Intervista a Giulia Ghirardi

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?

Qualche mese fa mi sono laureata e ho concluso il mio percorso di laurea magistrale in “Comunicazione giornalistica politica e sociale”. Ho scritto una tesi incentrata proprio sul tema del giornalismo sociale che è anche l’ambito giornalistico che più mi appassiona. Perché? Perché credo che esprima nella maniera più sincera il dovere civico sotteso alla professione. È portare luce su quei temi che altrimenti sarebbero dimenticati ed è dare voce a chi non ha mai avuto voce. Questo, per me, è il significato di partecipare a questo Premio, una delle tante vie attraverso cui poter dare concretezza a questi valori.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?

Ritengo che le storie individuali, di vita, personali, possano avvicinare le persone, creano ponti con tematiche, realtà, esperienza di vita che altrimenti rimarrebbero lontane e inconoscibili. Hanno il potere di creare simpatia, ma nell’accezione greca del termine (sympatheia) quindi, letteralmente, soffrire insieme, condividere un sentimento e, attraverso questo, promuovere un cambiamento che sia prima di tutto concreto e aderente alle reali esigenze delle persone coinvolte. Le piccole storie hanno quindi il potere di mostrare che, in definitiva, si fa tutti parte di un’unica grande storia e che i problemi e le tematiche sociali che appaiono come qualcosa di microscopico siano in realtà qualcosa di intersezionale che, in maniera diversa, ci riguarda tutti.

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Come dicevo, ho recentemente scritto una tesi di laurea magistrale intitolata proprio: “Il Giornalismo Sociale, la voce di chi non ha voce. L’editoria sommersa del giornalismo sociale contemporaneo”. Tra le altre, ho provato a rispondere proprio a questa domanda.

Prima di tutto, risponderei partendo da una discrasia che esiste nel mondo della comunicazione giornalistica, ovvero l’opposizione tra quella che è la prassi, il framing utilizzato abitualmente dai media, e quella che, invece, è la teoria, il framing che sarebbe necessario adottare nella pratica giornalistica. Quello che si delinea è una marcata dipendenza alla dimensione della politica e dell’economia, in generale ai cosiddetti poteri forti presenti nella società. Questo porta con sé l’appiattimento del dibattito pubblico e la riduzione della pluralità di voci e prospettive presenti nella società. Tale visione suggerisce, dunque, un forte squilibrio tra la realtà oggettiva e il controllo che viene operato dal framing sulle informazioni e le narrazioni dei media e, al contempo, una percezione di sudditanza del giornalismo nei confronti delle diverse forme di potere consolidato.

La diretta conseguenza è che il racconto che viene fatto dei temi sociali non avviene quasi mai attraverso le voci di chi vive sulla propria pelle tali problematiche. Il racconto dei fatti attraverso il punto di vista di chi lo vive in prima persona dovrebbe essere un principio classico del giornalismo, invece, quando si parla di temi e problematiche sociali questo meccanismo è assente o è presente in maniera residuale. Il risultato è che, nella maggior parte dei casi, le voci delle persone che vivono queste problematiche vengono sovradeterminate e travisate. Per questo, la soluzione credo possa essere quella di parlare di questi problemi attraverso la voce di chi li vive tutti i giorni sulla propria pelle. L’osservatorio privilegiato deve essere quello: le persone. Le persone che, per condizione di vita o per scelta lavorativa, vivono quelle dinamiche e problematiche in maniera diretta, senza intermediazione.

Oltre a evidenziare l’importanza di un racconto che parta dalle persone, di un framing “dal basso” contrapposto a quello dei media mainstream incentrato su narrative già confezionate, porta con sé anche la possibilità di aprire nuovi spazi di rappresentazione per soggetti spesso marginalizzati, offrendo loro un’importante occasione di socializzazione. Il giornalismo, infatti, può e deve cercare fonti di informazione diverse e creare un contesto in cui le esperienze personali possano emergere, così da rendere l’informazione quanto più inclusiva e specchio realistico della complessità.

Dunque, dare voce a chi non ha voce, il senso giornalismo sociale è quello di riuscire ad andare oltre le narrative dominanti dei media mainstream, spesso influenzate da interessi istituzionali o da un approccio pietistico verso il sociale, per proporre un framing che sappia rispecchiare la pluralità di quelle voci, esperienze e prospettive spesso marginalizzate e distorte. Per farlo, la soluzione è quella di partire “dal basso”, di offrire una prospettiva che dia centralità alle testimonianze in prima persona e renda protagoniste le voci di chi vive sulla propria pelle determinate condizioni di difficoltà sociali per riuscire così a creare, in ultima istanza, uno spazio di rappresentazione inclusivo e un’informazione che sia, prima di tutto, al servizio del cambiamento sociale.

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?

Oggi ha senso parlare di giornalismo sociale e forse ne ha ancora di più rispetto che in passato perché la sua responsabilità non è più soltanto dare voce a chi non ha voce come fatto in passato, ma farlo con una nuova consapevolezza: che queste voci dimenticate, sono quelle che possono illuminare con più verità i problemi che oggi esistono nel mondo ed esserne anticipatrici perché in grado di mostrare come tutti quei temi e problemi sociali percepiti come microscopici e isolati, nel mondo interconnesso di oggi siano in realtà diventati intersezionali e facciano parte di un quadro macroscopico che riguarda tutti. Questo è il motivo per cui servirebbe operare una sua diffusione e una sua rivalutazione: per essere imparziali ma non indifferenti, dando spazio a voci capaci di promuovere un cambiamento che sia prima di tutto culturale. Questa è la sfida, e la grande responsabilità che ha oggi il giornalismo sociale contemporaneo, e la sua unica possibilità di recuperare quel ruolo di gatekeeper dell’informazione che sembrava sfumata con l’avvento del digitale. Perché un pubblico consapevole ed educato su queste tematiche vuol dire diffondere rispetto e solidarietà verso chi vive una determinata problematica sociale. E vuol dire anche, in ultima istanza, combattere la passività e l’indifferenza dilagante che caratterizza la società dell’oggi.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?

Il sensazionalismo è una delle principali criticità a cui va incontro il giornalismo sociale. Problematica che si lega, prima di tutto, alle logiche di mercato e a quella del clickbait caratterizzata proprio dall’utilizzo di titoli e contenuti volutamente sensazionalistici, progettati per attirare l’attenzione del pubblico e indurlo a cliccare su determinati articoli per ottenere visualizzazioni, accessi e, dunque, numeri, risultati. Questo, nel concreto, ha un impatto significativo sull’oggettività e la qualità del giornalismo e tanto di più su quello sociale, direttamente connesso alla vita e ai problemi delle persone di cui viene proposta, in questi termini, un’immagine distorta, manipolata e, nella maggior parte dei casi, negativa.

Per proporre, invece, un giornalismo sociale che sia in grado di tutelare davvero le persone serve mettersi nei panni delle persone stesse, chiedersi: come reagirei, come mi sentirei se la persona spettacolarizzata fosse un mio amico o un mio familiare? Perché la spettacolarizzazione non solo manipola e distorce il reale, ma impatta direttamente la dignità delle persone coinvolte che vengono presentate attraverso narrazioni stereotipate come i “buoni”, le “povere vittime inconsapevoli” che non hanno gli strumenti per comprendere e affrontare le difficoltà che le circondano o, al contrario, eroi ed eroine che, completamente consapevoli della situazione, combattono strenuamente contro ciò che le affligge. L’utilizzo di queste narrazioni non soltanto manipola l’immagine delle vittime, ma limita la comprensione stessa dei problemi sociali, banalizzandoli e decontestualizzandoli.

Per superare tale criticità serve professionalizzazione, studio e approfondimento nei confronti di tali tematiche altrimenti il rischio diretto è l’allontanamento del pubblico da una comunicazione che rimane distorta e manipolata. Ma soprattutto serve che il giornalista sociale adempia al proprio dovere di diffondere la consapevolezza – e questa è, prima di tutto, una sfida culturale – che si è tutti coinvolti in questo tipo di problematiche sociali, perché le difficoltà che toccano una persona, tendenzialmente toccano tutti in un modo o nell’altro.

Dall’altro lato, però, servirebbe anche introdurre una categorizzazione di tale ambito, serve un riconoscimento e una rivalutazione sostanziale della notiziabilità del sociale e questa non può avvenire se non esiste, prima di tutto, uno spazio dedicato in cui possa esprimere in maniera diffusa le proprie funzioni e le proprie potenzialità.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?

Credo che la sfida principale sia quella di riuscire a rappresentare nella maniera quanto più intima e vera le persone, soprattutto quelle più vulnerabili, senza cadere in quelle che sono le principali topiche di rischio del giornalismo quando tratta tematiche sociali: evitare la spettacolarizzazione (per i motivi sopra trattati), di far riferimento a certi bias culturali, idee introiettate che propongono una visione distorta della realtà dalle quali anche inconsapevolmente alle volte è difficile sganciarsi, così come è necessario distaccarsi da un’estetica del dolore e della sofferenza, la cosiddetta “poverty porn” che porta con sé un’altra tragica conseguenza: il fatto di proporre questo tipo di narrazioni, incapaci di problematizzare e rigidamente stereotipate, crea come una assuefazione al dolore che abitua i lettori a non sorprendersi più di fronte alla sofferenza altrui, a non indignarsi più davanti al dolore di una condizione di vita, di un problema, di una crisi umanitaria, e così, i problemi sociali, la sofferenza e il dolore stesso finiscono per essere brutalmente naturalizzati. La tragica conseguenza portata dall’estetica del dolore è proprio quella di “abituare” a vedere e ascoltare la narrazione di questi temi fino al punto che la società sembra non essere più in grado di provare empatia, dolore, rabbia, ma impotente si limita a prenderne passivamente atto.

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?

Già dalla fine degli anni Novanta e più compiutamente dall’inizio degli anni Duemila, il sistema dei media e dell’informazione comincia a vivere una profonda trasformazione. Motori di cambiamento sono stati, in tal senso, la tecnologia e il web 2.0 che hanno spinto gli esperti a parlare di un radicale cambiamento dell’ecosistema informativo. Trasformazione che ha portato con sé infinite e inedite possibilità che, a loro volta, hanno contribuito alla creazione e alla formazione di un digital journalism, una nuova forma ibrida di comunicazione, un nuovo tipo potenziato di “giornalismo liquido”. In questo scenario il digital journalism si impone quindi come un concetto proteiforme, liquido, rivoluzionario perché rappresenta l’ascesa e il consolidamento di una forma di azione sociale attraverso una libertà in termini di partecipazione, coinvolgimento e opportunità mai viste prima. Una libertà che si traduce, da un punto di vista comunicativo, nella possibilità di evadere le canoniche limitazioni spazio-temporali imposte dai media tradizionali e di operare una commistione tra personaggi, temi, luoghi ed espedienti retorici in relazione ai differenti obiettivi e contesti comunicativi. Tutto questo impatta fortemente il mondo del giornalismo e lo fa, in particolare, anche con l’ambito del giornalismo sociale che si appropria rapidamente delle infinite opportunità offerte dal digitale, considerando internet, a tutti gli effetti, un nuovo e sconfinato spazio di libertà della sfera pubblica. Una delle tante opportunità introdotte dal digitale è, infatti, della democratizzazione dell’informazione che contribuisce alla costruzione di nuovi spazi e nuove libertà in grado di facilitare connessioni e di dar voce agli “invisibili”.

Dunque, l’avvento del digitale e, insieme, i rischi e le opportunità da esso portate rappresentano, dunque, una sfida cruciale per il giornalismo sociale contemporaneo poiché tutti questi fattori stanno contribuendo a ridefinirne concretamente il ruolo e l’impatto sociale. La rete ha aperto nuovi spazi per la narrazione di storie di gruppi e individui tradizionalmente esclusi dalla narrazione dei media tradizionali, offrendo la possibilità di dar voce agli “invisibili” e facilitare connessioni transnazionali tra persone, attivisti, associazioni e movimenti. Tuttavia, queste possibilità vanno accompagnate dalla consapevolezza dei rischi legati soprattutto alla perdita di autorevolezza della professione giornalistica, alla diffusione di notizie false e alla polarizzazione del discorso pubblico che minacciano la credibilità e l’efficacia stessa del giornalismo sociale. Per questo, la sfida credo rimanga quella di capire come bilanciare rischi e opportunità, utilizzando il digitale non solo come strumento di amplificazione, ma anche e soprattutto, come mezzo per ridefinire il proprio ruolo di tramite tra le voci marginalizzate e il resto della società. Soltanto in questo modo il giornalismo sociale potrà continuare a essere catalizzatore di cambiamento e a svolgere la sua missione fondamentale di promozione della giustizia sociale e della partecipazione democratica anche nella nuova dimensione del digitale.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?

Credo che l’aggiornamento professionale sia fondamentale per garantire la qualità del giornalismo. Con i nuovi pubblici, i nuovi strumenti e tutte le novità introdotte dal digitale subentra, infatti, una continua e costante richiesta di professionalizzazione e questo è tanto più urgente in relazione al giornalismo sociale.

Questo perché i problemi e i temi sociali non sono qualcosa di immutabile, qualcosa che esiste a priori, ma fenomeni che evolvono in stretta relazione all’epoca storica e al contesto nel quale si trovano a essere inseriti. Per questo motivo, per questa particolare tipologia di giornalismo, l’aggiornamento rimane qualcosa di imprescindibile se l’obiettivo comunicativo rimane quello di proporre e perseguire un’informazione autentica che sia in grado di incidere positivamente nelle vite di tutti coloro che, quei problemi, li vivono ogni giorno sulla propria pelle e non, invece, un’informazione anacronistica e fondamentalmente sbagliata perché non aderente all’evolvere del tempo.

9. Come è venuto a conoscenza del Premio giornalistico?

Amici.

Intervista a Giulia Di Leo

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?

Ho partecipato con un tema che mi sta molto a cuore, quello dell’amianto e del conseguente tumore raro al polmone del mesotelioma, perché sono di Casale Monferrato e ancor prima di diventare giornalista ho sempre sentito questo argomento come importante. Ho unito la mia battaglia da cittadina a quella di giornalista e da anni mi batto per far sì che sempre più persone siano consapevoli di questa tremenda vicenda che ci riguarda ancora tutti, anche fuori dalla mia città.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?

Penso siano fondamentali, perché portano esempi concreti cercando di far empatizzare cittadini e istituzioni su questioni che sono universali.

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Sono assolutamente a favore e è quello che cerco sempre di fare con il mio lavoro.

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?

Sì è una responsabilità del nostro lavoro, perché abbiamo la possibilità di dare voce a chi ha gli strumenti per capire il mondo e come giornalisti non dobbiamo dare soluzioni ma offrire punti di vista e confronti.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?

Raccontando i fatti, verificando i dati incerti e soprattutto affidandosi a esperti, incrociando i dati laddove ci siano, senza basarsi solo sulle testimonianze di persone comuni.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?

Il racconto in sé ritengo sia una sfida, ma positiva, per riuscire a comunicare un messaggio e sensibilizzare i lettori.

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?

Spero che presto si possa raggiungere un equilibrio. Non li condanno, ma se usati in maniera scorretta, come spesso accade, creano disinformazione e inquinano l’immagine dei media che lavorano in maniera deontologicamente corretta. Servirebbero linee più stringenti di quelle attuali.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?

Sono indispensabili per capire le esigenze nuove del mondo. Personalmente ho partecipato a corsi molto utili sul linguaggio e sulla violenza di genere. Il mondo si evolve e noi dobbiamo stargli al passo.

9. Come é venuto a conoscenza del Premio giornalistico?

Ne sono venuta a conoscenza tramite il sito Fnsi e avevo già partecipato in precedenza.

Intervista a Gabriele Ragnini

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?
La storia che mi ero trovato a raccontare mi era rimasta impressa per tanto tempo, soprattutto per il rapporto che si è poi sviluppato con l’intervistata. Volevo far conoscere la loro storia a più persone possibili, perché è davvero esemplare, così ho pensato di candidare il servizio.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?
Con l’empatia. Essere bravi a raccontare queste storie significa togliere lo schermo che separa spettatore e protagonista della storia. Solo così le questioni sociali possono arrivare con un impatto maggiore.

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?
Significa ricordare che le notizie non sono solo quelle che riguardano il mainstream, le persone più potenti o quelle più celebrate. Significa ricordare che la notizia siamo noi, a partire dai contesti più vicini o da quelli che non riusciamo a guardare in faccia. Spesso per mancanza di empatia.

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?
Diverse testate più smart e più vicine ai giovani già lo fanno. Perché il lato più solare di queste nuove generazioni in realtà è molto vicino ai temi sociali. Le testate che non lo fanno purtroppo hanno uno sguardo spesso anacronistico, o tendente a guardare troppo lontano da noi.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?
Bisogna studiare bene il tema sociale che si racconta, evitando del tutto di guardarlo con gli occhi di chi è fuori da quel contesto. Spesso siamo abituati a conoscere alcuni argomenti e alcune sfere sociali solo dall’esterno con convenzioni sociali, sia nella narrazione generale che nei singoli termini che si adoperano. In realtà la maggior parte di questi sono molto più stratificati e complessi.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?
Proprio l’utilizzo dei termini giusti. Spesso ciò che noi pensiamo sia innocuo ha un effetto narrativo e sociale molto più forte e impattante (spesso in negativo) di quanto immaginiamo.

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?
Proprio ciò di cui sopra: avere un approccio più smart, più fresco e meno anacronistico.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?
Con la consapevolezza che certe dinamiche si evolvono, così come il modo di raccontarle. Il glossario o la narrazione generale di determinate sfere sociali non può essere come quello di tanti anni fa, non bisogna accontentarsi di aver conosciuto alcune realtà e pensare di conoscerle ancora.

9. Come é venuto a conoscenza del Premio giornalistico?
Tramite la scuola di giornalismo che frequento: “Massimo Baldini” dell’Università Luiss di Roma.

Intervista a Filippo Marazzini

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?

Il desiderio di condividere con un pubblico più ampio la vicenda umana di Giorgio De Marco, una storia che mi sarebbe sicuramente piaciuto raccontare anche ad Alessandra Bisceglia.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?

Sono essenziali per dare profondità e concretezza alle emergenze sociali facendo comprendere che dietro ad ogni problematica si cela il vissuto delle persone. Si può così evitare di cadere nella facile retorica e nell’abuso di slogan e di frase fatte.  

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Un’importanza fondamentale. Da capo scout e insegnante, oltreché giornalista, sono profondamente convinto che la scrittura abbia come fine primario quello di raccontare, in tutte le sue declinazioni, la persona umana.   

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?

Sì, ed è una responsabilità grande che i giornali, nonostante i cambiamenti conosciuti dall’editoria, devono continuare a sentire sulle proprie spalle, lavorando per presentarsi ogni giorno come organi d’informazione autorevoli e affidabili.  

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?

Penso che la chiave sia trovare uno stile – di impianto prettamente narrativo – che catturi e coinvolga il lettore, ma che non indulga mai in dettagli morbosi.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?

Riuscire ad adottare e a mantenere un registro linguistico rispettoso delle persone di cui si va a raccontare il vissuto.

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?

Centrale perché sono il mezzo di cui maggiormente si servono i più giovani per informarsi. L’utilizzo di testi concisi e ben ponderati, immagini, infografiche e la strutturazione di brevi, ma incisive interviste sono soluzioni che possono (e, forse, devono) contagiare sempre di più anche il giornalismo tradizionale, allontanandolo dalla assurda pratica del clickbait.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?

Possono essere un’occasione feconda di incontro e confronto tra professionisti che provengono da contesti diversi.

9. Come è venuto a conoscenza del Premio giornalistico?

Tramite il sito dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti.

Intervista a Federica Nannetti

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?

È proprio il tema che anche quest’anno, come gli scorsi, mi ha spinto a partecipare: credo ci sia sempre bisogno di accendere un faro in più su storie personali che spesso ne racchiudono tante altre. Storie di ricerca, di professionalità, di solidarietà.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali? Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Credo che ognuno possa trarre un piccolo spunto o insegnamento dalle storie di vita degli altri, ma credo siano importanti anche per la politica e le istituzioni, che hanno il potere di agire e il dovere di ascoltare la voce di tutti.

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Credo sia fondamentale per poter raccontare il mondo anche dal loro punto di vista anziché, come più spesso accade, da quello della politica, dei palazzi e delle istituzioni. Dare loro voce, pian piano, sempre un po’ di più, credo inoltre possa essere importante per rendere la comunicazione sociale quanto più trasversale possibile nell’agenda delle notizie.

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?

Assolutamente sì. Sebbene i canali di comunicazione e di informazione siano molto cambiati negli anni, con un potere sempre maggiore dei social, credo che le testate giornalistiche e le emittenti televisive non possano e non debbano abdicare al proprio ruolo di mezzo di informazione precisa, accurata, basata su fonti verificate e attendibili. E questo vale anche per i temi sociali.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?

Dare voce direttamente ai protagonisti delle storie, a chi in prima persona vive – per rimanere in tema – con una malattia rara o a chi sta vicino a queste persone credo sia uno dei modi per mantenere l’equilibrio necessario. Sono loro a saper trovare sempre le parole più giuste. Tuttavia non credo ci sia una “ricetta” sempre valida.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?

Le domande da porre nel giusto rispetto del diritto alla riservatezza dell’altra persona, con il timore di andare troppo oltre.

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?

Se ben utilizzati possono essere strumenti importanti: non si parla mai abbastanza di questi temi, dunque sarebbe fondamentale trovare canali nuovi anche per raggiungere le nuove generazioni. Pian piano alcune persone stanno iniziando a raccontare le proprie vite tramite i social in modo positivo e questo credo debba essere colto dal giornalismo tradizionale.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?

Corsi e approfondimenti penso siano importanti sia per coloro che le storie le raccontano, sia per chi una testata la dirige, così da riconoscere il giusto valore delle tematiche sociali.

9. Come é venuto a conoscenza del Premio giornalistico?

Anni fa, grazie al Master in giornalismo di Bologna. Dal 2021 in poi ho sempre partecipato al Premio.

Intervista a Elisa Marasca

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?
Da più di 10 anni, cioè dal primo anno della Scuola di Giornalismo, seguo e racconto temi legati alla salute pubblica e all’equità nell’accesso alle cure, soprattutto per chi ha malattie “invisibili”. Partecipare a questo premio è stato un modo naturale per dare spazio a un ambito che considero centrale nel giornalismo sociale.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?
Le storie ben raccontate hanno un impatto più forte di qualsiasi dato. Non perché siano emotive, ma perché rendono visibili meccanismi sociali complessi, senza filtri. Offrono un punto di accesso umano a temi spesso trattati in modo astratto o burocratico. Un conto è leggere astrattamente della ricerca su una determinata malattia, un altro è farsi raccontare la vita di tutti i giorni da chi soffre o da chi si occupa delle cure, sia da punto
di vista medico sia da caregiver.

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?
Dare voce non è un atto caritatevole, è una responsabilità. Chi fa informazione ha il compito di portare alla luce esperienze che altrimenti resterebbero invisibili. Il punto non è parlare per le altre persone, ma creare le condizioni per cui possano raccontarsi con le proprie parole.

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?
Certo, il giornalismo ha il dovere di fornire strumenti (e il linguaggio giusto) per orientarsi nella realtà. Questo vale soprattutto per i temi sociali, che spesso vengono trattati in modo marginale o superficiale. Perché sono le parole che plasmano la realtà.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?
Facendo bene il proprio lavoro: verificare, ascoltare, restituire i contesti. Il sensazionalismo nasce spesso dalla fretta o dalla volontà di semplificare. L’oggettività non è neutralità, è rigore. Serve tempo, studio e rispetto per le persone. Usare aggettivi sensazionalistici non porta niente di più al racconto, come spiegano molto bene tutte le carte di deontologia professionale che abbiamo in Italia.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?
La più grande è ottenere attenzione per questi temi senza piegarsi a logiche economiche (per esempio aziende farmaceutiche che vogliono essere nominate per un determinato farmaco).

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?
Sono un canale, uno strumento, non un fine. Possono aiutare a far circolare contenuti importanti, ma non sempre sono adatti a contenuti complessi. Il rischio è adattare il giornalismo al linguaggio dei social, perdendo profondità. Bisogna saperli usare senza subirli.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?
Sono essenziali. Non basta la sensibilità personale: serve competenza. Chi scrive di salute, disabilità, marginalità, deve conoscere leggi, dati, approcci specialistici. Ma deve anche aggiornarsi sul linguaggio, sugli stereotipi, sull’etica del racconto.

9. Come è venuta a conoscenza del Premio giornalistico?
Attraverso la newsletter di Cristiana Bedei.

Intervista a Cosimo Mazzotta

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?

Ho incontrato Raffaele Capperi, protagonista del mio racconto, a Gennaio 2024 alla presentazione del film Wonder-White Bird con Helen Mirren. Dopo aver ascoltato la sua storia e le difficoltà legate alla sua malattia, sono rimasto colpito dalla forza e dal garbo con cui Raffaele ha trovato la voglia di vivere nonostante tutto. Mi sono detto che era una lezione importante, che dovevano ascoltare anche altri. Dunque, quale migliore occasione di questa per parlarne, per dimostrare che le malattie rare non sono solo statistiche: dietro a quei numeri ci sono volti, sogni, famiglie che combattono ogni giorno. Partecipare a questo premio per me significa dare dignità e visibilità a queste storie.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?

Il racconto che ho presentato a questo concorso risponde esattamente a questa domanda alla perfezione. Raffaele sin da bambino ha subito giudizi e violenze legate all’ignoranza e alla superficialità di persone che non conoscevano la sua malattia. Persone che erano impressionate dal suo aspetto fisico e che non si domandavano quale fosse il vissuto. Il suo modo di reagire è stato quello di condividere sui social e nelle scuole la sua esperienza per informare ed educare. Le storie vere hanno una potenza che i dati da soli non hanno: fanno leva sull’empatia. Quando racconti il viaggio di una madre che lotta per trovare una cura per suo figlio, o di un ragazzo che convive con una diagnosi devastante, non stai solo informando, stai coinvolgendo. Le persone si riconoscono nelle emozioni e questo può cambiare il modo in cui vedono una causa, spingendole all’azione o almeno a riflettere.

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Credo che dare voce a chi non ce l’ha sia una delle più grandi responsabilità e, al tempo stesso, uno degli atti più autentici nel campo della comunicazione sociale. Non si tratta solo di raccontare storie: si tratta di scegliere quali storie meritano di essere ascoltate, anche quando vengono da chi normalmente resta ai margini del discorso pubblico. La sfida è raccontare senza sovrascrivere, rappresentare senza semplificare, dare spazio senza appropriarsi. È un equilibrio sottile, che richiede tatto, empatia e una profonda comprensione del contesto in cui ci si muove. Quando si riesce a farlo con onestà, ciò che si restituisce non è solo visibilità a una voce silenziata, ma anche umanità al nostro stesso mestiere. Perché il senso della comunicazione sociale non è solo informare, ma anche connettere, sensibilizzare e, in qualche misura, contribuire al cambiamento.

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?

Se le testate si limitano a intrattenere o a inseguire il flusso della cronaca senza proporre chiavi di lettura, tradiscono una parte essenziale della loro missione. Educare, in questo senso, non significa fare lezioni, ma offrire strumenti per comprendere la complessità della realtà. I lettori riconoscono e apprezzano questo valore: lo dimostrano quando scelgono contenuti che li arricchiscono, che fanno emergere nuove prospettive o che li spingono a riflettere.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?

La chiave sta nel rispetto. Raccontare temi delicati richiede attenzione: non solo verso chi legge, ma anche, e soprattutto, verso chi è coinvolto nella storia. Il sensazionalismo rischia di spettacolarizzare il dolore e ridurre la complessità a una reazione emotiva superficiale. L’obiettivo dev’essere quello di far parlare i fatti, di lasciare spazio alle testimonianze autentiche, senza manipolarle. Non è necessario esagerare se si racconta la verità con onestà: le storie forti parlano da sole, se trattate con cura. Mantenere questo equilibrio significa mettere al centro la dignità delle persone e restituire fiducia al pubblico. Perché, in fondo, non c’è niente di più potente di una verità raccontata bene.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?

Una delle sfide più grandi è conquistare la fiducia di chi quelle storie le vive sulla propria pelle. C’è il timore di essere fraintesi o usati per costruire un racconto ad effetto. Per questo, prima di scrivere, bisogna saper ascoltare. Entrare in punta di piedi nelle vite degli altri, con rispetto e umiltà, è un passaggio imprescindibile. È lì che si gioca la credibilità di chi racconta. Un’altra sfida importante è quella di trovare spazio a queste storie in un panorama mediatico spesso dominato da logiche commerciali e “contenuti che performano”. Le tematiche sociali, per loro natura, richiedono tempo, profondità e contesto – tutte cose che mal si sposano con la fretta e con l’informazione usa e getta.

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?

I social hanno reso la comunicazione più accessibile, più orizzontale, e se usati con consapevolezza possono alimentare una nuova forma di attivismo narrativo, dove chi vive una realtà diventa anche narratore, non solo oggetto del racconto. Da un lato, rappresentano dunque una grande opportunità perché permettono di dare visibilità e rompere il silenzio su argomenti scomodi. Dall’altro lato, però, pongono sfide enormi perché l’ossessione per la viralità può spingere alla semplificazione o, peggio, verso il sensazionalismo.
Il punto è che i social non sono né buoni né cattivi in sé: dipende da come li si usa.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?

Raccontare questo genere di temi richiede una comprensione profonda dei contesti, dei linguaggi e delle implicazioni etiche. Senza questo bagaglio, si rischia di cadere in semplificazioni, stereotipi o, peggio, in errori. Aggiornarsi significa non solo affinare le competenze tecniche, ma anche restare sintonizzati con le trasformazioni culturali, sociali e persino linguistiche. Vuol dire imparare a riconoscere i propri bias, interrogarsi sul proprio punto di vista e su come questo possa influenzare il racconto.
La formazione, insomma, non serve solo a “saperne di più”, ma anche a raccontare meglio.

9. Come é venuto a conoscenza del Premio giornalistico?

Ne sono venuto a conoscenza grazie al Master in Giornalismo che frequento presso l’Università IULM.

Intervista a Carlo Bellotti

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?

Volendo raccontare l’incredibile storia delle suore sacramentine non vedenti di Tortona, prima comunità ecclesiastica al mondo ad aprire le proprie porte a persone con questa disabilità, il Premio è stata l’occasione perfetta. L’esperienza dell’incontro con queste religiose, vivere le loro difficoltà ma anche l’estrema serenità e felicità nel vivere è stato veramente toccante, mi ha lasciato molto

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?

Quando si affrontano tematiche importanti a livello sociale spesso c’è il rischio che la questione rimanga astratta, senza coinvolgimento da parte delle persone e quindi suscitando scarso interesse. Nel momento in cui una storia reale viene raccontata per esemplificare una problematica, questa genera empatia, emozioni e rimane meglio impressa nella memoria di chi ascolta. Per questo riuscire a dare voce alle persone che soffrono o che posso descrivere con le loro storie cosa è accaduto è fondamentale per la nostra società

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Il lavoro del giornalista è, e deve sempre essere fondamentale proprio per questo: difendere i più deboli, coloro che non sono rappresentati da nessuno e che invece meritano di poter esprimere i loro disagi o i problemi che si trovano ad affrontare senza che nessuno permetta loro di parlare o di denunciare determinate situazioni

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?

Perché il giornalista è sempre stato il filtro tra ciò che accade e la comunità: dovendo mantenere l’oggettività e la continenza verbale, verificare le fonti per inseguire sempre e solo la verità, è tra i principali soggetti che può indirizzare l’opinione pubblica su certi temi. Se il lavoro è svolto nel modo corretto, questo può fare la differenza nella crescita degli individui della società riguardo a determinati argomenti, vissuti e raccontati con imparzialità

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?

Per quanto vivere certe storie coinvolge noi giornalisti in prima persona, che come tutti quanti ci emozioniamo e dobbiamo affrontare le nostre sensazioni, l’unico modo per non sbagliare è seguire la deontologia come fosse un faro, per evitare di perdere lucidità o la propria imparzialità, ma soprattutto rispettare chi ci affida la sua storia e il suo vissuto

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?

Penso che le sfide maggiori rimangono dentro di noi quando affrontiamo certe tematiche e con i nostri occhi assistiamo a situazioni fuori dalla norma, in positivo e negativo. Mantenere la lucidità, non farsi trasportare né inghiottire dalle emozioni, senza però perdere l’umanità o il rispetto verso chi si ha di fronte 

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?

Ormai l’avvento dei social media sta spostando sempre di più i cittadini al centro dell’informazione, come fonti dirette, rendendo molto semplice ottenere video o fotografie di un fatto in tempi brevissimi. Chiunque può immortalare un momento con il proprio telefonino, rendendo tutti possibili “reporter” di un fatto. Questa trasformazione ha cambiato ancora una volta il mondo dell’informazione. I Social possono essere sicuramente un ottimo strumento, ma il giornalismo sarà e deve essere sempre il filtro attraverso il quale descrivere la realtà nel modo più corretto possibile, senza sensazionalismi o essere di parte

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?

Negli anni il giornalismo ha sempre continuato a innovarsi e aggiornarsi per trattare al meglio diversi temi, soprattutto sociali. Per i giornalisti è fondamentale seguire le linee guida che dettano i comportamenti da tenere e il linguaggio più appropriato per trattare argomenti spesso delicati, come capita nel sociale. Basti pensare a come è cambiata l’informazione dopo la Carta di Roma o quella di Treviso, per citarne alcune. Il modo in cui ci rapportiamo alle notizie deve essere sempre mirato al rispetto della dignità personale, qualunque sia il tema affrontato, e aggiornare le proprie competenze è un passo fondamentale per riuscire a raccontare il mondo intorno a noi

9. Come é venuto a conoscenza del Premio giornalistico?

Tramite annunci su internet e per la segnalazione fatta dalla Scuola di Giornalismo di Perugia

Intervista a Anna Arnone

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?

Il giornalismo ha prima di tutto una funzione civile: offre la possibilità di ampliare l’orizzonte su realtà spesso ignorate o marginalizzate. Partecipare a questo premio rappresenta un’opportunità per valorizzare storie e volti. Infine, ma non meno importante, costituisce un’occasione di confronto con colleghi che condividono lo stesso impegno verso una comunicazione etica e responsabile.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?

Le storie vere parlano al cuore prima ancora che alla mente. Rendono concreti temi che altrimenti resterebbero astratti, permettendo al pubblico di immedesimarsi e comprendere meglio le dinamiche complesse di certe situazioni. Una buona narrazione può smuovere tante coscienze.

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Dare voce a chi non ne ha è, a mio avviso, uno dei compiti fondamentali del giornalismo. Significa rompere il silenzio attorno a storie che contano, offrire uno spazio di ascolto e legittimazione, contribuire a una società più equa e inclusiva.

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?

L’informazione non è solo cronaca ma è anche formazione civica. Le testate hanno la possibilità – e il dovere – di aiutare le persone a comprendere i fenomeni sociali, promuovendo consapevolezza e senso critico.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?

Serve rigore, rispetto e onestà. Il racconto deve essere coinvolgente, ma senza mai spettacolarizzare il dolore o semplificare eccessivamente. Dare profondità, contesto e voce diretta ai protagonisti è la chiave per evitare derive sensazionalistiche.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?

Una delle sfide principali è il rischio di strumentalizzazione o di rappresentazioni stereotipate. Un’altra, oltremodo importante, è ottenere la fiducia delle persone coinvolte che spesso hanno vissuto esperienze traumatiche o marginalizzanti. Infine, c’è sempre il rischio che questi temi restino ai margini dell’agenda mediatica.

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?

I social media possono amplificare storie importanti e raggiungere un pubblico nuovo, ma presentano anche rischi di polarizzazione e superficialità. Il giornalismo tradizionale può trarne vantaggio solo se riesce a mantenere la propria autorevolezza e profondità, sfruttando i social come strumenti e non come fine.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?

La formazione è fondamentale per sviluppare competenze non solo tecniche ma anche etiche e culturali. Affrontare temi sociali richiede sensibilità, conoscenza delle dinamiche in gioco e capacità di ascolto. L’aggiornamento continuo aiuta a evitare semplificazioni e a utilizzare un linguaggio rispettoso e inclusivo.

9. Come é venuto a conoscenza del Premio giornalistico?

Ne sono venuta a conoscenza leggendo sul sito del CNOG e ho subito sentito che rispecchiava il tipo di giornalismo in cui ciascun professionista crede: attento, umano e orientato al cambiamento sociale.

Intervista a Alessandra Moreschini

1. Cosa ti ha spinto a partecipare a un Premio Giornalistico con un tema così specifico e qual è il significato di questa esperienza per te?

Da sempre ho a cuore questi temi, avendo anche fondato un’associazione per il superamento delle barriere architettoniche e sensoriali (Ass. Festival per le città accessibili). È proprio grazie alla mia rete di conoscenze che ho coltivato negli anni di volontariato che ho conosciuto Simonluca Carletti, ragazzo con la distrofia muscolare di Duchenne, scrittore di romanzi fantasy. Una storia che andava raccontata e che ho potuto condividere grazie all’aiuto di Libero Stracquadanio. Entrambi conserviamo l’incontro con Simonluca e credo che avere questa sensibilità ci aiuterà molto nella nostra futura professione di giornalisti. Inoltre, la partecipazione al premio è un’opportunità in più per condividere e far conoscere la storia di Simoluca.

2. In che modo le storie di vita reale possono influenzare l’opinione pubblica sulle questioni sociali?

Entrare a stretto contatto con le persone, entrare nelle loro case e poter raccontare le loro storie da vicino è la maniera più forte per fare informazione su questi temi. Spesso si pensa alle malattie e alle disabilità astraendole dalla concretezza della quotidianità. Le stesse barriere architettoniche, per esempio, non sono comprensibili per le persone che non hanno mai fatto esperienza di una gamba ingessata. L’informazione può aiutare a far comprendere che quella barriera è un ostacolo non solo per chi ha una disabilità motoria, ma per tutta la società. Il percorso per questa comprensione è lungo e richiede la conoscenza delle tante storie, tutte diverse, di chi malattie e disabilità le vive sulla propria pelle.

3. Qual è la tua opinione sull’importanza di dare voce a chi non ce l’ha nel contesto della comunicazione sociale?

Il giornalismo, oltre a fare un’informazione basata sulla verità, dovrebbe essere la cassa di risonanza per tutte le istanze sociali che spesso rimangono inascoltate, soprattutto dalla politica. Da una parte, quindi, il giornalismo potrebbe essere importante per arrivare a traguardi politici in materia di salute, dignità e diritti. Dall’altra un buon giornalismo, sensibile a queste tematiche, è fondamentale per costruire un’opinione pubblica consapevole e pronta a salvaguardare i diritti di tutte le persone.

4. Ritieni che le testate giornalistiche abbiano la responsabilità di educare il pubblico su temi sociali? Perché?

Tutti i giornali dovrebbero dedicare parte della propria testata ad approfondimenti su temi sociali. Perché è quella la realtà del nostro Paese, è quella la quotidianità della maggioranza della popolazione che vive sulla propria pelle o su quella di un proprio familiare una malattia o una disabilità. Le testate giornalistiche hanno la responsabilità di raccontare con chiarezza e senza cadere nel sentimentalismo storie per troppo tempo lasciate ai margini. E che invece ci riguardano.

5. Come si può mantenere un equilibrio tra il sensazionalismo e l’oggettività quando si trattano argomenti delicati?

Far vedere e raccontare tutto per come è, senza il bisogno di troppe mediazioni. Lasciare che sia lo spettatore, il lettore o l’ascoltatore a farsi commuovere, senza dover edulcorare il racconto. L’empatia è certamente importante, ma deve essere reale. Il giornalista deve, in prima persona, essere coinvolto dalla storia che sta raccontando e capirne l’importanza di raccontarla. Una parola, credo, vada tenuta a mente: dignità.

6. Quali sono le sfide maggiori che affronti nel raccontare storie relative a tematiche sociali?

Credo che i media non siano pronti fino in fondo a un racconto onesto delle disabilità. Anche in televisione, sia in servizi giornalistici che di approfondimento, si vedono raramente storie un po’ più complesse, che si cercano di abbellire in ogni modo. Trovare un compromesso tra quello che “si può far vedere” e quello che invece vedi nella realtà non è così semplice. Ma la sfida più importante credo sia quella di trovare degli editori e dei direttori che consentano di trattare approfonditamente certe tematiche. C’è troppa poca sensibilità.

7. Come vedi il ruolo dei social media nel promuovere la comunicazione sociale e nell’influenzare il giornalismo tradizionale?
Molto positivamente. I social hanno consentito la condivisione di tutte quelle storie che non riuscivano a passare per i canali tradizionali. Su instagram posso imparare la lingua dei segni, seguire i viaggi di un’influencer in carrozzina, sostenere una ragazza con una malattia rara. Quando questi profili ricevono “traffico” notevole, poi dai social queste storie passano nei giornali e telegiornali. Quindi ben vengano i social, ma ai giornalisti poi il compito di fare informazione e approfondimento.

8. In che modo la formazione e l’aggiornamento professionale possono migliorare la qualità del giornalismo sociale?
Mettere in rete conoscenze e pratiche è la chiave per crescere professionalmente. La formazione in questo settore è fondamentale, vista la rapidità del progresso tecnologico e delle piattaforme digitali. Per quanto riguarda questo tema specifico credo che serva anche ad uscire dalla propria bolla.

9. Come sei venuto a conoscenza del Premio giornalistico?

Sono venuta a conoscenza del premio attraverso la Scuola di Giornalismo di Perugia, che attualmente frequento insieme a Libero Stracquadanio. Quando abbiamo letto il bando abbiamo pensato che potesse essere un’occasione preziosa per far viaggiare ancora un po’ più lontano la fantastica storia di Simonluca.