Intervista a Martina Martelloni

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono venuta a conoscenza del Premio attraverso una newsletter di giornalismo. Non partecipo quasi mai a premi e concorsi ma, in questo caso, ho pensato fosse la cosa giusta da fare per far conoscere ancora di più la storia di Carlotta, una bambina affetta da ittiosi arlecchino, malattia rara e ancora oggetto di molte ricerche in ambito medico.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Me lo auguro, sicuramente è una buona cassa di risonanza per arrivare a più persone possibili, anche a coloro che non gravitano nel mondo del giornalismo.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Non ho mai pensato ad una selezione di storie sulla base dell’impatto emotivo che hanno avuto su di me. Ho conosciuto e raccontato molte vite, in contesti completamente diversi tra loro. Eppure, credo che la storia di Yasamin, una giovane ragazza afghana conosciuta nel campo profughi di Lesbo, in Grecia, sia stata quella che più mi ha accompagnata per un certo periodo di anni.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Credo che esista solo l’autenticità del racconto di chi è protagonista di tale sofferenza.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Mi è capitato di dover misurare le parole o misurare le inquadrature delle immagini (foto e video) in quei contesti difficili dove la sicurezza delle persone incontrate – sia fisica che mentale- rischiava di essere messa a repentaglio proprio se raccontata la verità delle cose. In questi casi, per me, viene prima la dignità e l’integrità della persona. Sta a me e al mio lavoro, poi, il compito di raccontare, evitando che la persona che ha avuto fiducia in me rischi qualcosa per il solo fatto di aver parlato e condiviso.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Potrebbe essere molto di più di quello attuale.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Bisogna pensare all’intelligenza artificiale non tanto come un autore, ma come un possibile strumento anche in ambito giornalistico. Sta al professionista, poi, la capacità di manovrare questo ausilio senza però compromettere la propria serietà lavorativa.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Arrivare a più persone possibili, scuotere le menti, alimentare la    curiosità, aprire dibattiti e riflessioni sulla realtà circostante. Sensibilizzare e creare empatia.

Intervista a Marianna Grazi

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho conosciuto il Premio grazie a una collega, anche lei giornalista, che ha partecipato qualche anno fa e me ne ha parlato. Ho scelto di partecipare perché nel mio lavoro quotidiano di redattrice mi occupo spesso di temi quali la disabilità, la promozione dell’inclusione, le discriminazioni e, in generale, dell’ambito sociale, inteso come riguardante la società e le persone che la compongono.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Penso che ogni strumento di comunicazione, anche un premio giornalistico, perché no, possa contribuire alla sensibilizzazione su un dato tema, visto che comunque chi sceglie di partecipare lo fa consapevole e con la responsabilità di ciò che ha scritto o prodotto. In questo caso specifico la storia di Alessandra Bisceglia, la promozione del riconoscimento a suo nome, a mio parere spingono gli stessi giornalisti e giornaliste a una riflessione sull’opportunità di dare la giusta attenzione a certe tematiche, li portano magari ad occuparsene portando così alla luce testimonianze, storie, casi che altrimenti rimarrebbero nascoste nelle pieghe della società stessa.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ci sono molte storie che mi hanno colpito in questi anni e che ho scelto di raccontare, ma una di quelle che mi è rimasta davvero nel cuore è l’intervista fatta a Paolo “Dong Dong” Camanni, un ragazzo che una grave malattia (il retinoblastoma bilaterale) ha reso cieco alla nascita, nato in Cina, abbandonato dai genitori e poi adottato da una famiglia umbra straordinaria (che oltre a lui ha adottato o preso in affido altri bambini e bambine, anche con disabilità) grazie all’intervento di un giornalista, Luca Vinciguerra. La cosa straordinaria è che grazie alla mia intervista, letta appunto dal giornalista che aveva trovato quel bambino e si era speso per la sua causa, fornendogli tutti i documenti per il viaggio, Paolo ha potuto conoscere la famiglia che l’aveva aiutato a venire in Italia, e con cui era stato 2 mesi. Oggi è un campione di judo a livello internazionale, un pianista incredibile, scout e tanto altro.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Credo che più che una ricetta esista un concetto che vada sempre tenuto ben impresso nella mente, ovvero il rispetto. Per la persona con cui e di cui si parla, perché anche questo è importante, ricordare che si tratta di esseri umani che hanno malattie o disabilità o condizioni, hanno e non sono. Secondo me, da professionista dell’informazione è poi fondamentale mettersi in dubbio, non dare per scontato di saper raccontare al meglio una cosa solo perché si lavora con le parole ogni giorno, chiedere prima come una persona vuole essere raccontata se possibile, fare chiarezza sui concetti da usare e, altra cosa fondamentale, evitare il più possibile il pietismo. Alcune persone soffrono già abbastanza ogni minuto della loro vita, non c’è bisogno di raccontarlo accentuando questo aspetto. E questo devo dire che ho imparato e sto ancora imparando a farlo, perché spesso è capitato anche a me di finire nelle maglie dell’abilismo o del racconto fatto solo per impietosire il lettore. Mea culpa.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Ho incontrato barriere non nel raccontare ma dopo aver raccontato, da persone esterne all’oggetto e ai soggetti della storia, che hanno criticato sia il modo di farlo (quando però la persona intervistata o chi per lei invece non ha avuto alcunché da ridire o anzi mi ha ringraziato per aver portato alla luce la loro vicenda) o, e questo è ancora peggiore, da chi ha commentato dicendo che di quella storia non importava a nessuno, non era di interesse pubblico e quindi era stato uno spreco di risorse/tempo raccontarla. 

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Negli ultimimissimi anni, diciamo dalla pandemia in poi, ho notato una maggior apertura del giornalismo (soprattutto online) verso le tematiche sociali. Manca ancora forse un’organicità nell’occuparsene, rimangono spesso questioni sporadiche, ma penso si stia dando finalmente uno spazio a questioni che prima rimanevano molto nascoste. Non è ancora abbastanza ma un passo avanti secondo me c’è stato.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Penso che l’intelligenza artificiale possa essere una risorsa indispensabile e debba essere considerata tale visto che il processo verso le nuove tecnologie è stato ormai avviato e non penso si possa fermare. Al momento però mancano gli strumenti e una regolamentazione chiara sull’utilizzo di questi, lasciando alle singole realtà giornalistiche l’onere di occuparsene. Con scarsi risultati d’insieme o, peggio, problemi ed errori che ad oggi fanno più clamore dei risultati positivi raggiunti.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere una buona giornalista secondo me significa mettermi a disposizione (non a servizio, non deve essere inteso come servilismo) della comunità, per fare da megafono a quello che succede con un’attenzione particolare a chi non ha voce. Nel rispetto di chi parla e nel rispetto di chi ascolta o legge, non con imparzialità ma con equilibrio, alla ricerca sempre della verità, bella o brutta che sia.

Intervista a Luca Ciciriello

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho scoperto il premio giornalistico intitolato ad Alessandra Bisceglia su alcune testate giornalistiche digitali. Dopo aver appreso la notizia e avendo realizzato un lavoro sui temi oggetto del bando, ho deciso di parteciparvi.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Certo. Può contribuire a orientare il lavoro dei professionisti sul campo e, quindi, promuovere alcuni temi.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Certamente la storia che ho raccontato nel pezzo con cui ho partecipato al Premio. Ma, sino ad ora, nella mia piccola carriera giornalistica mi ha molto colpito la storia di una donna vittima di violenze e abusi da parte del marito (oggi fortunatamente ex).

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Ascoltare profondamente e con consapevolezza la vittima di una sofferenza, entrare in empatia con lei ed essere, poi, onesto nel racconto.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

No, proprio perché ho cercato di mettere in pratica gli ingredienti di cui parlo sopra.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Così, così. Oggi il giornalismo è rapido, le notizie si consumano nell’arco di poche ore. Invece, le tematiche sociali necessitano di tempo per la comprensione e, quindi, per l’analisi e il racconto.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

In generale (e, quindi, anche per la comunicazione sociale) non credo che l’intelligenza artificiale possa essere un rischio per il giornalismo. Piuttosto, credo sia un supporto nel lavoro quotidiano, che permette di dedicare più tempo ad azioni (si pensi all’analisi, alla riflessione) per cui è importante l’attività umana. Se, ad esempio, l’intelligenza artificiale mi aiuta a rendere testo una nota vocale, questo mi consentirà di risparmiare ore di lavoro che riservo per lo sviluppo della notizia.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Ascoltare l’altro, decentrarsi ed essere di servizio alla comunità oltre che onesto e non parziale.

Intervista a Lavinia Sdoga

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono venuta a conoscenza del Premio Alessandra Bisceglia grazie alla comunicazione inviatami dal Master di Giornalismo dell’Università di Bologna (di cui sono studentessa).  

Mi è sempre piaciuto scrivere e trattare di temi sociali, in particolar modo di quello della disabilità: per questo ho deciso di prendere parte al concorso.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Credo vivamente di sì. Un Premio Giornalistico porta alla realizzazione di testi e prodotti informativi che, se trasmessi e veicolati nel giusto modo, possono suscitare all’interno della comunità una maggiore sensibilità e attenzione sui temi trattati.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

In questi due anni di Master ho avuto modo di trattare varie tematiche (sociali) e di raccontare diverse storie. In generale, a essermi rimasta più a cuore, è stata l’esperienza di Angelica, una giovane ballerina di venticinque anni che è riuscita a uscire dal tunnel dell’anoressia nervosa. L’articolo è uscito sul periodico InCronaca (testata del Master di Giornalismo dell’Università di Bologna) e s’intitola “Il peso della leggerezza. Quando la danza perde la sua poesia”.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?
Non lo so ma, qualora esista, non credo di conoscerla. Personalmente, credo che i racconti di sofferenza richiedano inevitabilmente un contributo soggettivo, una buona dose di pathos ed empatia. Non riesco a raccontare storie – specialmente se si tratta di storie di sofferenza – senza far percepire nel testo un mio coinvolgimento, una totale vicinanza e immersione rispetto a ciò di cui sto parlando.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?
Non particolarmente. Tuttavia, credo che quando si raccontano storie di questo tipo l’unica “accortezza” da tener sempre a mente riguarda la modalità di scrittura. Occorre raccontare con sensibilità e delicatezza, scrivere con garbo, non usare termini smodati, avere rispetto per la sofferenza altrui, essere contenuti e non sfociare nell’esagerazione (anche dal punto di vista del pathos, non strafare con toni eccessivamente struggenti).

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?
Abbastanza, ma forse se ne potrebbe dedicare ancor di più.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?
Entrambi. Sotto alcuni punti di vista credo sia un valore aggiunto, poiché può essere utilizzata per velocizzare e alleggerire alcuni aspetti del lavoro (vale a dire: aspetti che, appunto, possono essere svolti meccanicamente e in modo automatico). Tuttavia, nel giornalismo, vi sono compiti ed elementi per cui l’intelligenza artificiale non si potrà mai sostituire all’uomo; nel caso questo succedesse diventerebbe un rischio.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?
Raccontare la realtà per quella che è e informare la comunità in modo veritiero, giusto, corretto. Lo scopo del giornalista non è quello di suscitare scalpore o ricercare lo scoop, ma di trattare i fatti per quelli che sono, così da sensibilizzare e accrescere conoscenze nella comunità.

Intervista a Emanuele Bussa

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono venuto a conoscenza del premio tramite il sito web. Ho pensato che la storia che avevo appena pubblicato, riguardo il mio recente viaggio in Ucraina, potesse essere adatta a concorrere.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Non credo che un Premio Giornalistico da solo possa bastare, ma il continuo impegno a trattare queste tematiche e raccontare storie riguardo questo argomento, affrontato da punti di vista differenti, può sicuramente contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia che mi ha segnato più profondamente è stata quella relativa al viaggio dei migranti dall’Italia alla Francia lungo il passo della Morte (pubblicata su Global Voices). Seguirli durante il loro viaggio al fine di comprendere tutte le sfide e gli ostacoli che hanno dovuto superare è stato davvero difficile emotivamente. Anche la storia riguardante la situazione dei civili in Ucraina mi ha segnato profondamente, soprattutto essere testimone della loro sofferenza senza poter fare nulla nell’immediato per aiutarli.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non esiste ricetta per l’oggettività. Bisogna comprendere la situazione e raccontarla cercando di esplorare i diversi punti di vista. Ovviamente è impossibile rimanere impassibili di fronte alla sofferenza. Bisogna però ha il dovere di raccontarla attenendosi ai fatti reali, provando ad immedesimarsi, ma senza perdere di vista la realtà.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

A volte le stesse persone che soffrono non vogliono che qualcuno li veda in quelle condizioni e racconti il loro dolore. Quasi come se ne vergognassero. Spesso sono quindi queste stesse persone a porre ostacoli o barriere che non vogliono vengano superate.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Il giornalismo moderno fornisce uno spazio adeguato, ma, a mio parere, deve concentrarsi di più sulle persone, ponendole al centro della storia, per poi raccontare l’intero contesto.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

L’intelligenza artificiale così come i social media possono essere sicuramente un valore aggiunto. Tuttavia è necessario stabilire delle regole precise da dover seguire. Il rischio più grande è la diffusione di fake news.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Mi è stato insegnato che il giornalismo riguarda le persone. Una buona storia deve essere sempre incentrata su una persona o su un gruppo di persone. Essere un buon giornalista significa essere interessato a conoscere chi ti sta davanti, confrontarsi e discutere. In pratica essere in grado di rapportarsi e lavorare con altre persone, sempre nel massimo rispetto reciproco. Solo in questo modo si può crescere individualmente e professionalmente.

Intervista a Christian Valla

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho scoperto il Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia dal sito dell’Ordine dei Giornalisti e ho deciso di partecipare perché la diffusione della comunicazione sociale, per esempio sulle malattie rare, è un tema al tempo stesso delicato e di importanza primaria.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Sì, lo può fare perché attraverso la visione dei lavori presentati si prende coscienza e consapevolezza della tematica sociale in questione, sviluppando un senso critico che porta alla soluzione o comunque al confronto e alla riflessione su una possibile situazione da risolvere.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia di Alessandro, un ragazzo ventenne di Torino che per muoversi deve usare una sedia a rotelle. Mi ha segnato molto la sua umanità e la sua pazienza, il fatto di far valere i suoi diritti senza mai alzare la voce, non è facile rimanere sempre lucidi.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Se esistesse una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività si perderebbe tutta la peculiarità del racconto stesso. È giusto raccontare la sofferenza con aspetti soggettivi, proprio perché ogni storia è a sè e l’oggettività in questo caso appiattisce. Senza mai chiaramente sfociare nel pietismo.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Una volta nel raccontare una situazione di sofferenza mi è capitato di immedesimarmi troppo nella vicenda, provando così anch’io una sensazione di forte dolore e sofferenza. Il racconto deve essere quanto mai accurato e se il giornalista si carica troppo di dolore, la storia potrebbe essere “ di parte”. Il giornalista si può indignare, ma il messaggio non deve essere inquinato da prese di posizione.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Secondo me si può e si deve fare ancora molto. I temi che il giornalismo potrebbe affrontare e di cui vedo ancora poca trattazione devono far riferimento ad una commistione di vissuti, cronaca, esperienze condivise ed esperienze che al di fuori della nostra realtà spesso non sono comprese. La vera forza di questo tipo di giornalismo è la continua riscoperta della vita, una vita che non si nasconde, ma che pone dubbi, che attraversa l’incertezza per acquisire l’unica certezza che possiamo avere: che siamo tutti esseri delicati e fragili, ma che grazie alla sincerità di uno sguardo che accoglie, che indaga senza giudicare, che si apre al diverso, possiamo costruire mattone dopo mattone, una società più umana e armonica.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

L’intelligenza artificiale può aiutare i giornalisti per esempio a scoprire nuove storie, verificare le fonti, migliorare la precisione e l’efficienza all’interno delle redazioni, nonché contribuire a adattare i contenuti alle preferenze del pubblico. Tuttavia, sorgono quotidianamente anche sfide etiche e pratiche legate all’uso dell’IA nel giornalismo, come la trasparenza nell’uso degli algoritmi, la protezione della privacy e la garanzia della qualità e dell’equità dell’informazione. E poi c’è l’aspetto umano: c’è il rischio che l’IA non riesca a costruire un’esperienza di lettura diversificata, sempre più ricca e sempre più inclusiva, cosa che i giornalisti devono deontologicamente ed eticamente fare.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Un buon giornalista deve dar voce a chi non ha voce. È uno strumento a cui la cittadinanza può far riferimento, è una sentinella sociale.

Intervista a Cesare Zampa

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ne sono venuto a conoscenza navigando sul sito del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, che consulto spesso. Mi è subito sembrato un ottimo modo per portare in luce le troppe difficoltà con cui, ogni giorno, devono fare i conti tutte le persone affette da disabilità. Barriere culturali e architettoniche che, soprattutto noi operatori della comunicazione, abbiamo il dovere (se non altro morale) di contribuire ad abbattere con il nostro lavoro, i nostri articoli, le nostre interviste. Raccogliamo le testimonianze per offrirle a lettori, telespettatori e ascoltatori. Farsi da tramite tra i soggetti diversamente abili e l’opinione pubblica significa rendere partecipe la comunità di una serie di criticità che, se ignorate, rischierebbero di passare in sordina, soffocando i diritti dei soggetti in questione. Penso che premiare il lavoro svolto dai colleghi in un ambito così delicato sia un modo per plaudere al coraggio e alla voglia di andare avanti degli uomini e delle donne che trovano voce anche attraverso il nostro lavoro. Farlo nel nome di Alessandra Bisceglia, incredibile esempio di umanità e forza di volontà, credo sia stata una scelta giusta oltreché doverosa.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Come in tutti gli eventi, dipende dalla risonanza mediatica riservata all’iniziativa. In gergo si dice che “tutto fa brodo” ed è vero. Ma se la minestra non viene servita al commensale, nonostante la dedizione dei cuochi, nessuno ne potrà mai assaporare la qualità, interessandosi alla relativa preparazione. Un Premio giornalistico ha sicuramente un grande valore per gli addetti al settore; la vera sfida è riuscire a suscitare qualcosa anche al di fuori della cerchia professionale, perché l’opinione pubblica possa “gustare” le tematiche affrontate, interrogandosi sulle “ricette” da poter realizzare anche a casa. E il tema della disabilità non fa eccezione.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

In genere quelle legate a casi di cronaca nera, perché sono le storie terribili e dalla straordinaria tragicità capitate a persone comuni, che potremmo essere noi stessi, un nostro parente, un amico o un vicino. Eventi che sentiamo sempre lontani da noi, come se non ci riguardassero. Sono fatti in cui, malgrado l’approccio professionale, non si riesce a restare completamente distaccati, rendendo inevitabile una riflessione e la volontà di fare sì il nostro lavoro, ma con l’imprescindibile tatto che ogni evento tragico impone. Specialmente nel raccogliere le testimonianze e, con esse, il dolore dei protagonisti o delle persone a essi vicine.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non credo ci sia una “ricetta”, quanto piuttosto una forma di empatia individuale, variabile da giornalista a giornalista. Un limite che ognuno di noi, nel lavoro come nella vita, si impone e decide di non superare. Raccontare i fatti in modo oggettivo e ascoltare l’interlocutore senza insistere sui particolari più dolorosi sarebbe già una bella “dotazione di base”. Lo scoop non si fa sulla sofferenza altrui, ma sulla capacità di un giornalista di approdare laddove nessun altro era mai arrivato.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Le uniche barriere sono state quelle imposte dalla mia coscienza. Il lavoro mi ha portato a raccontare diverse storie di sofferenza: donne vittime di violenza, disabili talvolta dimenticati dalle istituzioni, reati commessi da giovanissimi (in alcuni casi minori). Nessuno mi ha mai detto “questo puoi scriverlo” o “questo non raccontarlo”. Oltre alla deontologia professionale, che già disegna un recinto di regole entro cui potersi muovere, tutto il resto dipende dalla sensibilità e dalla correttezza di chi fa questo lavoro. C’è chi racconta la sofferenza senza farsi troppi scrupoli, purtroppo a volte premiato anche dall’opinione pubblica; e chi invece si accontenta di fare bene il suo lavoro, anche a beneficio dei soggetti raccontati, senza preoccuparsi di numero di copie vendute o dello share.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Dà spazio, ma non adeguatamente. Le tematiche sociali spesso riguardano argomenti che in molti non avvertono sulla propria pelle e che non catturano l’attenzione, poiché non rispondono alla logica delle tre “S”: sesso, sangue e soldi. Logica che rischia di soppiantare la regola delle cinque “W”. Anche nel caso della disabilità, purtroppo, i soggetti interessati sono quelli che vivono la problematica in prima persona, i volontari delle associazioni operanti nei diversi territori e pochi altri. Il giornalismo deve occuparsi di ciò che è di pubblico interesse e se l’interesse sulle questioni sociali non è molto elevato credo non sia esclusivamente colpa dell’informazione. Bisognerebbe insistere con le iniziative di sensibilizzazione, come, per esempio, gli incontri nelle scuole, per costruire una società più consapevole sin dalla tenera età.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

La questione è complessa e non può ridursi a un duello tra “Apocalittici e integrati”, per dirla con Eco. Tutto dipende da come usiamo l’intelligenza artificiale. Se la dominiamo, utilizzandola come mero strumento al servizio del nostro lavoro, allora può essere sicuramente un valore aggiunto, in grado di rispondere alla moderna logica del “fast journalism” senza compromettere la qualità dei prodotti editoriali. Se invece ci facciamo dominare da essa, demandando a una macchina il compito di pensare e agire al posto nostro, allora sarà un rischio non indifferente per la comunicazione in generale, non soltanto sociale. Bisogna stabilire delle regole comuni per capire fin dove affidarsi all’IA e dove, invece, è opportuno l’intervento della persona. Nessuna rivoluzione tecnologica potrà mai creare qualcosa in grado di pensare e agire secondo coscienza; per far questo, la macchina perfetta c’è già: l’essere umano.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Non essere mai sicuro di esserlo, ma provare a diventarlo con tutte le forze. Studiare, informarsi, scavare, porsi e porre sempre domande, avere poche certezze e approcciarsi a ogni situazione con umiltà, senza presumere di sapere, affidandosi ai più esperti e fidandosi dei loro consigli. Mantenere buoni rapporti con i colleghi e le fonti, senza mai perdere di vista lo spirito solidale e il rispetto verso il pubblico. Penso al giornalista come a una persona perennemente imprigionata nell’età dei “Perché?”, che, se smette di crescere e imparare, smette di essere un professionista.