Saluti istituzionali Paola Spadari, consigliera segretaria del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti

“Ci tenevo ad esserci anche come rappresentante dell’Ordine nazionale… abbiamo sempre sostenuto questa iniziativa, perché i progetti come questi interpellano l’essenza vera del giornalismo, fra cui quello che interessa la comunicazione sociale. Potrei dire molte cose che hanno riguardato il banco di prova che il giornalismo ha dovuto affrontare in questi due anni, tra l’altro mi fa piacere che ci possiamo vedere in presenza, perché l’anno scorso, se non ricordo male, eravamo collegati in streaming. Siamo tornati tutti alla normalità, un ritorno alla normalità sancisce un momento importante, anche per il giornalismo professionale, che riprende il suo cammino anche nell’interlocuzione, diciamo fisica, con le persone. Questo è importante. Abbiamo naturalmente affrontato prove molto ardue, che sono state quelle di descrivere una pandemia, sono oggi quelle di descrivere e raccontare una guerra. Due palchi di prova importantissimi, che in qualche modo ci hanno visto presenti e che ci hanno messo anche nella condizione di dover fare alcuni richiami al rispetto delle nostre regole. Voglio raccontare un piccolo episodio personale. Quest’anno ho aiutato una persona a cui avevano riferito dell’ipotesi di una malattia rara; un’ipotesi diagnostica; quindi ho interpellato tutti i siti, tutte le fonti d’informazione per dare una mano a questa persona. Si trattava di una malattia non grave, per carità, però questo è il nostro lavoro: è importante illuminare quelle aree dell’informazione che non sono facilmente leggibili, ma che chiamano in causa l’essenza del nostro lavoro. Credo che iniziative come questa debbano in qualche modo servire anche a far comprendere ai ragazzi, ai giovani e a chi si accosta a questo mestiere, che serve un’informazione responsabile, cosciente dei rischi ma anche delle opportunità e del valore di quello che si fa”.

Saluti istituzionali – Guido D’Ubaldo, presidente ODG Lazio

“Per me un piacere ed un onore essere qui nell’Università che ospita una scuola di giornalismo che è un’eccellenza qui nella regione Lazio, assieme alla scuola di giornalismo della Luiss. Abbiamo un ottimo rapporto con la Lumsa così come con la Luiss. Mi fa piacere che questo ricordo di Alessandra Bisceglia sia anche un corso di formazione, perché questa è una delle principali sfide che ho assunto da presidente dell’Ordine del Lazio: quella di cercare di ampliare l’offerta formativa per i colleghi e portare il maggior numero di loro a fare la formazione. Quello che mi piace ricordare di Alessandra Bisceglia – che non ho avuto modo di conoscere ma di cui mi sono fatto raccontare la storia – è che al di là della sua fragilità, Alessandra Bisceglia era una giovane giornalista che ce l’ha fatta. Oggi i tanti giovani che si avvicinano a questa professione rischiano di non farcela, perché la contrazione del mondo del lavoro, l’erosione dei posti di lavoro, le redazioni dei giornali che si svuotano portano sembra meno ricambio generazionale. Ecco, perché, questi giovani inseguono un sogno che diventa sempre più difficile. La passione di Alessandra Bisceglia deve essere un esempio per questi ragazzi che si accingono a percorrere una strada tortuosa ricca di ostacoli e che probabilmente li porterà ad avere una situazione professionale compiuta soltanto avanti con gli anni. Quando abbiamo cominciato noi, forse, era possibile riuscirci prima, era possibile frequentare le redazioni dei giornali come una palestra per fare esperienza. Ecco, Alessandra Bisceglia è una giovane giornalista che ce l’ha fatta: questo deve essere un esempio per i giovani, perché è molto difficile.  Immaginate poi, quanto sia stato difficile per lei per la sua fragilità. Grazie alla sua passione, però, ce ’ha fatta. Credo, quindi, che anche per i giovani che frequentano la scuola di giornalismo alla Lumsa, quello di Alessandra Bisceglia debba essere un esempio da seguire”.

I media e la notizia della fragilità: come darla, diffonderla, rafforzarla

Paola Severini Melograni, giornalista e conduttrice Rai

I media e la notizia della fragilità: come darla, diffonderla, rafforzarla

Salve a tutti, mi volevo scusare ma vengo direttamente dalla trasmissione. Difatti dalla maglietta con la scritta si capisce che ho appena registrato e che vedrete il programma, spero, domenica mattina. Mi voglio scusare, perché avrei voluto assolutamente ascoltare questi colleghi così bravi, ho fatto in tempo a sentire uno dei miei direttori che è Roberto Natale. La nostra trasmissione gode di una serie di direttori, abbiamo il direttore Antonio Di Bella per l’approfondimento, il direttore della rete che è Franco Di Mare, il vicedirettore che si chiama Corsini che è quello che ci segue. Ve lo dico perché è veramente molto complesso gestire un tema così delicato come il nostro dei fragili in Rai, con una trasmissione che è specializzata in questo contesto. Da tanti anni faccio la radio, la collega Pertici è andata via ma la ringrazio, perché francamente non ero ancora riuscita a capire esattamente come funzionasse il magico mondo dei podcast e mi rendo conto che le trasmissioni in radio che faccio da quando ero ragazzina, quasi da 40 anni sono in realtà dei podcast, perché lavoro da sempre sulla voce e perché cerco di stabilire un certo tipo di rapporto con gli ascoltatori. Quello che noi facciamo è un grande servizio sociale. Ho tamponato il fatto di stare in trasmissione ma non seguire voi perché ho mandato la mia bravissima assistente che domani mi farà un riassunto preciso di tutte le relazioni di oggi, vedo che già è preoccupata. Roberto Natale ha parlato della pornografia del dolore e di quello che può fare o deve fare il telespettatore o l’ascoltatore a cui noi ci rivolgiamo e questo è qualcosa contro cui la nostra squadra fa una battaglia da tantissimi anni, perché la televisione italiana pubblica nella sua rincorsa cominciata al momento della televisione commerciale non utilizza qualunque possibilità e qualunque momento per mettersi in gara con risultati spaventosi.  La pornografia del dolore si verifica quando sentiamo il racconto dell’intervista al papà del piccolo Matteo, quando vediamo dopo qualche tragedia il nostro collega che infila il microfono sotto il naso del padre, del figlio, della moglie, della sorella: quella è pornografia del dolore. Pornografia del dolore è anche non saper gestire i temi importanti che sono tanti e che sono delicatissimi. Vorrei a questo proposito raccontarvi   una vicenda, perché è bene che voi comprendiate oltre a vederla e seguirla nelle nostre trasmissioni, anche la realtà che ci circonda.

Una vicenda che mi coinvolge a livello personale, ci ho messo 40 anni per arrivare a fare questa battaglia perché la vedevo, la trasmissione doveva essere così ma non ero compresa o non mi sapevo spiegare o non riuscivo a trovare dei referenti, la trasmissione scatta dopo anni e anni di radio e di piccole produzioni che erano un contorno  ma non erano questo obiettivo, e questo obiettivo guardate è un obiettivo cari colleghi è davvero molto difficile, perché quando noi facciamo parlare attraverso una tavoletta di plexiglass trasparente Caudio Imprudente all’una e mezza di notte, vuol dire che abbiamo compreso che questa è la strada giusta. Ma non ci siamo improvvisati, abbiamo fatto tanti errori, è stato un percorso molto difficile, vi racconto questa vicenda che parte dal 2016. Sanremo 2016, faccio una grande battaglia per portare Ezio Bosso, sapevo che avrebbe cambiato la percezione, ne ero convinta proprio perché ero partita con questo lavoro tanto tanto tempo prima e avevo avuto anche grandi maestri oggi, ho avuto in trasmissione il vecchio assistente di Domenico Modugno con cui abbiamo aperto in malinconia, Agrigento, Fermo e ci rivedevamo appunto dopo 40 anni. So che ho imparato anche da Domenico Modugno, dal suo modo di porsi. Ezio Bosso cambia il paradigma e noi abbiamo un enorme successo, 13 milioni di ascoltatori in tutto il mondo. L’anno dopo riusciamo a portare i Ladri di Carrozzelle che è un’altra di quelle realtà italiane che non esistono proprio da nessun’altra parte del mondo e facciamo 10 milioni e mezzo. Poi però, come succede spesso in queste strutture così elefantiache che come la Rai non è uno che prende il buon esempio e continua in quella strada, no cambia tutta la struttura la squadra di Sanremo, cambia la squadra, cambiano gli agenti, cambia la visione e chi la fa subito dopo di noi 2018 – andatevi a vedere chi l’ha fatta che ancora c’è – decide di insistere su quel tema senza avere gli strumenti e la competenza per farlo, perché la comunicazione in generale ma la televisione soprattutto sono degli strumenti delicatissimi  che possono diventare delle pistole cariche con le quali ci si può anche suicidare, non è che uno spara sempre nei confronti degli altri. Qual è stato il ragionamento? Abbiamo portato Ezio Bosso che stava male ma aveva tutto quel fascino del personaggio, della musica classica di lui da solo davanti al pianoforte, l’anno dopo i Ladri di Carrozzelle gruppo rock ma in realtà sì il cantante è cieco, però danno una sensazione di enorme vitalità. Come facciamo a superare il percorso? Non hanno fatto la domanda come facciamo a proseguire il percorso !!! No, volevano fare di più a tutti i costi, violentando il telespettatore e che cosa hanno fatto? C’era un morto, una specie di salma, un cadavere, quindi hanno scelto una persona con sma 2 quindi gravissimo che parlava attraverso un sintetizzatore vocale e che era praticamente steso e che si chiama Paolo Palumbo e che io chiaramente essendo il mio lavoro un supermarket delle disgrazie comunque lo conosco da sempre, da quando Paolo Palumbo ha avuto la prima difficoltà, lo conosco da quando camminava poi è andato in carrozzina, quindi ho visto tutta l’evoluzione e avevano detto che Paolo Palumbo aveva scritto una canzone e l’avrebbe cantata con il sintetizzatore vocale. Paolo Palumbo faceva il cuoco, faceva l’aiuto cuoco non ha mai scritto una canzone. Dietro Paolo Palumbo c’era un gruppo di delinquenti, compreso la sua famiglia, che peraltro poi sono stati condannati perché hanno truffato il mondo universo attraverso un palcoscenico che è il palcoscenico della Rai, perché Sanremo è il palcoscenico e io però lo sapevo, avevo avvisato l’amministratore delegato di allora perché avevo visto lo scontro di Palumbo in radio quando ancora parlava perché aveva scritto un libro molto intelligente intitolato Sapori a colori, perché aveva avuto la pec per cui voi sapete bene che non si può più avvertire, si può guardare il colore e sentire il profumo e può essere una cosa che aveva un senso ma da qui a scrivere la canzone e andare a Sanremo voglio dire, è come un altro mondo, un’altra cosa. Quando questi signori vengono condannati, questo succede alla fine del 2018 ho sperato che la cosa fosse finita così ma questo comportamento di ricerca a tutti i costi di una percentuale anche di mezzo di share per cui sono disposti a tutto e lo vediamo in certe trasmissioni televisive che abbiamo visto durante il Covid, poi lo abbiamo visto durante la guerra per cui si poteva invitare tutti, anzi, chi ne sapeva di meno come il discorso dell’edicolante di chi mi ha preceduto era più giusto perché faceva di più la sceneggiata napoletana. Un mese fa apro un grande quotidiano e trovo una pagina dedicata a Paolo Palumbo che fa un nuovo disco, praticamente lui oramai è praticamente morto, non so quanto gli resterà ma la squadra di delinquenti intorno a lui è ritornata alla carica e chiedevano una raccolta fondi, io chiamo la collega  e le dico, basta che vai immediatamente su internet e vedi tutto quello che c’è dietro mi raccomando fai una rettifica, questa cosa poi viene a cascata e succede di tutto, lei mi ha detto ci ho parlato, ma scusa tu stai a Cagliari il quotidiano è di Milano, avrete capito appunto di che quotidiano si tratta non è un quotidiano qualunque  e non è piccolo, e lui mi dice Paola io ci ho parlato, una voce meccanica può essere qualsiasi cosa. Questo è il grande problema chiaramente è uscito su tutti i giornali del gruppo, qui c’è un grande direttore avanti a me, non perché io ogni tanto scriva su Avvenire ma perché questa cosa non sarebbe mai successa, e non sarebbe mai successa perché Marco Tarquini ma anche tutta la sua squadra prima di fare una cosa di una tale leggerezza e con una tale violenza intono, e torno alla violenza della pornografia del dolore, ci avrebbe pensato dieci volte e avrebbe fatto una verifica ormai i nostri colleghi non verificano nulla. Noi non mandiamo in onda niente che non sia perfettamente certo. L’altro giorno è uscita una cosa sulla stampa importante su una cura della SLA, io dei dubbio li ho ancora e ho chiamato Silvio Garattini e ho fatto fare una ricerca da Mario Negri e ho detto fermati finché non siamo certi noi in televisione, perché in televisione è qualcosa di molto forte impattante nella vita della gente ti entra dentro casa, tu devi essere certissimo, sicuro attentissimo e devi sempre pensare al danno prima del vantaggio per te e questo negli ultimi tempi non è successo, il caso di Paolo Palumbo è qualcosa che mi ha di nuovo sconvolto ora si è bloccato, magari fra due anni non so se sarà ancora vivo ma ci sarà un altro Paolo Palumbo e qualcuno che cavalcherà questa cosa, ve lo dico perché vedo anche dei colleghi e vedo anche dei giovani perché questo nostro mondo è così tanto sensibile e delicato che se non si è competenti e attenti, san Giovanni Bosco diceva che il bene bisogna farlo bene, perché se no diventa male , bisogna saperle le cose avere un po’ di competenza. Roberto Natale ha raccontato nel 1980 il lavoro cominciato dalla comunità di Capodarco che è un lavoro che ha giunto fino a noi e così tante realtà del nostro mondo del terzo settore, purtroppo questo tema viene affrontato da tutti con una superficialità assoluta, una showgirl non lo può affrontare questo tema, non può parlare di salute, di sanità di guerra, non può fare l’opinionista, sarebbe l’ora che la televisione pubblica prendesse una decisione in questo senso, non possiamo infliggere delle cose assolutamente grottesche a chi paga il canone, non lo possiamo fare e io cerco sempre quando torno a casa la sera a farmi proprio l’esame di coscienza, come si dicevano una volta, ho fatto a volte degli errori ad oggi, oggi abbiamo avuto un padre medico in registrazione e per questo non ero da voi con una figlia autistica gravissima che sta cercando di fare un lavoro su cousing l’abbiamo detto con molta attenzione io vedevo che lui era stanco, che era addolorato la figlia la notte era stata male, si può gestire un intervista, un rapporto, una relazione perché la nostra relazione con gli ascoltatori in mille modi, dobbiamo cercare di non  rischiare e veramente di fare il bene bene perché abbiamo una grandissima opportunità, noi abbiamo l’onore di fare questo lavoro ma è anche un grande onere farlo e una grandissima responsabilità. Bisognerebbe avere un controllo diverso, purtroppo ci sono organi di controllo che non controllano e non dicono una parola, ci sono delle strutture nel nostro mondo, c’è l’ordine dei giornalisti, ho visto che qui c’era non so se c’è ancora il presidente dell’ordine del Lazio e il presidente dell’ordine nazionale io vorrei che facessero sentire di più la loro voce, certe cose le possono dire e fare i giornalisti che hanno una formazione adatta per farlo, tutti i nostri corsi di aggiornamento mah lasciano il tempo che trovano. Prima di tutto ci vogliono delle regole di buon senso e poi mai dare delle notizie non verificate, vecchio discorso del mio primo direttore che era Antonio Pirelli, se io mi fossi mai azzardata di dare una notizia non verificata mi avrebbe licenziato in tronco, sul momento, come si fa a fare una cosa di questo genere? Scusate per oggi, dopo aver parlato con questo genitore, ogni volta che incontro i genitori mi sento sempre coinvolta, dico ma farò abbastanza? Sarà sufficiente il messaggio che noi mandiamo? Sarà giusta la strada che prendiamo? Poi mi confronto con tutta la nostra squadra ragioniamo e molto spesso buttiamo il lavoro fatto se non è all’altezza di quello che vogliamo raccontare e soprattutto se c’è anche in piccolo rischio di confondere le persone non può andare in onda. Questa è la mia visione. Avremmo potuto giocare in un altro modo la nostra partita è sicuramente alzare molto di più l’indice di ascolto, siamo nello sgabuzzino delle scope e ogni tanto lo dico negli angoletti in orari impossibili, facciamo quello che possiamo in quegli orari, quando avremo l’opportunità di andare in prima serata ci comporteremo comunque sempre così perché queste sono le nostre regole e la nostra visione, noi non abbiamo bisogno di un pubblico indignato come striscia la notizia o di attaccare dalla mattina alla sera tutto quello che avviene, noi vogliamo raccontare le cose positive per cercare di dare un modello positivo, crediamo ancora in un ruolo pedagogico della televisione pubblica crediamo ancora che come diceva un grande intellettuale che era Popper, la televisione insegna sempre non è solo una cattiva maestra ma insegna quando fare cose buone e cose cattive e quindi noi cerchiamo di insegnare il positivo e di fare in modo che la nostra impostazione sia in qualche maniera presa a modello. Siamo arrivati all’oggi dopo un lunghissimo percorso ora ci aspetta la sfida più difficile quella di un paese in difficoltà, un paese che cambia completamente governo, che cambia impostazione avremo un autunno di gente con difficoltà economiche e i nostri ragazzi fragili e le loro famiglie sono quelli che vivono in una condizione di massimo svantaggio, dobbiamo essere la loro servizio e cercare di farlo insieme, questo è l’appello che io rivolgo ai miei colleghi della carta stampata, dateci una mano cercateci di starci vicino non soltanto indicandoci le storie che secondo me vale la pena che siano raccontate in televisione quindi amplificate la soprattutto raccontando anche un po’ lo sforzo che noi facciamo quotidianamente e credeteci è una sfida quotidiana pesantissima, faticosissima riceviamo centinai di mail al giorno e dobbiamo cercare di rispondere a tutti dateci una mano e soprattutto se sbagliamo in qualche modo, se impostiamo male la nostra visione indicatecelo correggeteci perché nessuno ha la certezza in mano è che io non vorrei mai più vedere le cose che vedo distribuite in questo modo da persone che non hanno nè la competenza e soprattutto che non hanno la nostra visione che è una visione, qui siamo in una situazione di un certo tipo, un premio dedicato ad una ragazza che è morta a 28 anni e che aveva quella visione io non l’ho potuta conoscere ma l’ho conosciuta attraverso i suoi amici e ha lasciato una testimonianza importantissima, cerchiamo di seguire quel tipo di testimonianza, la testimonianza di Alessandra Bisceglia”.

Raccontare la malattia e la disabilità senza pietismi – Andrea Vianello

Andrea Vianello, direttore Rai Radio 1

“Raccontare la malattia e la disabilità senza pietismi”

“Ho avuto la fortuna di lavorare con Alessandra in un periodo importante della mia carriera a “Mi manda Raitre”, un programma che cercava di aiutare i fragili che non avevano voce, quindi, un programma sicuramente fondante, in un periodo in cui il nostro Paese aveva bisogno che ci fosse la possibilità di alzare un po’ la voce … e quindi, il fatto di averla conosciuta, di vederla ogni giorno, di vedere quanto fosse bella e molto forte, è stato per me un privilegio. Sono molto contento e orgoglioso del fatto che le nostre due vite si siano intrecciate, anche se per poco tempo. Come dice il sottotitolo del nostro incontro, dobbiamo raccontare le malattie rare, in particolare, ma insomma, direi anche le malattie in generale. Dopo un tempo molto particolare che è quello della pandemia e della guerra, il nostro mondo improvvisamente è cambiato.
Da un momento all’altro la pandemia ci ha fatto capire quanto sia importante la Sanità pubblica. Un po’ lo avevamo dimenticato. Anche noi, come giornalisti, parlavamo di Sanità pubblica soprattutto per evidenziarne gli errori, per dire che c’erano problemi di prenotazioni o di code. Abbiamo capito, in realtà, che un Paese forte ha bisogno di una Sanità forte e che noi ce l’avevamo, ce l’abbiamo. Nell’ultima campagna elettorale non mi pare che la Sanità sia stata un tema centrale. Credo che sia un errore enorme. Se c’era una cosa che pensavamo di aver imparato e cioè che non si può fare politica, vivere e raccontare il mondo senza partire da una Sanità pubblica forte … bene … incredibilmente ce lo siamo dimenticato … o meglio, se lo sono dimenticato i politici di destra, di sinistra, di centro e tutti quelli che hanno partecipato all’ultima campagna elettorale. Spero che adesso se lo ricorderanno. Ecco, sono rimasto molto colpito, perché vuol dire che abbiamo predicato al vento come giornalisti e forse un pochino su questo dobbiamo fare un mea culpa. Nei prossimi mesi dovrò fare più domande ai politici, rispetto a che modello di Sanità vogliamo avere in questo Paese. Abbiamo capito, per esempio, che alcune Regioni che pensavamo essere molto forti, in realtà avevano una Sanità principalmente privata, magari fortissima, ma la pubblica era stata dimenticata.  La Sanità sarebbe stata un tema molto più importante rispetto ad altri al centro del nostro acceso dibattito politico. Anche io ho un’esperienza personale e la voglio mettere sul tavolo, altrimenti sarei ipocrita. Ho fatto il conduttore, faccio il giornalista e ho avuto la fortuna di fare un mestiere bellissimo, soprattutto lo faccio nel servizio pubblico. Chi lavora in Rai con serietà sa che cosa significa, conosce il nostro approccio alle cose. Abbiamo sempre cercato di dare voce al mondo della malattia, anche con l’aiuto di alcune associazioni come Telethon. C’è stata sicuramente una consapevolezza importante. Poi anch’io, improvvisamente, sono diventato fragile: ho avuto una crisi prima che arrivasse la pandemia, nel senso che ho avuto un ictus, una dissecazione della carotide, mi hanno operato e mi sono svegliato che grazie a Dio ero vivo. Ero ancora in questo mondo, con i miei tre figli e con mia moglie. Insomma, avevo già avuto una bella vita e per me questo era importante. Poi, però, non riuscivo più a parlare. Non so fare quasi niente, neanche mettere una lampadina, l’unica cosa che so fare è parlare. La malattia aveva colpito proprio quella che era la mia forza. Ero diventato fragile, come Superman quando entra in contatto con la criptonite. Mi chiedevo dove sarei andato a finire senza la parola, io che ero una parola vivente. Cosa succede dopo? Succede, appunto, che vivi e che trovi forze che neanche immagini di avere. La forza sicuramente te la dà, magari, il fatto che hai una famiglia, ti resta ancora la voglia di vivere, di poter dare una mano. In questo modo ne sono uscito. È chiaro che ne sono uscito più fragile e più debole. Per oggi, ad esempio, non ho scritto niente, perché se leggessi a voce alta potrei commettere errori. Poi dipende dai giorni. Insomma, il danno c’è stato, ma il cervello trova altre strade, ci mette un po’ a capire come farlo ma poi la trova. Adesso sono passati tre anni e mezzo. Ma oggi, appunto, prima di venire da voi, per leggere a voce alta, sono andato a fare la mia lezione di logopedia. Ho fatto un sacco di errori nel leggere un articolo di Repubblica. Dovevo leggere delle “non parole”. Non so se sapete cosa siano: sono una cosa terribile, parole finte che vengono usate proprio per chi deve ritrovare la gestione del linguaggio (il cervello che riconosce le parole deve imparare a riconoscere, per leggere, anche le non parole, ndr). Dopo tre anni e mezzo, però, posso dire che in realtà sono molto fortunato … e soprattutto non mi sento fragile. So soltanto di essere meno forte di prima da un punto di vista fisico, ma allo stesso tempo non mi sento di essere migliore. Non credo alla retorica che la malattia ci faccia diventare migliori. Credo di essere un uomo più profondo, con un rapporto un po’ più stretto con il vero me stesso, un rapporto che si perde un po’ nella vita, nella carriera, nell’orgoglio. Ma non sono migliore. Sono solo più forte di prima … e soprattutto non mi nascondo. Una cosa importante nella malattia è il non nascondersi. Sono cose che succedono. Alcuni, come Alessandra, hanno avuto una vita segnata. Ma lei era una donna così luminosa dentro di sé! La cosa più importante è la luce che abbiamo dentro di noi. Non so se adesso ho più luce, ma sicuramente ho un’anima più accesa, più consapevole della bellezza di questa vita che è anche sofferenza. Credo che una delle cose che mi porto da questa esperienza, anche nel lavoro che faccio è di raccontare la malattia senza nascondere le persone. Ho scritto un libro, ad esempio, su questa mia storia e l’ho fatto proprio perché volevo raccontarla, perché è il mio lavoro e perché non ho niente da nascondere. Non è stata colpa mia. A volte chi ha avuto una malattia pensa che sia una colpa propria, invece non è colpa di nessuno. Succede e quindi non lo dobbiamo nascondere, anzi, è un pezzo della nostra vita che sicuramente sarebbe meglio non aver vissuto, ma con cui si deve fare i conti. Avere il coraggio di pronunciare “ictus”, una parola che fa molta paura, è importante. Abbiamo evitato di dire per tanti anni “cancro”, ma adesso abbiamo superato questo blocco. Sto cercando di fare la stessa cosa con la parola ictus. In fondo lo capisco: è difficile parlare dell’ictus, che è la terza causa di morte e la prima causa di disabilità in questo Paese. Se ne parla pochissimo, perché ne abbiamo paura. Ha paura chi non l’ha avuto e soprattutto noi che ci siamo passati. C’è poi la paura di dire: tu sei quello dell’ictus. Ma io non sono quello dell’ictus. Io ho avuto un ictus. Credo che la cosa più importante sia sdoganare questa parola, sia raccontare che cos’è una malattia, come prevenirla, come gestirla. Aiutare le famiglie, che sono importanti in queste situazioni e soprattutto aiutare noi stessi. Non bisogna pensare che la nostra vita è finita, che è diversa da prima. Certo, a volte è diversa da prima, ma l’anima rimane la stessa. Il senso di quello che ho cercato di fare in questi tre anni e mezzo, a metà tra un lavoro che mi impegna, grazie a Dio fortemente e il ruolo di presidente di Alice, l’associazione nazionale per la lotta all’ictus, è quello di dare, appunto, un piccolo contributo non da medico, ma da paziente e da giornalista comunicatore. Essere un po’ come un piccolo portabandiera di una grossa comunità composta da chi è stato colpito da un fulmine che quando arriva rompe il nostro motore. Quando è uscito il libro, è entrata nella mia stanza una giovane donna che lavora in Rai, per chiedermi una dedica. Non la conoscevo. Aveva 24 anni ed era stata colpita da un ictus quando era molto più giovane. Me lo ha raccontato. Ragazza molto bella, molto carina e dolcissima. Mentre parliamo entra una collega nella mia stanza e mi accorgo che la ragazza ha subito nascosto la sua mano. L’ictus a me ha colpito la parola. A quella ragazza giovane e bella, dell’ictus le era rimasto un problema alla mano, un pugno chiuso. Quando è uscita la collega, ho chiesto alla ragazza perché avesse così paura di far vedere la sua mano. Lei mi ha detto che ci pensa tutto il giorno. Ho provato a farle capire che è una ragazza giovane e bella e che non deve pensare a quella mano, quindi, le ho scritto una dedica sulla copia del libro, ricordandole che è molto bella. Tutti i giorni, prima della pandemia, entravo nella sua stanza a ricordarle quanto fosse bella. Non so se questa difficoltà le sia rimasta, anche perché non ci siamo visti per un po’ per via della pandemia. Anche Alessandra era una ragazza bellissima. Di lei ricordo che era molto bella e piena di luce, che è la forza non di chi è fragile, ma di chi è consapevole della sua anima”.

La cura della fragilità nel magistero di Papa Francesco – Paolo Ruffini

Paolo Ruffini, Prefetto dicastero per la Comunicazione della Santa Sede

“La cura della fragilità nel magistero di Papa Francesco”

È interessante parlare di fragilità in un tempo che predica invece la forza.

E riflettere su quel paradosso che è la forza della fragilità.

In un suo saggio di qualche anno fa, un teologo francese, Paul Valadier, ha tessuto un vero e proprio elogio della «vulnerabilità», come antitesi della indifferenza. Come capacità di accettare le ferite, quelle del corpo e quelle dell’anima; e di farsi carico della vulnerabilità dell’altro. Di saperla vedere, raccontare anche, e curare.

Può sembrare assurdo, ma per chi crede la fragilità è anche una delle caratteristiche di Dio; onnipotente; eppure vulnerabile nel suo essere coinvolto dalle vicende dell’uomo.

Vulnerabile proprio perché amore. Proprio perché non indifferente.

Coinvolto a tal punto, da farsi egli stesso uomo, fragilmente umano, proprio per amore dell’uomo.

La cura della fragilità nel magistero di Papa Francesco, che è poi il titolo di questo mio intervento, trova esattamente qui la sua radice.

Ed oggi che il Papa ci appare egli stesso più fragile, e vulnerabile, si manifesta in una testimonianza fortissima.

La fragilità e la sua cura fanno parte della nostra essenza.

Il Papa scrive il suo magistero con i gesti prima ancora che con le parole.

Ed ecco: il primo gesto è non nascondere la propria di fragilità.

Le sue stesse parole seguono i gesti. Per questo comunicano.

Per la loro verità.

Per questo sono credibili.

Perché sono state prima testimoniate e poi dette.

E a volte anche taciute. In preghiere mute e sofferenti.

La preghiera di chi crede.

Spes contra spem.

Fondata sulla sofferenza, la passione di Dio stesso. Preludio della resurrezione. E allo stesso tempo pianta saldamente nel mondo.

La speranza richiede anche un impegno concreto.

La fragilità esige la cura.

Al di là della ricerca scientifica che fa passi da gigante, che va supportata, finanziata, orientata al bene comune, la fragilità è comunque un mistero. E ancora più misteriosa, ingiusta, ci appare la fragilità dei più piccoli, degli innocenti. Il dolore dei bambini per esempio.

“Io non ho una risposta – ha detto una volta il Papa, era il 15 dicembre 2016 – sul perché i bambini muoiono.

Nemmeno Gesù ha dato una risposta a parole.

Di fronte ad alcuni casi, capitati allora, di innocenti che avevano sofferto in circostanze tragiche, Gesù non fece una predica, un discorso teorico.

Si può certamente fare, ma Lui non lo ha fatto.

Vivendo in mezzo a noi, Gesù non ci ha spiegato perché si soffre. Ci ha mostrato la via per dare senso anche a questa esperienza umana:

non ha spiegato perché si soffre, ma sopportando con amore la sofferenza ci ha mostrato per chi si offre. Non perché, ma per chi”.

Cfr discorso agli infermieri, 15 dicembre 2016

Ecco.

In questa unione fra il gesto e la parola c’è secondo me il cuore del magistero del Papa sulla fragilità. Che si fonda sull’accompagnamento.

Per questo, in tutto quello che dice, in tutto quello che fa, Francesco cerca di essere strumento della tenerezza di Dio. E di offrire così una visione profetica della fragilità

Una visione che comprende purtroppo anche la malattia, e il dolore.

Un approccio che richiede la cura, non l’accanimento. Dovela fragilità dell’uomo si specchia nella fragilità di Dio…

“Tante volte – ha detto il Papa – io penso alla Madonna, a quando le hanno dato il corpo morto di suo Figlio, tutto ferito, sputato, insanguinato, sporco. E cosa ha fatto la Madonna? Lo ha abbracciato, lo ha accarezzato. Anche la Madonna non capiva. Perché lei, in quel momento, ha ricordato quello che l’Angelo le aveva detto: “Egli sarà Re, sarà grande, sarà profeta…”; e dentro di sé, sicuramente, con quel corpo così ferito tra le braccia, con tanta sofferenza prima di morire, dentro di sé sicuramente avrebbe avuto voglia di dire all’Angelo: “Bugiardo! Io sono stata ingannata”. Anche lei non aveva risposte.

Noi possiamo chiedere al Signore: “Ma Signore, perché? Perché i bambini soffrono? Perché questo bambino?”. Il Signore non ci dirà parole, ma sentiremo il Suo sguardo su di noi e questo ci darà forza.

Non abbiate paura di chiedere, anche di sfidare il Signore. “Perché?”. Forse non arriverà alcuna spiegazione, ma il Suo sguardo di Padre ti darà la forza per andare avanti. Non abbiate paura di chiedere a Dio: “Perché?”, sfidarlo: “Perché?” Sempre siate con il cuore aperto a ricevere il Suo sguardo di Padre. L’unica spiegazione che potrà darti sarà: “Anche mio Figlio ha sofferto”.

Ma quella è la spiegazione.

 E’ la cosa più importante. E’ lo sguardo. La vostra forza è lì: lo sguardo amoroso del Padre”.

29 maggio 2015, incontrando alcuni genitori a casa Santa Marta

Queste parole, e i gesti che le hanno accompagnate, raccontano il magistero della Chiesa, e del Papa, sulla fragilità. Il mistero della forza della fragilità. Dell’amore che vince la morte. E richiede anche gesti concreti, politiche concrete, impegni concreti.

Anche su questo il magistero del Papa e della Chiesa è netto.

Reclama il diritto alla cura.

“Il segreto della vita – spiega Papa Francesco – ci è svelato da come l’ha trattata il Figlio di Dio che si è fatto uomo fino ad assumere, sulla croce, il rifiuto, la debolezza, la povertà e il dolore (cfr Gv 13,1). In ogni bambino malato, in ogni anziano debole, in ogni migrante disperato, in ogni vita fragile e minacciata, Cristo ci sta cercando (cfr Mt 25,34-46), sta cercando il nostro cuore, per dischiuderci la gioia dell’amore”.

Cfr. commento al comandamento “Non uccidere” nella udienza generale del 10 ottobre 2018 https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2018/documents/papa-francesco_20181010_udienza-generale.html

Per questo vale la pena curare la vita, ogni vita?

“Perché ogni uomo vale il sangue di Cristo stesso (cfr 1 Pt 1,18-19). Non si può disprezzare ciò che Dio ha tanto amato!”.

Un legame profondo lega dunque il discorso sulla fragilità a quello sull’amore. E quello sull’amore a quello sulla giustizia. Il diritto ad essere curati con il dovere di garantire l’accesso alle terapie essenziali o necessarie. Soprattutto nei Pasi più poveri, dove si muore per niente; o nel caso di malattie rare, po dei cosiddetti farmaci orfani; perché ogni vita vale. Il suo valore è infinito.

“La vita – ci ricorda il Papa – è aggredita dalle guerre, dalle organizzazioni che sfruttano l’uomo, dalle speculazioni sul creato e dalla cultura dello scarto, e da tutti i sistemi che sottomettono l’esistenza umana a calcoli di opportunità, mentre un numero scandaloso di persone vive in uno stato indegno dell’uomo. Questo è disprezzare la vita, cioè, in qualche modo, uccidere”.

Cfr. commento al comandamento “Non uccidere” nella udienza generale del 10 ottobre 2018

“Un bimbo malato è come ogni bisognoso della terra, come un anziano che necessita di assistenza, come tanti poveri che stentano a tirare avanti: colui, colei che si presenta come un problema, in realtà è un dono di Dio che può tirarmi fuori dall’egocentrismo e farmi crescere nell’amore. La vita vulnerabile ci indica la via di uscita, la via per salvarci da un’esistenza ripiegata su sé stessa e scoprire la gioia dell’amore”.

Cfr. commento al comandamento “Non uccidere” nella udienza generale del 10 ottobre 2018

La cura è la via. La cura amorevole, senza la quale la cura medica è claudicante. La cura integrale, la cura giusta, che riguarda la scienza, la medicina, ma che va intessuta di amore; e che coinvolge dunque anche il modo in cui concepiamo le nostre relazioni, l’economia, il lavoro, la pace.

È l’amore che tutto lega perché …

“nelle dinamiche esistenziali tutto è in relazione, e occorre nutrire sensibilità personale e sociale sia verso l’accoglienza di una nuova vita sia verso quelle situazioni di povertà e di sfruttamento che colpiscono le persone più deboli e svantaggiate.

Se da una parte «non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano […] quando non si dà protezione a un embrione umano» (Lett. enc. Laudato si’,120), dall’altra parte la vita umana stessa è un dono che deve essere protetto da diverse forme di degrado (Ibidem 5). Infatti, dobbiamo constatare con dolore che sono tante le persone provate da condizioni di vita disagiate, che richiedono la nostra attenzione e il nostro impegno solidale”.

Cfr discorso ai partecipanti al Convegno dei Centri di Aiuto alla Vita -6 novembre 2015 –www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/november/documents/papa-francesco_20151106_centri-aiuto-alla-vita.html

E quanto alla salute, come disse il Cardinale Martini

“Non si può pensare alla sanità come azienda, alla salute come prodotto, al paziente come cliente … ciò significa recuperare e rilanciare la soggettività della società, incoraggiando e sostenendo la responsabilità delle persone, singole o aggregate, affinché la società civile abbia a esprimersi come forza autonoma rispetto sia allo Stato sia al mercato”.

Cfr discorso su “L’etica dello stato sociale”, tenuto alla Sapienza di Roma il 24 novembre 1999

L’amore è, nella cura intesa così, la chiave del mistero della vita. L’unico antidoto alla morte e alla ingiustizia. L’unico rimedio al dolore laddove la cura non può curarlo. L’unica strada alla felicità che reclamiamo nutrendola troppo spesso di egoismi e di rancori.

Ci sarebbe a questo punto, concludendo, da domandarsi ancora. E la morte? La morte che abbiamo cacciato dai nostri orizzonti? La morte fa parte della vita.

È della vita il passaggio forse più difficile. Che proprio per questo ha bisogno di essere accompagnato e non rimosso. In qualsiasi momento delle nostre vite essa accada.

Questo accompagnamento – che richiede sapere medico, discernimento sulle cure mediche proposte e condivisione spirituale – non riguarda solo chi è fragile, ma anche chi gli sta vicino. Chi amando l’altro, il figlio, il padre, la madre, l’amato, l’amata, l’amico, l’amica, non riesce a comprendere il perché di questa sofferenza.

Di chi vede nel paziente un altro sé stesso. Di chi pensa pensa il concetto di salute in un’ottica integrale, che abbraccia tutte le dimensioni della persona.

“In una società che rischia di vedere i malati come un peso, un costo – dice papa Francesco – occorre rimettere al centro ciò che non ha prezzo, non si compra e non si vende, cioè la dignità della persona. Le patologie possono segnare il corpo, confondere i pensieri, togliere le forze, ma non potranno mai annullare il valore della vita umana”. Il diritto alla salute è un diritto fondamentale. Sempre. Non può ridursi a un si salvi chi può. E allora “occorre lavorare perché tutti abbiano accesso alle cure, perché il sistema sanitario sia sostenuto e promosso… Tagliare le risorse per la sanità è un oltraggio all’umanità”.

Apertura dei lavori – Donatella Pacelli professoressa Lumsa di Roma, vicepresidente Fondazione Alessandra Bisceglia

Donatella Pacelli, professore ordinario all’Università Lumsa di Roma, vicepresidente Fondazione Alessandra Bisceglia

Apertura dei lavori

“Benvenuti a questo evento, che ormai per noi è un appuntamento molto sentito e che è arrivato alla sua sesta edizione. Un appuntamento con cui la Fondazione ViVa Ale, l’Università Lumsa di Roma e l’Ordine dei Giornalisti portano avanti un progetto condiviso, teso a valorizzare il giornalismo che ha il coraggio di fare comunicazione sociale; che ha il coraggio di farlo declinando il grande tema della comunicazione sociale con particolare attenzione al tema delle malattie rare: quelle patologie che hanno conosciuto molte persone  e che non sono più tanto rare, ma che hanno bisogno di formazione e di divulgazione, per far anche capire che forse siamo pronti a un approccio culturale diverso rispetto alla malattia. È un progetto che unisce in un continuo sinergico, il momento della formazione a quello del riconoscimento e della valorizzazione dei giovani e meno giovani. Ringraziamo veramente tanto i giovani che hanno risposto a questo bando, perché hanno colto, nell’ormai grande panorama dei premi giornalistici, l’aspetto, la specificità e l’identità di questo particolare concorso. Un concorso che entra nel cuore della comunicazione sociale con un’attenzione mirata a migliorare le condizioni di chi vive una patologia rara e che lo fa  – come mi piace dire – con narrazioni che raccontando i disagi che esistono, le barriere fisiche e simboliche che ancora dobbiamo superare, ma anche con contro-narrazioni che fanno un po’ di luce su cosa sta cambiando e sui traguardi raggiuti anche in termini di empowerment da parte di chi vive nel disagio, di tutto ciò che concorre a non aggiungere disagio al disagio. Stiamo parlando di un momento formativo importante, che precede il conferimento del premio e dei riconoscimenti speciali, che ci fanno capire che abbiamo un giornalismo italiano che gode di una buona salute. Forse di alcune di queste testate si parla poco. Ma ci sono. E nel momento di conferire i premi ci fa piacere testimoniare anche il fatto che non ci sono solo giovani agli albori della loro professione, ma anche rappresentanti di un giornalismo più strutturato. La parte iniziale (del corso-convegno, ndr.) sarà dedicata ad introdurre i nostri temi con un momento di alta formazione.  Ringrazio veramente tutti i relatori e giornalisti che hanno accolto il nostro invito ad essere presenti in questo convegno e a condurci in un dibattito che penso sia veramente molto interessante. Nei nostri convegni abbiamo già messo a fuoco la difficoltà di trovare le parole giuste, di dialogare tra vecchio e nuovo giornalismo, di mantenere questo ethos e di andare a divulgare e a toccare con mano le situazioni di cui si vuole parlare. Oggi non potevamo non parlare dei problemi che si affrontano, con i temi della comunicazione sociale e della malattia in particolare, in un contesto difficile che ha alterato la nostra vita e che ha messo anche in subbuglio anche le agende giornalistiche: crisi su crisi, pandemia e guerra non possono non impattare su una trattazione giornalistica che per lasciare spazio ai fragili deve sicuramente fare un importante lavoro aggiuntivo. Crediamo molto nella formazione e nella divulgazione. Siamo in un Ateneo e quindi sentiamo l’importanza di mantenere l’insegnamento di Alessandra nella formazione, nella divulgazione, nell’informazione. Le immagini che abbiamo visto narrano tanto di lei. Ma finito il video, quello che ci rimane è una luce, una luce profonda, la luce del suo sguardo, la luce e la forza del suo sorriso. Ecco, questa luce non si è dispersa. Questa luce si è riversata nel lavoro di una Fondazione che grazie, in primis, alla splendida famiglia di Alessandra (Raffaella, Antonio, Nicola e Serena) non ha disperso questo insegnamento. Grazie a tutti i soci fondatori e grazie in particolare alla prima presidente della nostra Fondazione, che con l’intelligenza creativa, l’intuito a sensibilità che la contraddistingue ha capito che una Fondazione nel nome di Alessandra poteva fare tante cose e poteva volare alto !!! Sono 12 anni – e non senza difficoltà – che la nostra Fondazione vola alto !!! E mi fa piacere dirlo come relatrice di Alessandra e come vicepresidente di questa Fondazione, che grazie ad Alessandra è diventata la famiglia di noi tutti. Il materiale divulgativo che trovate anche nelle varie sacchette (distribuite in sala, ndr.) e comunque nel sito (della Fondazione Alessandra Bisceglia, ndr.) vi fa capire quante cose importanti faccia la Fondazione, che nasce per sostenere la ricerca sulle patologie rare, sotto a guida ineguagliabile, sapiente e generosa del nostro direttore scientifico Cosmoferruccio De Stefano. Ma il lavoro poi è cresciuto. Ed è cresciuto in un approccio interdisciplinare che fa anche formazione nelle scuole, che fa accompagnamento per le famiglie che si trovano a vivere queste difficoltà, grazie ad una équipe molto articolata. In tutto questo grande lavoro, il Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia per la comunicazione sociale occupa un posto importante per due motivi. Il primo, perché Alessandra era una giovane donna giornalista che ci ha creduto tanto e che ha fatto del suo talento un’affermazione personale importante. L’abbiamo vista, a neanche 28 anni, raggiungere traguardi importanti per come si è impegnata nello studio e nella professione: una professione che metteva insieme il giornalista e l’autore. Il secondo motivo di importanza, è che questo Premio dimostra che i temi difficili della comunicazione sociale, che incrocia il vero grosso tema della malattia, non possono essere affidati solo alla divulgazione scientifica. Grazie a tutti coloro che sono qui, grazie a chi ha risposto al bando. La partecipazione sempre crescente ci fa capire che siamo sulla buona strada. E abbiamo avuto contributi di grande sensibilità sia dai premiati che dai non premiati. Grazie ai relatori, grazie agli illustri presenti a questo primo tavolo di saluti. Cedo subito la parola al nostro Magnifico Rettore, il professor Francesco Bonini, che ringrazio anche a titolo personale, perché ha sempre sostenuto con grande passione e commozione quello che noi facevamo nel nome di Alessandra. Cominceremo con il professor Bonini, seguirà la professoressa Lorenza Lei, presidente onorario della Fondazione, che ringrazio anticipatamente. Saluto anche il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani, nuovo compagno di viaggi, che colgo l’occasione di ringraziare subito, perché abbiamo veramente bisogno di un sostegno ampio e di articolare il nostro lavoro su vari fronti. Chiaramente, non posso non ringraziare gli amici dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio e nazionale, come Paola Spadari, nostra grande amica, tanto vicina alla Fondazione. Grazie a tutti !!!”.

VI edizione del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia: il 28 settembre alla Lumsa di Roma il gran finale con la premiazione

21 settembre 2022

COMUNICATO STAMPA

 VI edizione del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia: il 28 settembre alla Lumsa di Roma il gran finale con la premiazione

 Si inizierà alle 14.30 con i saluti istituzionali e con il convegno “Fragili più fragili. Raccontare le malattie rare al tempo della pandemia e della guerra”. Dalle 18 la consegna dei premi e dei riconoscimenti speciali

 ROMA – Sostenere l’impegno dei giovani giornalisti nella diffusione di una cultura di solidarietà, integrazione e inclusione, promuovere una corretta informazione sulle malattie rare e sull’equità dell’accesso alle cure, alimentare proficui dibattiti e riflessioni su tematiche sociali e sistema sanitario. Sono gli obiettivi del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia per la comunicazione sociale, il concorso rivolto ai giornalisti di non più di 35 anni e agli studenti delle scuole di giornalismo, che è giunto quest’anno alla sesta edizione. Il 28 settembre – con inizio alle ore 14.30 nell’Aula Magna dell’Università Lumsa di Roma – si terrà l’evento conclusivo con la premiazione dei vincitori delle tre sezioni: Web; Radio-Televisione; Agenzie di stampa, quotidiani, periodici.

Il concorso è dedicato alla memoria di Alessandra Bisceglia, giovane giornalista lucana scomparsa prematuramente il 3 settembre 2008, all’età di 27 anni, in seguito ad una grave patologia legata a una malformazione vascolare rarissima. A promuovere il Premio Giornalistico, che diventa di anno in anno più importante e prestigioso, la Fondazione intitolata ad Alessandra, in collaborazione con l’Università Lumsa e con il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti.

La cerimonia di premiazione verrà preceduta, come di consueto, da un corso-convegno che garantirà ai partecipanti l’acquisizione di crediti per la formazione continua dei giornalisti e che potrà essere seguito anche in diretta streaming sul canale YouTube della Fondazione Alessandra Bisceglia. Tema scelto quest’anno, “Fragili più fragili. Raccontare le malattie rare al tempo della pandemia e della guerra

Si inizierà con i saluti istituzionali della vicepresidente della Fondazione ViVa Ale, Donatella Pacelli (Università Lumsa), del rettore della Lumsa, Francesco Bonini, della presidente onoraria della Fondazione, Lorenza Lei, del presidente di Farmindustria Marcello Cattani e dei presidenti dell’Ordine dei Giornalisti nazionale e del Lazio, Carlo Bartoli e Guido D’Ubaldo. Il convegno sarà moderato dal Capo Ufficio Stampa dell’Istituto Superiore di Sanità, Mirella Taranto. Interverranno Paolo Ruffini (prefetto del dicastero per la Comunicazione della Santa Sede), Andrea Vianello (direttore Radio 1), Fabio Zavattaro (condirettore del Master in Giornalismo della Lumsa), Andrea Garibaldi (giornalista e socio fondatore di ViVa Ale), Vincenzo Morgante (direttore di TV2000) e Roberto Natale (Rai per la Sostenibilità). Dopo i relatori sarà la volta degli ospiti, con Franco Di Mare (Rai 3), Laura Pertici (La Repubblica), Roberto Giacobbo (giornalista e conduttore televisivo), Paola Severini Melograni (conduttrice Rai). Intorno alle 18, la consegna dei premi e dei riconoscimenti speciali, che sarà condotta dal lucano Oreste Lo Pomo, caporedattore centrale della Tgr Campania. Chiuderà la serata, con un suo intervento, la presidente della Fondazione Alessandra Bisceglia ViVa Ale Onlus, Serena Bisceglia.

Intervista ad Eleonora Panseri

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È sicuramente una sfida, nella quale, tuttavia, vale sicuramente la pena provare a imbarcarsi. Essere giornalisti significa anche mettersi alla prova ogni giorno per migliorare costantemente nella professione.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Mi ha molto colpito la storia di Giusy Fabio, attivista per il riconoscimento della fibromialgia, patologia fortemente invalidante ma non riconosciuta in Italia. Sono rimasta impressionata dalla sua determinazione e dalla sua voglia di non arrendersi di fronte alle difficoltà.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Credo che la vera “informazione” sia quella che, come da etimologia della parola, dà forma alle società in cui viene diffusa. Tutto può potenzialmente essere “informazione” ma credo che la buona informazione sia quella che pesa positivamente sulla vita delle persone.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Penso che alla comunicazione sociale non venga dato il giusto spazio e che il poco che riceve spesso gli venga dato in maniera strumentale. Servono sicuramente parole “giuste”, sia per la delicatezza di alcuni temi che per correttezza nei confronti dei lettori che meritano di essere “educati” a certi argomenti.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non necessariamente. Alcune notizie meritano di essere riportate e ricordate a più riprese, a prescindere dalla loro “freschezza”, soprattutto se si tratta di notizie che raccontano problemi rimasti irrisolti.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Credo che oggi si pensi molto di più al guadagno piuttosto che agli interessi della comunità e al rispetto nella trattazione di alcuni argomenti.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Significa riuscire a mettersi sempre al servizio del lettore e, nel caso in cui si raccontino storie delicate, delle situazioni di cui si scrive. Bisogna essere rispettosi, accertandosi, nei limiti del possibile, della correttezza delle informazioni che si stanno riportando.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Il Premio è stato promosso dalla scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Alcuni colleghi hanno partecipato l’anno scorso e quindi per questa edizione ho deciso di presentare il lavoro che, insieme a una collega, abbiamo realizzato.

Intervista a Oriana Gionfriddo

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Certamente è un impegno importante non solo per il tema specifico, ma anche per il registro linguistico da utilizzare che dal mio punto di vista non può essere quello degli argomenti trattati dal resto delle rubriche giornalistiche.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Non riesco a fare un “podio”. Posso dire che entrambe mi hanno colpito perché alcuni aneddoti raccontati dagli intervistati mi hanno fatto tornare alla memoria la mia infanzia, uno in particolare: la mamma che racconta i tentativi di autonomia del figlio autistico. Lei che guarda da lontano il figlio che va a comprare il panino e il proprietario del market – avvisato telefonicamente – lo aspetta davanti l’ingresso. Stessa cosa che faceva la mia famiglia quando io ero bambina. Ecco, può sembrare banale ma quella sensazione mi ha calata dentro la storia.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Informazione è tutto: cronaca, politica, reportage. Quest’ultimo, però, secondo me, è il giornalismo più sincero

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

No, secondo me non esistono. Il mio motto è “scrivi la frase più sincera che sai”

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

No, devono essere vere

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Le testate, soprattutto online, vivono troppi problemi economici e pian pian si stanno trasformando in prodotti commerciali. Il problema, però, non è certo dei colleghi giornalisti o degli editori, ma di un sistema di informazione che, diventando gratuito, non ha saputo dare valore al mestiere di giornalista

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere gli occhi e le orecchie degli altri

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Sui social

Intervista a Marco Di Vincenzo

1.È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È una grande e bella sfida, direi. Sensibilizzare l’opinione pubblica su diversi temi, raccontando la vita e le storie delle persone, credo sia una delle cose più appassionanti che un giornalista possa fare.

 2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia di Giulia Vernata, che ho raccontato nel servizio inviato per il concorso, è una delle più belle che ho avuto la fortuna di incontrare. Una ragazza di appena 22 anni che, sofferente sin dalla nascita per una forma piuttosto aggressiva del morbo di Chron, ha trovato nello sport la sua ragione di vita. Durante l’intervista, mi ha raccontato che i medici le avevano dato una prognosi di soli 3 o 4 anni di vita: un colpo durissimo per una ragazzina così giovane. Eppure, ha raccontato che la forza di volontà e la passione l’hanno aiutata a superare tutto. “È la mia vita e mi rende felice”, mi ha detto. Lo sport è stato più forte del dolore e della malattia.

 3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Valgono le regole d’oro per il buon esercizio del diritto di cronaca: verità, continenza, pertinenza. Secondo me bisogna raccontare tutto quello che può interessare davvero il pubblico e tutto quello che può contribuire a migliorare la società, sempre nei limiti del buon gusto e della verità. Occorre, poi, che sia dato più spazio alla buona informazione, raccontando tutti i risvolti positivi delle vicende e mettendo in luce le soluzioni, non solo i problemi.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La Comunicazione Sociale oggi dovrebbe trovare ancora più spazio sulle testate, specialmente in Italia. In un periodo come questo, dove i giornali e le tv sono inondati dalle notizie in tempo reale sui numeri della guerra in Ucraina e della pandemia, talvolta sarebbe bene ridurre la velocità, fermarsi e riflettere, raccontando anche il lato buono delle cose. Bisognerebbe lasciare più spazio e tempo a quello che viene chiamato constructive journalism. Come detto, non bisogna parlare solo di fatti negativi, ma anche raccontare come le persone, le istituzioni e le comunità agiscono per dare risposta ai problemi sociali. Bisogna raccontare di più il buono e il bello che c’è.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non per forza. Personalmente sono contrario all’approccio da breaking news a cui, sempre più spesso, ci stiamo abituando. Prima le tv all news e ora le notifiche push sugli smartphone ci hanno costretto a rincorrere a tutti i costi la notizia dell’ultima ora. Una gara insensata a chi arriva prima. Penso che sia  bene rallentare e trovare quelle notizie – non per forza nuove – che possono contribuire a renderci persone migliori.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Le testate, oggi, sono sempre più simili a prodotti commerciali, è vero. Credo che sia un effetto, ahinoi, della crisi dell’editoria – soprattutto della carta stampata – e ai problemi legati all’economia del periodo storico che stiamo vivendo. Questo non significa, però, che non esistano giornali o tv indirizzati alla funzione di servizio pubblico.

 7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Per me, essere un buon giornalista significa raccontare le storie delle persone, facendo emergere e illuminando il lato positivo che c’è nella società. Essere un buon redattore significa anche aiutare e stare vicino alla gente. Credo che un giornalista abbia una funzione sociale importantissima, che molto spesso non gli viene riconosciuta. Anzi, talvolta la sua figura è vista in malo modo o del tutto screditata. Non dovrebbe essere così. Il giornalismo non è solo il cane da guardia della democrazia, come si dice, ma anche linfa vitale per il buon funzionamento di una società.

 8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite il web, attraverso il sito del Federazione Nazionale della Stampa Italiana.