1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?
Sono venuto a conoscenza del Premio attraverso i social (Facebook, in particolare) e ho deciso così di approfondire perché incuriosito. Ho trovato un’iniziativa nobile, decisa a promuovere un tipo di giornalismo per cui nutro profondo rispetto come quello del racconto del sociale, dell’integrazione e delle fragilità e del mondo, spesso poco conosciuto, che lo circonda. Ho scoperto anche così la storia di Alessandra Bisceglia e della Fondazione a lei dedicata. Questo Premio è solo una parte della straordinaria eredità che ci lascia e di cui i partecipanti si fanno in parte anche interpreti: la voglia di vivere, raccontare e seguire la propria vocazione di una giovane giornalista, sbocciata nell’attenzione per temi sociali così importanti.
2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?
La forma del “Premio” può essere un’ottima occasione per attirare l’attenzione di giornalisti di diverse età, ma anche differenti provenienze territoriali, di conoscenze e di formazione. I prodotti realizzati sono preziose testimonianze di realtà e storie di vari livelli, ma che nascondono un lavoro quotidiano spesso poco conosciuto, talvolta persino dato per scontato. Il giornalismo può diventare quel megafono in grado di far conoscere tali esperienze a un pubblico ancora più vasto, seminando potenziali fiori che potrebbero sbocciare anche in altre realtà.
3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?
Anni fa, cominciai a seguire per MondoSportivo le storie di alcuni atleti bielorussi che stavano subendo arresti e torture in patria per la loro partecipazioni alle manifestazioni contro il presidente Lukashenko, in una fase in cui il governo aveva deciso di stringere sempre di più gli spazi della libertà di espressione. Rimasi colpito dalla storia Rastislau Stefanovich, un giocatore di football americano dilettantistico che aveva partecipato alle proteste in maniera pacifica, ma che era stato arrestato. La moglie ne ha raccontato la storia che ho provato a ricostruire, cercando di dare aggiornamenti quando possibile. Attraverso l’associazione “Bielorussi in Italia”, che si è occupata di sensibilizzare sulle violazioni dei diritti umani in patria, ho aderito all’iniziativa “adotta un prigionieri”, per raccontarne anche sui social la storia e provare ad avere uno scambio epistolare: Rastislau era il mio destinatario.
4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?
Senza scadere nel pietismo, la sofferenza andrebbe raccontata con cura e rispetto della dignità della persona e di chi ne condivide la vita ogni giorno (per esempio, i familiari). Diventa quindi fondamentale studiare, imparare a utilizzare i termini giusti e scientifici, per permettere una comprensione chiara e completa a tutti. Trovo utile, per esempio, dialogare con i soggetti interessati, cercare di capirne le sfumature dei loro pensieri, delle sfide, ma anche di cosa porta a vedere una luce di speranza ogni giorno.
5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?
La barriera più importante che ho incontrato e incontro tutt’oggi la ritrovo nel momento in cui deve partire il racconto, e quindi la fase dell’incontro, per esempio quando mi reco in un ambiente ospedaliero, soprattutto nei reparti dove si affrontano ogni giorno malattie gravi. La sensazione di ritrovarsi in un ambiente di sofferenza diventa spesso molto forte e rischia di far perdere il bilanciamento nel farsi raccontare tutti gli elementi necessari poi per produrre una testimonianza oggettiva.
6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?
Sicuramente negli ultimi anni si è iniziato a dare maggiore spazio a realtà e iniziative sociali molto differenti tra loro, sia a livello nazionale che locale, riportando le voci di chi vive ogni giorno differenti situazioni di fragilità. A mio avviso, però, i media dovrebbero garantire una copertura maggiore delle differenti fragilità sociali, per dare voce a esperienze spesso anche molto innovative.
7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?
Come tutte le tecnologie passate, anche l’intelligenza artificiale in ambito giornalistico dovrà essere capita, controllata e normata. Nella comunicazione sociale, però, il valore aggiunto del racconto sta proprio nel recepire e comunicare le sfumature umane delle esperienze: la comprensione profonda di ciò che si vuol raccontare, la capacità di leggerne gli aspetti di dolore ma anche speranza restano aspetti puramente legati alla sensibilità umana, che sarebbe un errore sostituire con l’intelligenza artificiale. Non tutto, però, è da buttare via: la tecnologia può essere un utile alleato soprattutto nella fase di ricerca di ciò che si vuole raccontare, permettendo di raccogliere in poco tempo informazioni importanti anche quando provenienti da realtà lontane geograficamente.
8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?
In un’epoca segnata dalla corsa alle notizie e dal clickbaiting, ritengo che un buon giornalista sia colui che torna a dare alla sua vocazione l’attenzione, l’impegno e il tempo necessari per accrescerla, migliorarla. L’attenzione ai dettagli, la voglia di indagare a fondo per dare voce a realtà nascoste, ma anche la curiosità di comprendere ciò che ancora non si conosce: sono tutti elementi che danno vita a un giornalismo attento, che non si accontenta della superficie, che sa utilizzare un linguaggio preciso e rispettoso della dignità umana. Il buon giornalista, insomma, diventa figura in grado anche di formare, ascoltatore attento e interprete di istanze spesso ignorate o dimenticate.