Intervista a Francesco Moria

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono venuto a conoscenza del Premio attraverso i social (Facebook, in particolare) e ho deciso così di approfondire perché incuriosito. Ho trovato un’iniziativa nobile, decisa a promuovere un tipo di giornalismo per cui nutro profondo rispetto come quello del racconto del sociale, dell’integrazione e delle fragilità e del mondo, spesso poco conosciuto, che lo circonda. Ho scoperto anche così la storia di Alessandra Bisceglia e della Fondazione a lei dedicata. Questo Premio è solo una parte della straordinaria eredità che ci lascia e di cui i partecipanti si fanno in parte anche interpreti: la voglia di vivere, raccontare e seguire la propria vocazione di una giovane giornalista, sbocciata nell’attenzione per temi sociali così importanti.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

La forma del “Premio” può essere un’ottima occasione per attirare l’attenzione di giornalisti di diverse età, ma anche differenti provenienze territoriali, di conoscenze e di formazione. I prodotti realizzati sono preziose testimonianze di realtà e storie di vari livelli, ma che nascondono un lavoro quotidiano spesso poco conosciuto, talvolta persino dato per scontato. Il giornalismo può diventare quel megafono in grado di far conoscere tali esperienze a un pubblico ancora più vasto, seminando potenziali fiori che potrebbero sbocciare anche in altre realtà.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Anni fa, cominciai a seguire per MondoSportivo le storie di alcuni atleti bielorussi che stavano subendo arresti e torture in patria per la loro partecipazioni alle manifestazioni contro il presidente Lukashenko, in una fase in cui il governo aveva deciso di stringere sempre di più gli spazi della libertà di espressione. Rimasi colpito dalla storia Rastislau Stefanovich, un giocatore di football americano dilettantistico che aveva partecipato alle proteste in maniera pacifica, ma che era stato arrestato. La moglie ne ha raccontato la storia che ho provato a ricostruire, cercando di dare aggiornamenti quando possibile. Attraverso l’associazione “Bielorussi in Italia”, che si è occupata di sensibilizzare sulle violazioni dei diritti umani in patria, ho aderito all’iniziativa “adotta un prigionieri”, per raccontarne anche sui social la storia e provare ad avere uno scambio epistolare: Rastislau era il mio destinatario.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Senza scadere nel pietismo, la sofferenza andrebbe raccontata con cura e rispetto della dignità della persona e di chi ne condivide la vita ogni giorno (per esempio, i familiari). Diventa quindi fondamentale studiare, imparare a utilizzare i termini giusti e scientifici, per permettere una comprensione chiara e completa a tutti. Trovo utile, per esempio, dialogare con i soggetti interessati, cercare di capirne le sfumature dei loro pensieri, delle sfide, ma anche di cosa porta a vedere una luce di speranza ogni giorno.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

La barriera più importante che ho incontrato e incontro tutt’oggi la ritrovo nel momento in cui deve partire il racconto, e quindi la fase dell’incontro, per esempio quando mi reco in un ambiente ospedaliero, soprattutto nei reparti dove si affrontano ogni giorno malattie gravi. La sensazione di ritrovarsi in un ambiente di sofferenza diventa spesso molto forte e rischia di far perdere il bilanciamento nel farsi raccontare tutti gli elementi necessari poi per produrre una testimonianza oggettiva.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Sicuramente negli ultimi anni si è iniziato a dare maggiore spazio a realtà e iniziative sociali molto differenti tra loro, sia a livello nazionale che locale, riportando le voci di chi vive ogni giorno differenti situazioni di fragilità. A mio avviso, però, i media dovrebbero garantire una copertura maggiore delle differenti fragilità sociali, per dare voce a esperienze spesso anche molto innovative.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Come tutte le tecnologie passate, anche l’intelligenza artificiale in ambito giornalistico dovrà essere capita, controllata e normata. Nella comunicazione sociale, però, il valore aggiunto del racconto sta proprio nel recepire e comunicare le sfumature umane delle esperienze: la comprensione profonda di ciò che si vuol raccontare, la capacità di leggerne gli aspetti di dolore ma anche speranza restano aspetti puramente legati alla sensibilità umana, che sarebbe un errore sostituire con l’intelligenza artificiale. Non tutto, però, è da buttare via: la tecnologia può essere un utile alleato soprattutto nella fase di ricerca di ciò che si vuole raccontare, permettendo di raccogliere in poco tempo informazioni importanti anche quando provenienti da realtà lontane geograficamente.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

In un’epoca segnata dalla corsa alle notizie e dal clickbaiting, ritengo che un buon giornalista sia colui che torna a dare alla sua vocazione l’attenzione, l’impegno e il tempo necessari per accrescerla, migliorarla. L’attenzione ai dettagli, la voglia di indagare a fondo per dare voce a realtà nascoste, ma anche la curiosità di comprendere ciò che ancora non si conosce: sono tutti elementi che danno vita a un giornalismo attento, che non si accontenta della superficie, che sa utilizzare un linguaggio preciso e rispettoso della dignità umana. Il buon giornalista, insomma, diventa figura in grado anche di formare, ascoltatore attento e interprete di istanze spesso ignorate o dimenticate.

Intervista a Federica Nannetti

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono venuta a conoscenza del Premio quattro anni fa grazie al Master in Giornalismo dell’Università di Bologna, scuola che ho frequentato tra il 2019 e il 2021. Da allora ho continuato a seguire le attività della Fondazione e a partecipare alle varie edizioni del Premio.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Assolutamente sì. Probabilmente non sono mai abbastanza le occasioni e gli spazi dedicati alle tematiche sociali, dunque ogni occasione credo sia importante per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Inoltre, un Premio pensato anche e soprattutto per le nuove generazioni di giornalisti penso possa giocare un ruolo fondamentale nel futuro dell’informazione.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

È molto difficile individuare una storia in particolare; sono tante quelle che hanno saputo toccarmi nel profondo. Tutte hanno però un filo rosso che le accomuna, ovvero la forza, la disponibilità e la volontà di fare la propria parte per provare a garantire a tutti gli stessi diritti (sociali, economici, alla cura, all’istruzione, all’educazione).

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non penso, o almeno io ancora non l’ho trovata. Penso piuttosto ci sia un perimetro deontologico entro cui muoversi e una sensibilità personale che deve far tener conto di una certa soggettività del racconto della notizia o della storia.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Più che di barriere parlerei di sfide personali. Raccontare la sofferenza vuol dire, almeno dal mio punto di vista, farsene un po’ carico per restituirla in modo adeguato al lettore, senza pietismo ma anche senza eccessivo distacco.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Mai abbastanza, ma mi sembra di notare una maggior attenzione alla comunicazione sociale rispetto al passato, soprattutto in termini di sua considerazione: mi pare ci sia una presenza un po’ più trasversale e, dunque, una prospettiva diversa con cui leggere le vicende del mondo.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Come tutte le cose potrebbe avere risvolti sia positivi sia negativi; la sfida sarà gestirla. Al momento non nego diversi timori. Come ha detto Papa Francesco, affinché i programmi di intelligenza artificiale siano strumenti per la costruzione del bene e di un domani migliore, debbono essere sempre ordinati al bene di ogni essere umano. Devono avere un’ispirazione etica.

Intervista a Enrico D’Amo

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

La Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia, del cui ultimo biennio di formazione sono stato allievo, è sempre stata sollecita nel segnalarci iniziative – ancora poche, purtroppo – che promuovessero e valorizzassero il lavoro di giovani giornalisti praticanti. Quando sono venuto a conoscenza del bando di concorso del premio intitolato alla memoria della collega Alessandra Bisceglia, scomparsa alla stessa età che ho io oggi, avevo da poco terminato la stesura di un articolo-intervista sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale nel contrasto alle malattie rare. Pur nella sua brevità, si tratta di un lavoro che, per la delicatezza del tema, mi ha impegnato per alcune settimane, e mi ha da subito stimolato l’idea che la sua diffusione – grazie al premio – potesse trascendere la platea circoscritta di lettori del sito della Scuola, per cui era stato scritto.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Sicuramente sì. Qualsiasi iniziativa atta a promuovere il lavoro giornalistico capace di accendere l’opinione pubblica su tematiche sociali – Premi Giornalistici in primis, e specialmente se indirizzati anche ai giovani esordienti nella professione – non può che essere incoraggiato, in quanto contribuisce alla sensibilizzazione su questi temi.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ritengo di dover ammettere che la mia esperienza giornalistica è ancora troppo giovane per poter vantare il racconto e la condivisione di storie che mi abbiano segnato o che possano aver segnato i lettori. È pur vero che quando mi sono trovato a dar voce alla parabola esemplare di David, da vittima di gravi disturbi alimentari a promotore e animatore di iniziative di sensibilizzazione e prevenzione in materia di DCA, sono rimasto profondamento colpito dalla tenacia con cui un ragazzo poco più che ventenne ha saputo rialzarsi e, soprattutto, dalla lucidità e generosità con cui ha scelto di condividere con me un capitolo così delicato del suo passato.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Nel corso dei miei lunghi studi rigorosamente umanistici mi è stato insegnato che, almeno in ambito letterario, il puro realismo è un’illusione, e che è possibile tuttalpiù una rappresentazione della realtà. Ritengo che questo principio debba applicarsi anche e soprattutto alla sofferenza, il più soggettivo dei nostri stati emotivi. È pensabile rendere oggettivo e universale, di collettiva accessibilità, qualcosa che non solo è soggettivo per definizione, ma spesso criptico e indecifrabile per il soggetto stesso? La cosa più importante, a mio avviso, è dare alla sofferenza dignità di racconto, non censurarla, con la sensibilità e l’accortezza dovute, sforzandosi di non lasciarsi deviare da un coinvolgimento emotivo e lasciando che la sofferenza alimenti da sé il racconto di se stessa.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Di nuovo, temo che la mia esperienza circoscritta nel racconto giornalistico non mi consenta di rispondere in maniera del tutto consapevole. Quello che mi sento di dire è che anche laddove mi è capitato di avere la sensazione, se non il timore, di stare violando con il mio racconto della sofferenza altrui una sfera personale e protetta, sono stato rassicurato – finanche incoraggiato – nel mio compito di raccontare dalla genuinità e generosità di chi, la propria sofferenza, aveva scelto di condividerla con me, come fosse consapevole che il profitto che da quel racconto sarebbe derivato – a sé e ad altri – era superiore e più significativo del disagio provato nel raccontarla.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Mi sento di rispondere convintamente di sì, seppur forse con un filo di ottimismo. Le nuove nascenti forme del giornalismo e della divulgazione contemporanei si dimostrano particolarmente sensibili in questo senso, segnalandosi per approfondire con i propri fruitori temi di evidente rilevanza sociale. Inoltre, a nutrire il mio confessato ottimismo e a convincermi che queste tematiche siano destinate a conquistare sempre di più lo spazio che meritano nel racconto dei media, vi è il comprovato interesse di lettori e consumatori dell’informazione, soprattutto tra i più giovani, perché i temi sociali siano ancor più significativamente fatti oggetto di analisi e trattazione giornalistica, al pari di quelli di ordine politico o economico.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Come per la maggior parte delle cose, dipende dall’uso che se ne fa. Anzitutto una premessa: l’intelligenza artificiale – è sotto gli occhi di tutti – è già uno strumento al servizio dell’attività giornalistica, sia per quanto riguarda la raccolta delle informazioni sia per la loro elaborazione e distribuzione. Sofisticati software sono ormai in grado di scrivere in una manciata di secondi un testo che, per quanto perfettibile, richiederebbe a un giornalista qualche ora del suo lavoro. Tuttavia nella comunicazione sociale, probabilmente più che in qualsiasi altro ambito, risulta evidente come il valore di una singola storia non possa essere derubricato dalla tecnologia a semplice caso statistico, ma debba essere restituito nella sua complessità e unicità dal contributo originale e creativo della figura giornalistica.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Si potrebbe rispondere in un migliaio di modi diversi e non arrivare comunque a una definizione soddisfacente. Un buon giornalista, di certo, è colui – o colei – che ha ben chiaro che il proprio lavoro non è finalizzato a un beneficio personale, bensì a un profitto collettivo della società. In quest’ottica, predilige chiarezza ed essenzialità a virtuosismi di stile e si sforza di raccontare criticamente e con rigore il presente che lo circonda.

Intervista a Chiara Esposito

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono venuta a conoscenza del premio grazie a una comunicazione ricevuta dal master in giornalismo della Lumsa. Ho deciso di partecipare perché credo fortemente nel ruolo sociale del giornalismo, ma anche per mettermi in gioco con la produzione di un contenuto audio visivo.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Assolutamente sì, nella misura in cui consente di ottenere una maggiore cassa di risonanza a storie che altresì resterebbero sconosciute.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

L’anno scorso ho partecipato alla settima edizione del premio Bisceglia. Nel rispondere a questa domanda, sentivo che a segnarmi di più era stata la storia di Simone, il bambino malato di Sma protagonista dell’inchiesta con cui avevo deciso di concorrere. Oggi, invece, mi verrebbe da dire che è la storia di Emanuela – protagonista del video racconto con cui partecipo quest’anno – ad avermi segnata maggiormente.  Forse è proprio questo il bello di questo lavoro: scoprire realtà che mai avresti pensato di raccontare e che, alla fine, portano ogni volta a scoprire nuove parti di sé.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Più che di ricetta credo si possa parlare di buone regole: non enfatizzare il dolore con uno stile eccessivamente sensazionalistico e non indugiare in particolari irrilevanti e lesivi della dignità della persona.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Non ho mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza, ma spesso mi sono imbattuta in un naturale senso di protezione manifestato da parte di familiari, amici o associazioni nei confronti dei soggetti coinvolti nei miei lavori giornalistici.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

No. Tematiche delicate come quelle promosse dal premio Bisceglia non godono della giusta rappresentatività e sono spesso confinate in una sfera narrativa di pietismo e sensazionalismo, soprattutto in televisione.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Se limitato a compiti ripetitivi (come sintesi, traduzioni, ricerca), l’intelligenza artificiale può costituire un valore aggiunto al lavoro del giornalista, in termini di tempistiche. Nessun rischio può essere corso fin quando non si cade nella tentazione di rilegare la vera attività creativa di produzione e scrittura alla macchina. Che non potrà mai sostituire l’empatia e la sensibilità necessarie a questo lavoro.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere un buon giornalista significa riportare e raccontare storie e notizie in maniera fedele alla verità accertabile dei fatti, con precisione e rispettando le regole deontologiche, nonostante la fretta imposta dai tempi di lavoro. Tutto questo con uno stile e un linguaggio che sia in grado di catturare l’attenzione del lettore/ spettatore. Significa, anche, avere la consapevolezza di poter dare voce a chi altrimenti una voce non l’avrebbe e non dare mai per scontata questa possibilità.

Intervista a Chiara De Luca

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho letto del Premio sul sito dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e ho deciso di partecipare per mettermi alla prova e confrontarmi con altri colleghi.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Sì, certo. Ritengo che premi come questi dando visibilità a lavori già realizzati, stimolano i giornalisti a produrne altri alimentando così il dibattito pubblico.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia che mi ha segnato di più è stata quella raccontata nel servizio “Non è una regione per disabili”. Questa inchiesta, che è anche l’inchiesta candidata al premio, si concentra sui bambini con sindrome dello spettro autistico che non riescono ad accedere alle cure previste dal Servizio Sanitario Nazionale. L’argomento mi ha toccato profondamente, soprattutto nel vedere da vicino le immense difficoltà e le lotte quotidiane di queste famiglie per ottenere il supporto necessario. Raccontare le loro storie mi ha fatto capire quanto sia urgente sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere un cambiamento significativo su problematiche, come la disabilità e l’accessibilità, verso le quali c’è ancora tanto lavoro da fare.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Raccontare la sofferenza altrui non è mai semplice. Non credo possa esistere una formula standard, ma sicuramente quando un giornalista si trova a dover trattare argomenti che possono intaccare la sensibilità altrui, deve essere ancora più scrupoloso e attento nella verifica delle informazioni che intende diffondere. Immedesimarsi nelle storie che si raccontano, poi, può sicuramente dare al giornalista un’empatia tale da poter trattare l’argomento in maniera appropriata.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Fortunatamente non mi è mai capitato di incontrare ostacoli diretti. Spesso può succedere che le persone coinvolte nelle storie si siano dimostrate restie nel condividere le proprie emozioni, il che è comprensibile. In questi casi è importante saper trovare il giusto equilibrio tra la perseveranza e il rispetto dei confini personali.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Negli ultimi anni ritengo che ci sia stata molta più sensibilità verso le tematiche sociali, parlo in generale non solo nel giornalismo. E questo anche grazie ai social che permettono di condividere esperienze dirette e personali. Ovviamente a livello mediatico si può fare e si deve fare sempre di più per incrementare la copertura verso determinati argomenti.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale ha i suoi pro e i suoi contro. Se da una parte può facilitare il lavoro dei giornalisti, automatizzando processi macchinosi come per esempio l’analisi dei dati, dall’altra parte la cosa che mi preoccupa di più è che l’intelligenza artificiale possa ridurre la spontaneità nel racconto e privare il giornalista della sua vena creativa. Ma penso che questo timore faccia parte del cambiamento. D’altronde  anche quando ci fu l’avvento di Internet ci furono molte preoccupazioni, alla fine è andata bene. Ogni cambiamento deve essere visto come un’opportunità e quindi va capito in che modo sfruttarlo a proprio favore.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Anche in questo caso non esiste il manuale del buon giornalista, ma sicuramente quello che fa la differenza, oltre la precisione e l’accuratezza, è l’appassionarsi alle storie che si raccontano. Entrare in una storia non solo con la testa ma anche con il cuore secondo me fa la differenza.

Intervista a Chiara Dall’Angelo

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho saputo del Premio quando ho ricevuto una email dalla segreteria della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia. Ho subito deciso di partecipare perché la comunicazione sociale è un ambito che mi appassiona e trovo molto utile e soddisfacente raccontare storie che possano sensibilizzare l’opinione pubblica su questi temi. 

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Sì, personalmente ritengo che la comunicazione rivesta un ruolo fondamentale per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali. Per questo, il Premio Giornalistico Bisceglia contribuisce a selezionare e diffondere alcune storie con questo obiettivo.   

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia di Antonio Acciarino, con cui partecipo a questo premio. Sentire dal vivo il suo racconto mi ha impressionato molto: in particolare, ho apprezzato la calma e il sangue freddo con cui Antonio ha affrontato l’incidente che ha subito, e poi la determinazione e la voglia di vivere con cui è riuscito a rialzarsi e a ricominciare di nuovo. Trovo inoltre ammirevole il suo impegno nel divulgare la sua storia perché possa essere d’ispirazione e nell’allenare altri ragazzi disabili, dando loro fiducia e facendo riscoprire loro le infinite possibilità che la vita riserva a ciascuno di noi. 

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non credo che possa esistere una “formula magica” per raccontare la sofferenza, anche se ci sono sicuramente dei metodi e dei criteri da utilizzare. Penso che un ingrediente fondamentale sia l’empatia; poi non può mancare la flessibilità, per adattare il modo di raccontare alla storia, caso per caso, cercando di valorizzare il messaggio e i valori che il protagonista di quella storia porta con sé.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Talvolta la sofferenza può essere difficile da raccontare: una delle difficoltà è riuscire ad esprimerla in modo che le persone possano empatizzare, sentirsi coinvolte e quindi recepire meglio il messaggio che quella storia vuole trasmettere. Un’altra difficoltà per il giornalista o il comunicatore è quella di saper gestire a livello emotivo la sofferenza che alcune storie ed esperienze portano con sé, per poterla raccontare al meglio.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

A mio avviso no, si potrebbe dedicare molto più spazio a queste tematiche.  

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Dipende: da una parte può essere un aiuto nello svolgimento di alcuni compiti meccanici o ripetitivi che un giornalista si trova a fare, come la trascrizione di un’intervista telefonica. D’altra parte, però, per la comunicazione sociale sono indispensabili sensibilità ed empatia, capacità che solo un essere umano può avere e che non potranno mai essere sostituite da una macchina o algoritmo.    

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Sarebbe troppo lungo elencare tutte le caratteristiche necessarie per essere un buon giornalista. In sintesi, credo che i due valori fondamentali per esserlo siano due: la libertà e la verità. Un buon giornalista deve essere libero di raccontare le storie che ritiene interessanti senza condizionamenti esterni o interni alla redazione e fare tutto il possibile per accertare la verità e raccontarla. Anche quando questo può essere pericoloso o difficile.

Interviste a Alice De Luca e Lucrezia Goldin

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?
Siamo venute a conoscenza del Premio grazie a una segnalazione da parte della segreteria del nostro master di Giornalismo. Abbiamo deciso di partecipare perché abbiamo ritenuto che la storia che abbiamo raccontato potesse rispecchiare i valori che animano la fondazione Viva Ale e perché, occupandocene spesso, crediamo sia importante valorizzare i prodotti giornalistici che parlano di temi sociali. 


2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?
Siamo convinte che un premio giornalistico possa realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali. Mettendo in risalto e supportando la produzione di questo tipo di notizie, il premio Alessandra Bisceglia ne incentiva la scrittura e ne stimola la lettura.


3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?
La storia di Uroburo che abbiamo raccontato nell’articolo con cui ci siamo candidate ci ha colpite fin da subito. Incontrare di persona i protagonisti di questo progetto di inclusione, sentire raccontare gli ideali da cui sono spinti, le difficoltà che incontrano ogni giorno e le altrettante soddisfazioni che completano le loro giornate. Entrare, insomma, nella loro quotidianità e avere poi la responsabilità di raccontarla, è stata per noi una sfida stimolante sotto il profilo professionale e un’occasione arricchente sul piano personale.

 
4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?
Pensiamo che per raccontare la sofferenza non esista una ricetta precisa, ma che ci sia bisogno sicuramente di empatia, rispetto e umiltà. Queste componenti si declinano in modo diverso per ogni storia, perché il dolore è uno spazio che si apre nella misura in cui chi lo custodisce concede. Saper guardare senza morbosità dentro a queste aperture, che a volte sono solo spiragli, è imprescindibile per poter raccontare con dignità ciò che si vede.

 
5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?
Abbiamo incontrato molte difficoltà nel raccontare la sofferenza. Una delle più importanti è stata la selezione delle parole adeguate. Una difficoltà non solo semantica (trovare il giusto modo per esprimere una sensazione o un sentimento) ma anche lessicale (trovare la parola o combinazione di parole che descriva qualcuno in modo corretto, rispettoso e coerente con la percezione che quella persona ha di se stessa o con la modalità con cui vuole essere percepita da parte degli altri).


6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?
Riteniamo che il giornalismo moderno dedichi alle tematiche sociali uno spazio che  viene spesso saturato da alcuni filoni tematici specifici e maggiormente seguiti. Ci sono ambiti, più trascurati dall’informazione mainstream, che potrebbero essere raccontati con maggiore frequenza e accuratezza, come ad esempio il tema della malattia e le storie di inclusione sociale.

 
7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?
Guardiamo con fiducia all’avvento dell’intelligenza artificiale nel settore giornalistico. Siamo convinte che questa, come altre tecnologie, sia uno strumento e che, in quanto tale, la sua bontà dipenda dalla mano che lo usa. Non demonizziamo l’utilizzo dell’AI nell’informazione e anzi ne vediamo il grande potenziale, pur essendo consapevoli dei suoi rischi e stando in guardia rispetto alle sue derive.

 
8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere buone giornaliste significa, per noi, saper selezionare, ordinare e raccontare i fatti del mondo con la massima imparzialità e correttezza. Consapevoli del potere dell’informazione, la nostra missione è quella di esercitarlo con responsabilità, nel rispetto dei principi cardine della professione e in armonia con la nostra sensibilità personale.

Intervista a Viola Stefanello

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Me ne stavo interessando dal 2020, quando l’ho visto comparire per la prima volta in una newsletter dedicata alle opportunità per i giovani giornalisti in Italia. Stavo aspettando di scrivere un reportage che mi sembrasse all’altezza della qualità e degli obiettivi richiesti dal premio per poterlo fare, perché capita raramente che nel nostro paese venga premiato il giornalismo di persone interessate a determinate tematiche sociali, soprattutto se giovani.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Credo che il valore principale di iniziative come la vostra sia quello di ricordare che il giornalismo, alla radice, non è fatto per attirare click, “parlare alla pancia”, dare una versione semplificata della realtà, ma per raccontare un pezzettino dopo l’altro come il mondo funziona, in tutta la sua complessità. Sapere che un articolo informato e approfondito, scritto tenendo a mente la deontologia del mestiere, è stato premiato serve in primo luogo per ricordarci tra colleghi che fare questo tipo di giornalismo ha ancora senso e incoraggiarci ad andare avanti in questa direzione. Il fatto che le notizie sul premio vengano poi molto condivise, online e non, aiuta sicuramente ad attirare l’attenzione verso le nobili tematiche di cui gli articoli trattano.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

L’anno scorso sono stata una settimana in Brasile per raccontare la storia del Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra, che da quarant’anni adotta molti metodi di militanza diversi per proteggere il diritto dei contadini (spesso nullatenenti) di vivere una vita dignitosa grazie al frutto del proprio lavoro. Avere la possibilità di conoscere così da vicino la loro realtà materiale e le condizioni in cui si trova a esistere una larga parte silenziosa degli abitanti del sud globale mi ha aiutata sicuramente a guardare con occhi nuovi e più attenti anche le disuguaglianze presenti in Europa, e in Italia, e per questo sarò sempre loro grata.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non credo nelle ricette applicabili a priori a qualsiasi circostanza; quello che credo è che sia necessario approcciarsi alle situazioni di sofferenza con una mentalità aperta, consapevoli del fatto che le proprie conoscenze pregresse quasi sempre ignorano una parte importante della storia, e con un forte rispetto per il vissuto delle persone con cui ci si interfaccia. Devo ammettere che personalmente preferisco sempre cercare storie che, pur partendo da una situazione di sofferenza o disuguaglianza, contengono un elemento di “soluzione” – come è anche il caso del museo al centro del reportage con cui ho partecipato al premio. Credo che raccontare le strade intraprese o individuate dalle comunità di cui parlo sia un modo magnifico di restituire loro una centralità e una soggettività, ricordando che non sono soltanto persone che soffrono o subiscono disuguaglianze strutturali, ma prima di tutto esseri umani con una propria estrema forza e voglia di migliorare, anche nel piccolo, la situazione di tutti.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

A volte ci sono barriere pratiche: nel caso dei Sem Terra, per esempio, c’era prima di tutto la questione linguistica. Io non parlo portoghese e loro non parlano italiano; ci siamo trovati a metà con uno spagnolo spesso stentato. Al di là di questo, però, c’è la grande (ma non insormontabile) barriera della differenza: da giornalista temo sempre moltissimo la possibilità di non riuscire davvero a comprendere appieno l’entità della sofferenza dell’altro, il modo in cui quella sofferenza plasma la loro vita, ciò di cui avrebbero bisogno, e quindi di non riuscire a rendere loro giustizia.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

A mio parere, soltanto quando una tematica diventa per un motivo o per l’altro un tema di dibattito politico, come nel caso della questione migratoria, delle morti sul lavoro, delle discriminazioni nei confronti della comunità LGBTQ+. Anche in quei casi, però, al grande spazio che viene loro dedicato su siti, giornali e talk show corrisponde raramente un
interesse genuino verso le esperienze umane delle persone coinvolte, né la voglia di approfondire e smentire i pregiudizi.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Credo che i software di intelligenza artificiale possano al massimo fungere da aiutanti per alcuni tratti più meccanici e tediosi del lavoro giornalistico, come la trascrizione delle interviste. Per il resto, semplicemente non è possibile aspettarsi che l’AI svolga un lavoro comparabile a quello di un giornalista: sono modelli statistici che non possiedono qualità fondamentali come la sensibilità umana, né la capacità di distinguere il vero dal falso.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Riflettere quanto possibile la realtà oggettiva delle cose, raccontando storie che avvicinino i lettori a una maggiore comprensione di ciò che succede, lasciando a loro quanti più strumenti possibili per fare scelte informate a tutti i livelli della propria vita quotidiana. Se riusciamo a farlo con uno stile piacevole e che mantenga l’attenzione dei lettori, tanto
meglio.

Intervista a Valentina Panetta

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ne ho saputo sul sito dell’Ordine. Ho deciso di partecipare perché ci sono al centro tematiche che mi sono molto care,

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Assolutamente sì. Perché incentiva i giornalisti che si occupano di questi temi e vede riconosciuto il loro impegno.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Una matita tenuta stretta tra i denti per sottolineare le pagine di studio e una penna touch screen che scorre sullo smartphone, per dare sfogo alla sua creatività. Beatrice Di Livio, 27 anni, romana, è una tiktoker di successo e studentessa universitaria determinata a raggiungere i propri obiettivi. Vive la sua vita in sedia a rotelle da quando aveva 10 anni per una neuropatia ipomielinizzante. Una patologia genetica rara che le ha tolto gradualmente l’uso delle braccia e delle gambe, e che è ora il cavallo di battaglia delle sue battute più pungenti, tanto amate dai suoi 158 mila follower, che condivide con il fidanzato Gabriele. Ma non chiamatela ragazza speciale: “Mi dà fastidio quando lo fanno solo perché sono disabile, le persone sono speciali per altri motivi”.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Sì, quella di fuggire dal pietismo e dal sensazionalismo e raccontare la sofferenza attraverso le voci delle persone coinvolte.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Sì, la sofferenza difficilmente viene apprezzata dalle piattaforme. Si preferisce un tone of voice ottimista.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Si potrebbe senza dubbio fare di meglio.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Entrambe le cose. Aggiornare le proprie competenze è ormai una necessità.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Saper raccontare al pubblico nel rispetto dei principi deontologici una storia, un tema complesso con un linguaggio semplice. E fare luce su tematiche, come quelle sociali, spesso dimenticate.

Intervista a Oscar Maresca

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho letto la storia di Alessandra Bisceglia, della Fondazione e dei progetti portati avanti. Dopo alcune ricerche ho letto anche del Premio. Ho pensato fosse l’occasione giusta per poter condividere e portare all’attenzione della giuria un articolo che parla – non solo di disabilità – ma di integrazione, amore e passione verso lo sport.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Il compito di noi giornalisti è condividere e informare. Le buone notizie sono all’ordine del giorno, sta a noi darle il giusto spazio. Un Premio Giornalistico amplifica ancor di più quest’obiettivo. E aiuta chi fa il nostro lavoro a non dimenticare mai quale sia la strada giusta da seguire.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Quella di Matteo, tifoso dell’Inter non vedente ma sempre in prima fila a San Siro, è una di quelle che più mi ha emozionato. Matteo avrebbe tutti i motivi per stare seduto comodo sul divano di casa a fare il tifo per la sua squadra del cuore. Eppure preferisce mettersi in macchina con suo padre, farsi coinvolgere nella bolgia di San Siro e vivere quelle emozioni che solo uno stadio può regalarti. Mi ha ricordato che per essere felici, a volte, guardare non è necessario.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Credo che nel raccontare la disabilità non serva concentrarsi soltanto sulla sofferenza. Le difficoltà sono all’ordine del giorno, quello che conta è saper reagire. Ognuno di noi lo fa a modo proprio. La vera sfida è provarci ogni giorno e riuscirci.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Con Matteo non è stato subito facile instaurare un rapporto di fiducia. Era un po’ restio a raccontare la sua storia e la sua condizione. Poi si è convinto senza che io aggiungessi nulla. Condividere il proprio percorso di disabilità è una scelta. Farlo significa aprirsi al mondo. Il giornalista è semplicemente un amico con cui fare una chiacchierata.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

È necessaria molta più attenzione alle tematiche sociali. Da parte dei giornali e non solo. Fare corretta informazione, rendere disponibili tutte le informazioni utili alle persone che ne hanno bisogno. E anche ascoltare le necessità delle famiglie che vivono con persone diversamente abili. Il nostro lavoro può aiutare e dobbiamo essere sempre pronti a farlo.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

L’intelligenza artificiale potrebbe rivoluzionare il mondo del giornalismo. Al pari di ciò che è riuscito a fare Internet. Al momento è uno strumento in via di sviluppo, che va compreso e regolamentato. Il fattore umano resta però imprescindibile.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Un buon giornalista deve informare senza mai allontanarsi dalla verità. In più, deve saper raccontare: una notizia, un fatto, una storia. Deve farsi guidare dalla curiosità e dalle emozioni. C’è una frase di Gianni Minà che amo ricordare, lui era convinto che un giornalista possa esprimere la sua vera identità solo attraverso gli altri. Ed è proprio così.