siamo i medici delle fake news”, cioè con la nostra capacità professionale, con il nostro riconoscerci all’interno di un quadro di regole, validiamo o non validiamo delle situazioni, ed è una funzione cruciale per la società. Si deve intervenire, noi stiamo cominciando ad elaborare una proposta per punire la diffusione delle fake: esistono ipotesi di reato, penso per esempio all’aggiotaggio.

Credo che sia venuto il momento di un’attenzione da parte del legislatore anche a nuove formule di sanzione rispetto a certi comportamenti che non vengono dal giornalismo professionale, ma che impattano fortemente in quest’era di tumultuoso cambiamento.

Per noi è cambiata una cosa fondamentale: prima i giornalisti professionisti avevano l’esclusiva, la prerogativa di poter parlare da uno a tanti. Adesso questa esclusiva non ce l’abbiamo più, ma essendo possibile per tutti comunicare, da un lato c’è più democrazia, dall’altro c’è un rischio, quindi occorrono delle risposte.

Noi giornalisti, e io ritengo che l’Ordine dei Giornalisti sia un’agenzia culturale, daremo il nostro contributo per poter far sì che si elabori una risposta concreta affinché l’opportunità della rete sia un’opportunità di crescita e non sia un rischio.

Saluti iniziali – Francesco Bonini

FRANCESCO BONINI – Rettore LUMSA

Ringrazio la professoressa Donatella Pacelli, la famiglia e tutti coloro che sono presenti. Anch’io avrei voluto essere all’Istituto Sturzo, che è veramente una sede giusta per questo dibattito e per questo premio: un saluto molto cordiale anche all’Istituto Sturzo e al professor Battaglia. Credo che il sorriso di Alessandra Bisceglia sia un po’ anche la cifra del messaggio di questa giornata e di questo impegno che la professoressa Pacelli ha illustrato con parole che sottoscrivo pienamente. È un momento di ricordo, è un momento di testimonianza, è un momento di impegno. Questo è, credo, lo spirito del premio giornalistico ed è anche, direi, lo spirito della comunicazione sociale: un aggettivo qualificativo e qualificante perché dice anche di una storia di impegno nella comunicazione, che è quello della nostra università, ed è quello di tanti nostri laureati, tra i quali Alessandra Bisceglia ha veramente un posto d’onore, per la sua capacità professionale e per tutte le energie che ha saputo suscitare dopo che, detto con un’espressione felice, ha messo le ali, ormai 12 anni fa. Questa è un’iniziativa che la nostra università condivide con particolare emozione e si impegna a portare avanti con tutte le qualificate collaborazioni che la famiglia, la Fondazione e in particolare la professoressa Pacelli, hanno saputo radunare, a partire dall’Ordine dei Giornalisti con il quale lavoriamo nel Master in Giornalismo. Grazie quindi di cuore e Viva Ale.

Saluti iniziali – Sergio Maria Battaglia

SERGIO MARIA BATTAGLIA  – Segretario Generale Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo

Sono commosso perché è un evento che abbiamo l’onore di avere organizzato insieme con molta fatica. Noi siamo onorati, come Istituto Luigi Sturzo, di continuare a collaborare con la LUMSA, con il magnifico rettore, il prof Francesco Bonini, con la professoressa Pacelli e con tutti gli altri esimi relatori. È sicuramente molto importante ricordare dei giovani che con la passione, con il loro sacrificio, anche fisico, hanno contribuito, o almeno ci hanno provato, a rendere migliore questo mondo, sempre più avvelenato da cinismo, cattiveria, che a volte è un regno dei soldi e dove impera la malavita. In una situazione sanitaria così grave, uno dei pericoli è proprio quello della criminalità organizzata che cerca di approfittare, pericolo non soltanto italiano, ma internazionale.

“Fake news” è un termine inglese, ormai se non si usano termini inglesi anche nella lingua italiana probabilmente non sì è “alla moda” o comunque non si fa scena. Noi intendiamo la disinformazione, quella informazione ingannevole conseguenza di un comportamento truffaldino; contraffazione di notizie che ignorano le regole editoriali, le regole sane di informazione, i codici deontologici che esistono anche nella professione del giornalismo, ma che spesso vengono ignorati dove non c’è un ”peace-enforcement” che le faccia rispettare. Questa disinformazione è molto diffusa, soprattutto su internet e sui social media. Spesso quando faccio lezione io dico: ragazzi, voi avete il vantaggio rispetto a me che quando mi sono laureato non esisteva internet. Io passavo ore e ore, giornate intere, alla biblioteca centrale giuridica, mi ero fatto amico i due impiegati che mi davano tutte le pubblicazioni su cui io scrivevo articoli e facevo ricerche giuridiche. Dico: voi con internet potete effettivamente controllare se una norma che io sto citando è esatta o no, fare dei collegamenti tra le leggi. Su internet si trova tutto o quasi, ma spesso internet viene utilizzato per altre funzioni. Le bufale sulla pandemia sono state lette 3,8 milioni di volte, i 10 siti che hanno promosso più bufale attraverso Facebook negli ultimi mesi hanno avuto 4 volte più visualizzazioni dei 10 migliori siti ufficiali. I social network diffondono più fake news rispetto ai canali di informazione tradizionali. Chi si informa solamente sui social network è più incline a non rispettare le misure restrittive anti-Covid rispetto a chi fa riferimento a determinati canali di informazione. Ma ci sono anche dei giovani che hanno realizzato una piattaforma che, usando l’intelligenza artificiale e selezionando milioni di informazioni sul web, discernono le notizie veritiere e quelle che non lo sono. Sono giovani romani che hanno cominciato a lavorare a Londra e hanno avuto questa idea.

L’uso corretto delle parole è importante.

In alcuni provvedimenti sugli spostamenti presi durante la pandemia è scritto che un tal comportamento “è fortemente raccomandato. Cosa vuol dire? Avendo io, professionalmente, una deformazione giuridica ho pensato che se “è fortemente raccomandato” vuol dire “non c’è sanzione”. E siccome, probabilmente, c’erano dei dubbi, si sono anche aggiunte specificazioni. Ma che vuol dire “è fortemente raccomandato spostarsi a meno che non hai motivi di studio, di lavoro o necessità ecc.”?

È stata necessaria una circolare del capo di gabinetto della Ministra dell’Interno per specificare, tra le altre cose, che nel caso di spostamento, c’è la forte raccomandazione, non c’è bisogno dell’autocertificazione. Ma scrivere “è fortemente raccomandato” in un provvedimento preso durante uno stato di emergenza è dimostrazione concreta che è un compromesso, si dice e non si dice. O c’è o non c’è il divieto.

Speriamo di continuare in questo percorso insieme alla Lumsa, alla Fondazione Alessandra Bisceglia, che veramente merita tutta la nostra attenzione. E consentitemi, anche di ringraziare ancora Donatella Pacelli.

 

Presentazione V edizione

DONATELLA PACELLI  – Docente LUMSA- Vice Presidente della Fondazione Alessandra Bisceglia

Siamo qui per testimoniare la convinzione che non bisogna mai allentare l’attenzione nei confronti di temi sensibili, nei confronti di problemi sociali, nei confronti di una comunicazione non rispettosa di questi problemi.

Un ringraziamento a tutti coloro che hanno creduto in questo importante progetto: l’Università Lumsa, che è stata l’Università di Alessandra Bisceglia e che ringrazio per la vicinanza costante al progetto della Fondazione di valorizzazione e di formazione, due binari che la Fondazione porta avanti contestualmente.

Ringraziamo Lumsa nel nome e nella persona del professor Francesco Bonini, Magnifico Rettore sempre molto vicino alla Fondazione e convinto assertore dell’importanza di un progetto che riesce a essere anche un momento di formazione grazie all’Ordine dei Giornalisti, che lo riconosce utile per l’acquisizione dei crediti formativi.

Un grazie speciale in questa particolarissima edizione, inoltre, all’Istituto Luigi Sturzo, che ospita questo evento durante il quale conferiamo il Premio Giornalistico per la comunicazione sociale che porta il nome di Alessandra Bisceglia; ringraziamo tutta la struttura e in particolare Sergio Maria Battaglia, Segretario Generale del Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo.

Il Premio ha il nome di Alessandra Bisceglia perché rispetta e testimonia il suo approccio alla professione, il suo modo di entrare con competenza e sensibilità nei temi, nonostante la sua giovane età.

Questo premio è un tassello delle tante cose che fa la Fondazione: da più di 10 anni, nel nome di Alessandra, insiste sulla ricerca per le malattie rare, per le patologie vascolari in modo particolare, cerca di portare avanti l’attività di sostegno e di attenzione alle famiglie che vivono questi problemi, cerca di aiutare nella formazione per valorizzare l’autonomia possibile, per garantire un’armonia tra la situazione creata dalla malattia e la qualità della vita.

Percorsi importanti che trovano coerenza nell’ attività del Premio, rivolta alla valorizzazione dei giovani giornalisti che si impegnano nei temi che fanno comunicazione sociale, perché l’ambito della comunicazione sociale ha confini molto labili: facciamo fatica a dare delle definizioni univoche e precise, sappiamo che è la comunicazione che si mette al servizio del sociale, attenta al sociale, alla società civile che fa democrazia, che guarda all’equità e cerca di contrastare il disagio.

Una comunicazione sociale che rema contro il virus dell’indifferenza che pervade la società, pervade la cultura e a volte si riflette anche nell’informazione, che combatte quella cultura dello scarto come, con grande efficacia, dice Papa Francesco.

Sono due espressioni del nostro Pontefice, che con sapienza e sensibilità ci ha riportato davanti ai problemi della ineguaglianza e della nostra miopia rispetto ai problemi che attraversano molte persone.

Quindi la comunicazione sociale sfida il giornalismo: il giornalismo è un buon giornalismo se sa fare anche comunicazione sociale, se sa entrare in quelle che un autore a me caro, Theodor Adorno, chiama le “crepe del sociale” e se sa intercettare questioni che fanno narrazione del disagio ma anche contro-narrazione, dando luce ai traguardi che pure chi vive in situazioni difficili può porsi e magari riesce a superare con la tenacia che, come ci ha insegnato Alessandra Bisceglia, appartiene a chi conosce le situazioni più difficili.

Allora, quando in un’epoca pre-Covid abbiamo cominciato a lavorare su questa edizione del premio e immaginato che il momento della premiazione come sempre dovesse essere anticipato da un dibattito scientifico, e quindi da un momento di formazione, in linea di continuità anche con le precedenti edizioni, abbiamo ripreso il grande problema delle “parole giuste”. Abbiamo detto: “trovare le parole giuste significa anche trovare i temi giusti e avvicinarli con competenza”. E quindi significa anche contrastare gli elementi che vanno a impoverire il dibattito pubblico, “hate speech”, linguaggio delle iperboli -non è certo ascrivibile a una scelta comunicativa adeguata- e fake news. Oggi facciamo i conti con una situazione emergenziale e questo titolo, “Quando le fake news fanno più male”, torna di estrema e drammatica attualità.

La pandemia, gravissimo problema sanitario, ha creato anche disagio sociale e culturale per il tipo di comunicazione e informazione che ha circolato su scala mondiale. Le fake news fanno male sempre perché alimentano la famosa post-verità della quale non avevamo bisogno, ma fanno particolarmente male in alcuni contesti.

A proposito di parole che sono balzate all’attenzione della nostra contemporaneità abbiamo un nuovo termine: infodemia. La Treccani lo ha messo tra i suoi neologismiva proprio a stigmatizzare questo sovraccarico di informazioni spesso non valutate con competenza e con pazienza che creano disorientamento, non aiutano il cittadino.

Ringraziamo soprattutto i giovani che hanno risposto al bando e che fin dalla prima edizione del premio hanno testimoniato una competenza e una capacità di entrare nei temi sensibili che rincuorano.

Saranno premiati quelli che a nostro modesto giudizio sono stati particolarmente meritevoli, nella consapevolezza che tutti i partecipanti meritano, insieme alle testate giornalistiche che, pubblicando i loro articoli, dimostrano attenzione.

Ma noi parliamo ai giovani, ai giovani di oggi e di domani, a chi si sta formando sui temi del giornalismo e quindi con molta convinzione andiamo avanti nel portare la nostra attenzione nei confronti di “maglie” che si allargano: le fake news che seguitano a uscire, che seguitano a far male, ad essere terribilmente attrattive. Sembra che siano più seguite delle notizie vere, a quanto pare sono costruite ad arte per questo.

 

Intervista a Federica Ginesu

Federica Ginesu, giornalista freelance, si occupa di donne, questioni di genere, discriminazioni e comunicazione sociale. Attualmente collabora con il settimanale Grazia e il progetto web de Il Sole 24 ore Alley Oop. Ha pubblicato per La Donna Sarda, Elle, Gente e iO Donna. È coautrice dei due libri “Sardegna al Femminile. Storie di donne speciali” e dell’ebook “Donne di Futuro” de Il Sole 24 ore. Ha vinto il premio giornalistico Gianni Massa per la parità di genere, il premio giornalistico Jessie White per un’inchiesta sociale, il premio Monti – Giovannini e il premio “Giornalista dell’anno” Umberto Rosa per la categoria Salute e Innovazione. È socia della rete Giulia Giornaliste Sardegna.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Ogni articolo è una sfida, ogni volta mi metto in gioco. Mai dare niente per scontato, penso sia uno dei pilastri del giornalismo. L’articolo con cui partecipo al Premio, lo confesso, mi ha messo alla prova. Racconto la storia di una donna che ha reagito agli ostacoli della vita superandoli con forza e tenacia  attraverso lo sport. Un messaggio sociale importante, ma anche una vicenda umana in cui risplende il coraggio, la voglia di non arrendersi e una grandissima determinazione. Una lezione di vita per tutti.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

La comunicazione sociale è uno dei campi che prediligo. Mi permette di rispondere a quella vocazione che è nel dna del giornalismo: dare voce a chi non ce l’ha. Non sempre è possibile farlo per varie ragioni. Per chi come me è freelance è dura, significa proporre alle testate e cercare gli spazi giusti, non sempre si trovano. Questo certamente non mi impedisce di continuare a credere fortemente nelle storie che hanno un alto valore sociale e nel loro potere divulgativo. È così che emergono problemi o questioni che balzano all’attenzione dell’opinione pubblica. L’effetto può essere dirompente e meraviglioso: le storie, ne sono convinta, cambiano il mondo.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Nella comunicazione sociale le parole sono fondamentali, bisogna sceglierle con cura, attenzione e sensibilità. Anche quando in parte sono già scelte, perché legate a qualche patologia o figlie del mondo scientifico. Credo infatti che il giornalismo debba arrivare a tutti, come diceva Indro Montanelli: «scrivi in modo che ti possa leggere anche il lattaio dell’Ohio». Quindi, a mio avviso, un articolo deve essere chiaro, comprensibile anche quando affronta argomenti tecnici, capita in questo campo, sia quando con l’essenziale si deve arrivare al cuore. Le parole sono gli strumenti per arrivare a due risultati: informazione  quindi, ma anche tutti i valori che possono sprigionare i protagonisti e le protagoniste delle storie della comunicazione sociale: solidarietà, integrazione, risolutezza.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Le notizie non devono essere per forza nuove. Lavoro con le news, ma amo anche dedicarmi agli approfondimenti e alle inchieste. Sono articoli che richiedono tempo e consentono di sviscerare un argomento, di rivelare dimensioni, di sollevare questioni che portano, a volte, a nuove notizie.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Il giornalismo in Italia si è un po’ perso per strada. Devo essere onesta. Sotto alcuni aspetti sta investendo più sulla pubblicità che porta introiti sicuri che sul buon giornalismo ossia sulle inchieste o sulla comunicazione sociale, sullo stabilizzare i precari con il loro carico di talento e professionalità. I titoli online fuorvianti e acchiappalike, le false notizie divulgate in fretta senza verificarle sono alcuni dei  problemi generati dalla logica dei profitti. C’è però ancora chi resiste e risponde a quei valori di correttezza, deontologia ed etica che sono i pilastri di questo mondo. Spero che il giornalismo inverta presto la rotta perché al nostro Paese non servono prodotti commerciali, ma un’informazione libera, indipendente e integra.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

In questi giorni ho rivisto il film “The Post” in cui viene raccontata la storia dei Pentagon Papers, i documenti top secret del Ministero della Difesa Usa che riguardavano la gestione della guerra del Vietnam.

Nel gruppo di redazione del Washington Post che lavorò alla pubblicazione dei documenti c’era la giornalista Meg Greenfield, premio Pulitzer nel 1978 . Di lei fu scritto: “Curiosa, saggia, onesta, abile e brillante, dotata di un grande intuito. Integra, indipendente e appassionata”

Ecco la definizione di una buona giornalista.

Intervista a Greta Ubbiali

Greta Ubbiali, classe 1988, giornalista e conduttrice radiofonica. Originaria di Bergamo, dopo essersi laureata in lingue straniere moderne all’Università di Bologna, nel 2012 inizia a lavorare per alcune radio di Milano. In seguito, cominciano le collaborazioni con testate web e giornali locali. Tra il 2018 e il 2019 partecipa alla stesura degli ebook “Donne di futuro” e “Un’impresa da donna” di Alley Oop, blog del Sole 24 Ore. Oggi vive a Torino e si occupa di economia, finanza e trend della generazione Millennial.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Sì, molto. Le sfide però sono sempre positive per me perché mi mettono a confronto con situazioni nuove da cui ho sempre qualcosa da imparare. In particolare raccontare il mondo delle ricerca scientifica che sta dietro le malattie rare ha significato per me conoscere meglio una realtà per cui nutro molto rispetto: quello della ricerca italiana.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Purtroppo non quanto ne avrebbe bisogno perché si dà maggiore spazio ad altri argomenti più all’ordine del giorno. Una corretta informazione e sensibilizzazione sui temi sociali però sul lungo periodo aumenterebbe anche la qualità del dibattito pubblico.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Da una parte si scelgono. Sul fronte della narrazione della notizia la scelta delle parole può fare la differenza nel coinvolgimento del lettore, per esempio. Dall’altra però ci sono delle terminologie – penso al linguaggio clinico per esempio – che bisogna rispettare e adottare con rigore nei casi che lo richiedono come quello delle malattie rare. Solo così si può restituire una rappresentazione del fatto più vicina alla verità possibile ma comunque comprensibile al lettore.

Le notizie devono essere sempre nuove?

No, non penso. Anzi credo che che la rincorsa all’ultimo aggiornamento o alla breaking news non faccia sempre bene all’informazione. Bisognerebbe lasciare più spazio all’approfondimento e all’analisi, al cosiddetto “giornalismo lento”. Questo può significare anche andare a rispolverare notizie del passato, ragionarci ancora ma con nuove prospettive per “unire i puntini”. Così nascono contenuti che sono nuovi, ma soprattutto utili.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Dovrebbero essere servizi pubblici perché informare è un dovere ma è anche un diritto del cittadino, sappiamo però che i prodotti editoriali devono sottostare alle regole del mercato. Penso comunque debbano sempre preservare la loro autorevolezza. Una caratteristica importante, che i lettori riconoscono e premiano nel tempo. In periodi di trasformazione, come quello attuale, la stima che le testate hanno saputo costruire negli anni può fare la differenza garantendo la fedeltà del lettore.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

È un o una professionista che nel portare avanti il suo lavoro non dimentica mai le regole deontologiche. Che rispetta sempre il lato umano della notizia, soprattutto quando il tema che affronta riguarda la salute. Un buon giornalista è una donna o un uomo che si approccia alle fonti e ai suoi intervistati con rispetto. E lo stesso rispetto lo porta anche nei confronti dei lettori.

Intervista a Sofia Gadici

Sofia Gadici è nata a Fiuggi, in provincia di Frosinone nel 1992. Laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali all’Università degli studi di Roma tre e in Comunicazione pubblica digitale e d’impresa all’Università degli studi di Perugia. Attualmente è una giornalista praticante presso la Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia. Da maggio 2019 collabora con il Visual desk del gruppo editoriale Gedi: produce materiali audiovisivi per le piattaforma web di Repubblica, la Stampa, Huffington post e Mashable Italia.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

È stata sicuramente una sfida. Questo tema mi ha dato l’opportunità di confrontarmi con un mondo ancora da raccontare: ho avuto la possibilità di dar voce a chi spesso non viene ascoltato. Per realizzare il mio articolo ho conosciuto persone speciali che dedicano la propria via ai più bisognosi e che con la loro esperienza possono essere d’esempio per gli altri.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

È un tema non sufficientemente trattato. Alcuni casi emblematici salgono agli onori della cronaca, ma raramente il tema viene approfondito come dovrebbe.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Le parole devo essere sempre scelte. Se c’è la possibilità di toccare con mano un’esperienza, come è successo a me, il lavoro è più semplice perché la percezione è così nitida da ispirare gran parte delle parole. Ma un tema come questo necessita di essere raccontato con attenzione e rispetto.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Non necessariamente. Spesso uno stesso argomento può essere trattato da diversi e sconosciuti punti di vista.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Prodotti commerciali che fanno del servizio pubblico una veste con cui proclamare la propria onestà.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Paolo Borrometi, uno degli ultimi giornalisti di inchiesta in Italia che dedica la propria vita alla verità, nonostante i rischi che questo comporta.

Intervista ad Angela Zurzolo

Angela Zurzolo è giornalista pubblicista, attualmente iscritta, tramite procedura di ricongiungimento, all’albo dei praticanti.
Storyteller e video-giornalista, ha conseguito un diploma di master grazie a una borsa di studio del Sole24Ore in “Informazione multimediale e giornalismo politico-economico”.
Laureata in Lettere di Scienze Umanistiche alla Sapienza, ha più di 10 anni di esperienze professionali all’attivo, tra cui:
– WeWorld-GVC Onlus (ong operante nella cooperazione allo sviluppo in oltre 25 paesi del mondo)
– communication officer;
– Ministero Affari Esteri (ufficio comunicazione DGPCC);
– Osservatorio Iraq Medio Oriente e Nord Africa, il giornale di Un Ponte Per…
– Rondine Onlus (ufficio comunicazione e stampa dell’associazione www.rondine.org. Progetto Venti di pace su Caucaso. Visite ai campi profughi, alle case dei civili e alle istituzioni religiose, alle università e ai governi, in Azerbaijan, Armenia, Turchia, Georgia);
– Cooptelling, i miei foto e video reportage sulla cooperazione;
– Alleanza delle cooperative italiane;
– Legacoop Nazionale, ufficio comunicazione e stampa.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Confrontarsi con il giudizio di una giuria su un lavoro di reportage illustrato che tratta un tema così specifico e delicato intimorisce ma credo sia necessario, così come lo è il feedback dei lettori, affinché il cerchio della paura si chiuda. Di quale cerchio sto parlando? È iniziato quando mi sono ritrovata di fronte questa madre di una giovane donna che ha pronunciato per la prima volta la parola “sindrome del chiavistello”, e non si è mai dissolta. È la paura, la certezza, dell’inadeguatezza delle parole di fronte a un simile dolore. Dal momento in cui ho raccolto quella testimonianza, così come le altre, si è aperto un cerchio che comprende la responsabilità del dover tradurre un’esperienza per la maggior parte inconcepibile in storia condivisa. Condivisa ed attuale. Perché oggi, mentre un intero paese si chiude dentro casa per paura del coronavirus, non posso non pensare al fatto che per descrivere la condizione di questa ragazza e per definire quella di chi vive rinchiuso in casa stiamo utilizzando termini affini: lockdown e locked-in. E per quanto distanti anni luce queste esperienze non sono incomunicabili e non lo sono perché, per quanto il dolore e la paura possano dividerci e vederci protagonisti su fronti totalmente opposti, non c’è distanza che l’empatia non possa coprire per avvicinare chi sperimenta in piccola misura una condizione e chi invece la vive in maniera permanente. In questo senso, tutte le storie che narro ambiscono a essere riraccontate: raccontate ancora nel tempo, nello spazio, da me, da voci diverse, dai diretti testimoni di quella esperienza. Perché è un circolo ermeneutico che non si chiude mai e che è infinitamente perfettibile ma nel quale ognuno di noi è necessario e indispensabile. Perciò il giudizio della commissione sarà senz’altro da stimolo per migliorare questo processo.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Le rispondo con un’altra domanda: siamo in grado di fare comunicazione sociale e di farla bene? Io credo che ci siano diversi professionisti in grado di occuparsene bene ma che spesso le testate non li riconoscano perché i nostri media sono inquinati da troppo altro. E tuttavia la comunicazione sociale ha una forza e una tale capacità di arrivare che consente di superare quelli che sono i comuni ostacoli costituiti dalla notiziabilità e dalle logiche del mainstreaming. La mia ambizione piú grande è quella di riuscire a rispettare l’etica professionale e lo stile della comunicazione sociale per rendere quelle esperienze di vita che non sono attenzionate da nessuno ciò che davvero sono: Testimonianze uniche e irripetibili che meritano ascolto e comprensione.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

Quando ho scritto questo reportage non pensavo di partecipare al PGAB ma le parole non sono mai già scelte. Si scelgono e si continuano a scegliere sempre. Ci si continua ad interrogare sempre su di esse. E soprattutto viene voglia di sceglierle ancora. E scrivere e riscrivere, ancora e ancora anche la stessa storia, per dimostrare che la voce di chi rischia di rimanere indietro ha energie inesauribili e risorse che raccontano di una umanità capace di scorgere coraggio e resistenza anche nella piú dura delle condizioni.

Le notizie devono essere sempre nuove?

Ho inconsapevolmente anticipato un po’ la sua domanda. Le notizie devono essere sempre nuove. Eppure spesso fanno i conti con un sistema dell’informazione monotematico che lascia indietro temi importanti per poi ritrovarsi privo di strumenti e di esperienza a confrontarsi, magari solo nell’emergenza, con temi difficili e che riguardano tutti, come quello della salute, della disabilità, etc… Ciò produce spesso disorientamento e una informazione approssimativa, incapace di dare punti di riferimento e di offrire al pubblico la possibilità di creare autonomamente una chiave interpretativa individuale e collettiva dei fatti e degli avvenimenti.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Mi piace non generalizzare perché rimane pur vero che esistono ancora oggi testate e testate. Stanno, peró, innegabilmente ibridandosi sempre piú.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Un buon giornalista è colui o colei che sceglie di raccontare anche quando è scomodo farlo; colui o colei che sceglie cosa scrivere e cosa non scrivere, anche a dispetto degli esiti che ciò possa avere sulla sua personale carriera; colui o colei che sceglie come raccontare, sempre nel rispetto della volontà e della dignità degli intervistati e delle persone coinvolte. In ultimo, un buon giornalista è colui che sparisce nelle storie altrui e riemerge solo per dar loro senso e un quadro di insieme.

Intervista a Luca Zanini

Gaetano Luca Zanini è nato a Caserta, ma è cresciuto all’ombra del Vesuvio, a Portici, in provincia di Napoli. Dal 2014 è giornalista pubblicista, ma da sempre ama scrivere e scoprire il perché delle cose. Mentre coltivava la passione per la politica estera e per la tecnologia, si è laureato in Lettere Moderne alla “Federico II” di Napoli e poi ha continuato il mio percorso di studi a Roma, conseguendo la laurea in Editoria e Giornalismo a “Roma Tre”. Nel mezzo, un’esperienza di tre mesi a Londra per frequentare il master in giornalismo della London School of Journalism. Ha scritto di cronaca e politica locale per Il Mattino di Napoli, finché non ha vinto una borsa di studio per la Scuola di Giornalismo della Luiss. Qui ha avuto l’opportunità di fare prima uno stage alla redazione romana de La Stampa e poi a quella del Messaggero, con cui attualmente collabora.

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

La vera sfida è stata soprattutto quella di rendere comprensibili alcuni termini scientifici che senza un’adeguata contestualizzazione sarebbero risultati incomprensibili a un pubblico più vasto rispetto a quello degli addetti ai lavori.  L’altra faccia della medaglia, però, è il rischio di semplificare troppo e risultare imprecisi. La difficoltà di trattare tematiche così specifiche sta proprio nel trovare un giusto bilanciamento tra semplicità e accuratezza.

La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

La comunicazione sociale è un tema troppo spesso relegato alle testate di settore e trascurato invece dalle testate generaliste nonostante offra numerosi spunti di riflessione e storie interessanti. Proprio per questo credo che i temi che gravitano attorno alla comunicazione sociale dovrebbero trovare più spazio non solo nelle testate giornalistiche ma anche nel dibattito nazionale.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte?

“Le parole sono importanti” diceva il protagonista di un celebre film. Le parole hanno sempre un peso specifico che va al di là delle nostre intenzioni: quando le usiamo, comunichiamo anche valori, disvalori e le nostre sovrastrutture mentali pregresse, a volte anche inconsciamente. Quindi le parole vanno sempre scelte con attenzione, a maggior ragione quando si tratta di tematiche collegate alla comunicazione sociale.

Le notizie devono essere sempre nuove?

In linea di massima, sì. Ci sono alcuni casi, però, in cui l’elemento di novità è dato da una diversa chiave di lettura di un fenomeno già noto, oppure casi in cui un episodio accaduto in precedenza, assume nuova rilevanza a seguito di eventi successivi.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Le testate giornalistiche, così come i libri o il cinema, si sono sempre collocate a metà strada tra i prodotti commerciali, prodotti culturali e il servizio pubblico. Nonostante siano “sul mercato”, e debbano sottostare alle sue regole interne, non possono essere definiti come prodotti commerciali veri e propri perché svolgono una funzione di arricchimento culturale per chi li acquista. Inoltre il giornale svolge una funzione pubblica fondamentale, perché solo dei cittadini ben informati permettono a una democrazia di funzionare correttamente.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Milena Gabanelli