1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?
Ne sono venuto a conoscenza navigando sul sito del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, che consulto spesso. Mi è subito sembrato un ottimo modo per portare in luce le troppe difficoltà con cui, ogni giorno, devono fare i conti tutte le persone affette da disabilità. Barriere culturali e architettoniche che, soprattutto noi operatori della comunicazione, abbiamo il dovere (se non altro morale) di contribuire ad abbattere con il nostro lavoro, i nostri articoli, le nostre interviste. Raccogliamo le testimonianze per offrirle a lettori, telespettatori e ascoltatori. Farsi da tramite tra i soggetti diversamente abili e l’opinione pubblica significa rendere partecipe la comunità di una serie di criticità che, se ignorate, rischierebbero di passare in sordina, soffocando i diritti dei soggetti in questione. Penso che premiare il lavoro svolto dai colleghi in un ambito così delicato sia un modo per plaudere al coraggio e alla voglia di andare avanti degli uomini e delle donne che trovano voce anche attraverso il nostro lavoro. Farlo nel nome di Alessandra Bisceglia, incredibile esempio di umanità e forza di volontà, credo sia stata una scelta giusta oltreché doverosa.
2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?
Come in tutti gli eventi, dipende dalla risonanza mediatica riservata all’iniziativa. In gergo si dice che “tutto fa brodo” ed è vero. Ma se la minestra non viene servita al commensale, nonostante la dedizione dei cuochi, nessuno ne potrà mai assaporare la qualità, interessandosi alla relativa preparazione. Un Premio giornalistico ha sicuramente un grande valore per gli addetti al settore; la vera sfida è riuscire a suscitare qualcosa anche al di fuori della cerchia professionale, perché l’opinione pubblica possa “gustare” le tematiche affrontate, interrogandosi sulle “ricette” da poter realizzare anche a casa. E il tema della disabilità non fa eccezione.
3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?
In genere quelle legate a casi di cronaca nera, perché sono le storie terribili e dalla straordinaria tragicità capitate a persone comuni, che potremmo essere noi stessi, un nostro parente, un amico o un vicino. Eventi che sentiamo sempre lontani da noi, come se non ci riguardassero. Sono fatti in cui, malgrado l’approccio professionale, non si riesce a restare completamente distaccati, rendendo inevitabile una riflessione e la volontà di fare sì il nostro lavoro, ma con l’imprescindibile tatto che ogni evento tragico impone. Specialmente nel raccogliere le testimonianze e, con esse, il dolore dei protagonisti o delle persone a essi vicine.
4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?
Non credo ci sia una “ricetta”, quanto piuttosto una forma di empatia individuale, variabile da giornalista a giornalista. Un limite che ognuno di noi, nel lavoro come nella vita, si impone e decide di non superare. Raccontare i fatti in modo oggettivo e ascoltare l’interlocutore senza insistere sui particolari più dolorosi sarebbe già una bella “dotazione di base”. Lo scoop non si fa sulla sofferenza altrui, ma sulla capacità di un giornalista di approdare laddove nessun altro era mai arrivato.
5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?
Le uniche barriere sono state quelle imposte dalla mia coscienza. Il lavoro mi ha portato a raccontare diverse storie di sofferenza: donne vittime di violenza, disabili talvolta dimenticati dalle istituzioni, reati commessi da giovanissimi (in alcuni casi minori). Nessuno mi ha mai detto “questo puoi scriverlo” o “questo non raccontarlo”. Oltre alla deontologia professionale, che già disegna un recinto di regole entro cui potersi muovere, tutto il resto dipende dalla sensibilità e dalla correttezza di chi fa questo lavoro. C’è chi racconta la sofferenza senza farsi troppi scrupoli, purtroppo a volte premiato anche dall’opinione pubblica; e chi invece si accontenta di fare bene il suo lavoro, anche a beneficio dei soggetti raccontati, senza preoccuparsi di numero di copie vendute o dello share.
6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?
Dà spazio, ma non adeguatamente. Le tematiche sociali spesso riguardano argomenti che in molti non avvertono sulla propria pelle e che non catturano l’attenzione, poiché non rispondono alla logica delle tre “S”: sesso, sangue e soldi. Logica che rischia di soppiantare la regola delle cinque “W”. Anche nel caso della disabilità, purtroppo, i soggetti interessati sono quelli che vivono la problematica in prima persona, i volontari delle associazioni operanti nei diversi territori e pochi altri. Il giornalismo deve occuparsi di ciò che è di pubblico interesse e se l’interesse sulle questioni sociali non è molto elevato credo non sia esclusivamente colpa dell’informazione. Bisognerebbe insistere con le iniziative di sensibilizzazione, come, per esempio, gli incontri nelle scuole, per costruire una società più consapevole sin dalla tenera età.
7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?
La questione è complessa e non può ridursi a un duello tra “Apocalittici e integrati”, per dirla con Eco. Tutto dipende da come usiamo l’intelligenza artificiale. Se la dominiamo, utilizzandola come mero strumento al servizio del nostro lavoro, allora può essere sicuramente un valore aggiunto, in grado di rispondere alla moderna logica del “fast journalism” senza compromettere la qualità dei prodotti editoriali. Se invece ci facciamo dominare da essa, demandando a una macchina il compito di pensare e agire al posto nostro, allora sarà un rischio non indifferente per la comunicazione in generale, non soltanto sociale. Bisogna stabilire delle regole comuni per capire fin dove affidarsi all’IA e dove, invece, è opportuno l’intervento della persona. Nessuna rivoluzione tecnologica potrà mai creare qualcosa in grado di pensare e agire secondo coscienza; per far questo, la macchina perfetta c’è già: l’essere umano.
8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?
Non essere mai sicuro di esserlo, ma provare a diventarlo con tutte le forze. Studiare, informarsi, scavare, porsi e porre sempre domande, avere poche certezze e approcciarsi a ogni situazione con umiltà, senza presumere di sapere, affidandosi ai più esperti e fidandosi dei loro consigli. Mantenere buoni rapporti con i colleghi e le fonti, senza mai perdere di vista lo spirito solidale e il rispetto verso il pubblico. Penso al giornalista come a una persona perennemente imprigionata nell’età dei “Perché?”, che, se smette di crescere e imparare, smette di essere un professionista.