Intervista a Luisa Venturin

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho saputo del Premio tramite i social network ed il sito dell’Ordine dei Giornalisti. Ho pensato di partecipare perché credo sia importante raccontare l’impegno di persone come Giuseppe che, vivendo in prima persona la disabilità, si adoperano per rendere la collettività, e in particolare i giovani, sempre più consapevoli a riguardo; affinché ciò non sia più considerato un “tabù”.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Sì, ritengo che sia un contributo prezioso che arricchisce la comunità. Tutto ciò che favorisce il confronto e la condivisione, a mio modo di vedere, è fonte di crescita per la società.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Il servizio accende i riflettori sulla storia personale di Giuseppe Flore, giovane veronese di 34 anni, disabile fin dalla nascita in quanto affetto da spina bifida. Un ragazzo che, affidandosi alla forza della scrittura, dando vita alla sua prima opera autobiografica, ha deciso di raccontare la propria infanzia e le tante esperienze vissute negli anni, conducendo così il lettore in un viaggio alla scoperta del mondo della disabilità, ma al contempo di accessibilità e inclusione nei luoghi di lavoro. Desiderio di Giuseppe è infatti quello di parlare sempre più, in particolare con i giovani, di questa realtà proprio per contrastare la frase che, fin da bambino, si è sempre sentito dire in riferimento al suo modo insolito di camminare: “Zitto che ti sente”. Così è nato il suo primo omonimo libro che, come l’autore racconta vuole essere un inno a non tacere.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

A mio avviso non esiste una “ricetta” preconfezionata. L’importante è seguire la deontologia professionale, che è ciò che caratterizza l’attività e l’operato di un giornalista.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

No, non mi è mai successo di incontrare barriere; esprimendosi con onestà, imparzialità e seguendo quanto indicato dalla deontologia professionale, punto sempre a svolgere un buon lavoro, raccontando anche quello che a volte può essere umanamente triste.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Penso che si potrebbe implementare ulteriormente quanto già viene fatto, a partire dall’affrontare tali tematiche anche in sede di esame professionale, così da accrescere la consapevolezza di chi sogna un futuro in questo settore su tali tematiche.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Ritengo che l’intelligenza artificiale possa essere un valore aggiunto comportando un’evoluzione anche nel campo della comunicazione così da accrescere ulteriormente la diffusione delle tematiche sociali.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Un buon giornalista è a mio avviso una persona che svolge il proprio lavoro con onestà, imparzialità, seguendo sempre quanto indicato dalla deontologia professionale. Un professionista che, con passione, si adopera a favore della comunità per raccontare quanto accade.

Intervista a Lamberto Rinaldi

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono due anni che partecipo al Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia, conosciuto attraverso i social e il sito dell’Ordine dei Giornalisti. Grazie a questa partecipazione ho potuto conoscere non solo un concorso, ma anche un’associazione e tanti colleghi che svolgono con passione e determinazione il loro lavoro, parlando di temi spesso sottovalutati, facendo informazione e sensibilizzazione.

Ho deciso di partecipare per mettermi alla prova, innanzitutto, e per riflettere su quello che sto facendo. Partecipare al premio è stata infatti l’opportunità per guardare il mio operato, interrogarmi sui temi che affronto, sulle parole che uso, sull’impatto che possono avere i miei articoli. È stata una sfida bella, interessante ma soprattutto utile.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Secondo me sì, perché può spezzare il silenzio che ruota intorno a determinati argomenti, dare visibilità alle questioni sociali, informare, sensibilizzare ed educare a determinati temi. Un premio come il vostro, poi, ha il merito di creare una comunità, uno spazio di confronto e di condivisione, che può spingere a un diverso impegno professionale e non solo.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Quella con cui ho partecipato a questa edizione del premio, la storia di Maurizio Castelli, il portiere con la protesi che insegue i suoi sogni sul campo di calcio mi ha dato una carica e gioia inaspettata. La forza con cui Maurizio rispondeva alle mie domande mi è rimasta impressa, così come la sua tranquillità, la sua determinazione. Ma ce ne sono tante altre, storie nascoste, che rischiano di rimanere nell’anonimato e che invece meritano di essere raccontate: come Maurizio, che a Faleria, il mio paese, dopo aver perso tutto ha creato la bancarella di libri più piccola del mondo o la storia del Pineto United, squadra di richiedenti asilo di Roma Nord nata grazie alla passione e alla determinazione di tanti, uomini e donne. E poi la nazionale di pazienti psichiatrici, la “Crazy for Football” oppure Vincenzo, pescatore di uomini di Lampedusa. Siamo pieni di storie da raccontare.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non so se esista una ricetta sicura, infallibile, per raccontare la sofferenza. Di certo penso che si debba raccontare con equilibrio e rispetto, mettendo al primo posto la dignità della persona o delle persone coinvolte, stimolando riflessioni e cercando l’empatia di chi legge, sì, ma senza perdere di vista l’equilibrio tra emozione e fatti

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Le barriere che ho incontrato, spesso, erano barriere che costruivo io stesso. Avevo timore di poter toccare ferite, cicatrici, momenti che era meglio non toccare. Forse l’ho fatto per inesperienza, per scarsa convinzione, ma come dicevo prima ho cercato sempre di mettere al primo posto il rispetto della persona e non inseguire il titolo, la notizia, il sensazionalismo a tutti i costi.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Secondo me sì, anche grazie all’evoluzione dei media, alla digitalizzazione e all’arrivo di nuove generazioni di giornalisti, più attenti e più vicini a determinate tematiche. Nel panorama giornalistico di oggi non esistono più solo le grandi piattaforme, i grandi giornali e le grandi agenzie, esistono anche blog, siti, spazi di informazione spesso gestiti dal basso, con progetti e idee diverse. Mi piacerebbe fare un nome, a questo proposito, di una giornalista che ho potuto scoprire proprio grazie al vostro premio: Simona Berterame, di FanPage. Le sue inchieste, i suoi video, la sua capacità di raccontare storie sia con le parole scritte che con le immagini, rappresenta bene una sensibilità nuova verso le tematiche sociali e non solo.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Le potenzialità dell’IA sono incredibili e possono tornare utili a diversi settori, anche a quello del giornalismo. Come tutte le cose, però, serve conoscenza, informazione, comprensione. Bisogna capire quali rischi si corrono per quanto riguarda la qualità e l’accuratezza dell’informazione, l’utilizzo di dati personali, la diffusione di fake news, di immagini e video manipolati. Non ultima, poi, c’è la questione posti di lavoro. Rimane però uno strumento che può essere veramente un valore aggiunto per la nostra professione. Basta saperlo conoscere e usarlo nella maniera corretta.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Sono due i motti a cui mi rifaccio per provare a essere, innanzitutto io, un buon giornalista. Il primo è di Gianni Mura: “Saper fare un uovo in padella non fa di me uno chef”. Il secondo è “Andare, guardare, cercare di capire, raccontare”. Con il tempo di internet tutti possono essere giornalisti, scrivere articoli, riportare notizie. Per farlo in maniera vera, positiva, bisogna avere spirito critico, bisogna uscire, non restare incollati a uno schermo, scavare e svelare, ascoltare e cercare. Solo così le storie, le persone, i luoghi, saranno raccontati in maniera vera.

Intervista a Clarissa Rachele Poli

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono venuta a conoscenza del Premio tramite la newsletter dell’Ordine dei giornalisti della Toscana. Ho scelto di partecipare poiché ritengo che il lavoro fatto con Alessia, e in generale quello portato avanti con la testata Plaple TV, possa essere da stimolo a tanti che vivono momenti di difficoltà. La scelta editoriale mette l’accento sulla possibile soluzione, sulle storie di chi si impegna ogni giorno, andando oltre la semplice denuncia del problema.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Credo che gli esempi positivi possono fare la differenza. Ogni progetto, editoriale ma non solo, può contribuire a generare il cambiamento. Se si convince anche una sola persona che è possibile, vale la pena impegnarsi. Non esiste il tanto o il poco, esiste il fare e l’impegnarsi.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ci sono state due storie che in particolare mi hanno colpito. Quella di Alessia sicuramente, poichè una ragazza che ha subito e vissuto tanta sofferenza, ma che ha scelto di farne la sua forza e di lasciare nel mondo un’impronta positiva, sorprendendo tutti quelli che hanno cercato di tarparle le ali.

Un’altra storia che mi ha colpito è quella di Francesco, un ragazzo nato senza braccia né gambe, abbandonato alla nascita, oggi artista e imprenditore, che nel tempo libero si diletta anche con la musica. Una determinazione, una tenacia e una gioia che ispirano e non lasciano indifferenti. Come Alessia, non si è lasciato sconfiggere dalla sua storia, ma ha fatto della sua vita un vero capolavoro.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Il tema della sofferenza non è facile ma molto abusato. Credo che sia giusto parlarne, ma in un approccio di vero ascolto delle storie e sempre con un’ottica di rinascita. Credo che il lavoro del giornalista abbia il più bell’obiettivo che esista: far luce sui temi, ma anche essere un mezzo perché  le cose possano cambiare. Ecco, io credo che tutto parta da un vero atteggiamento di ascolto e corretta interpretazione.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Mi è capitato di incontrare storie così forti e difficili da sopportare, figuriamoci raccontare. La fortuna, però, è stata l’aver incontrato persone che di quella sofferenza ne hanno fatto poi la loro forza. La vera testimonianza della luce in fondo al tunnel.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Credo che si possa fare un lavoro molto più approfondito sul tema sociale. Ci soffermiamo troppo sul dramma e poco sulla soluzione da trovare o, a volte, già trovata. Ci sono tante realtà che si impegnano quotidianamente nel sociale e credo che sia giusto dare spazio anche a loro. Senza ovviamente togliere attenzione e rispetto alla sofferenza, ma credo ci si debba rimboccarsi le maniche più che piangersi addosso (parole di Francesco).

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

È un argomento delicato quello dell’intelligenza artificiale. Dove c’è un vantaggio c’è anche un danno dall’altra parte e viceversa. Credo che sia una grandissima opportunità, ma ancora siamo lontani da quella evoluzione. Credo, e spero, ci arriveremo presto.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Ho sempre sentito un grande senso di giustizia e di verità. Per me essere un buon giornalista è ricercare giustizia e verità sempre, anche a discapito del proprio tornaconto personale, anche a costo di riconoscere di aver sbagliato.
Credo anche che il giornalismo possa essere veramente mezzo non solo per cambiare e ispirare l’opinione pubblica, ma anche per portare avanti progetti utili ai più.

Intervista a Estefano Tamburrini

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho saputo del premio grazie alla segnalazione di una persona e poi, nell’approfondire, ho letto la storia di Alessandra Bisceglia. Tre gli elementi che mi hanno colpito della sua biografia, di un’intensità che compensa la brevità della sua età. Cent’anni vissuti in quasi trenta. Il primo elemento è la capacità di trasformare la fragilità in un punto di forza. Il secondo riguarda il rapporto armonico con il tempo, sebbene ne avesse poco a disposizione. Alessandra è riuscita a realizzare sé stessa nonostante gli ostacoli. Di qui il terzo, e non meno importante, che riguarda il valore sostanziale di una persona al di là dell’esteriorità. Potrei dire che sia stata la sua storia a farmi partecipare. Perché una vita così ci interpella laddove la narrazione dominante è tuttora rapita da un’estetica superficiale che spesso non corrisponde alla realtà sociale. Una realtà fatta di fragilità, vulnerabilità, senso del limite. C’è un pezzo di Bisceglia in ciascuno di noi, che tuttavia viene rimosso dalle maschere che indossiamo per apparire più forti.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Sì, se si parte dal presupposto che la fragilità dell’altro è specchio delle nostre vulnerabilità. Lo si può fare magari evitando una narrazione celebrativa del «bene» che si fa attraverso i progetti e iniziative di vario genere e ricordando che si tratta semplicemente di un atto di giustizia. Qualcuno diceva: «Non sia dato per carità ciò che è dovuto per giustizia». Poi, il giornalista che racconta il «sociale» restituisce alla comunità uno spaccato di umanità che talvolta essa perde nel cammino.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ho proposto un articolo sull’Istituto Charitas di Modena dal quale mi ha colpito il desiderio di fare bene il bene. Il racconto corrisponde alla presentazione di due certificazioni (Iso 9001 e Uni 11010) tramite le quali l’ente residenziale, che accoglie centinaia di ospiti, ha deciso di munirsi di una formazione permanente per essere al servizio delle persone disabili e delle famiglie che vi fanno affidamento. Ciò che emerge, anche nel sommario della pubblicazione, è che non basta la buona volontà ma servono competenze. Ed è questo un modo per amare e rispettare la persona con cui si lavora.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Provo perplessità ogni volta che si parla di ricette, perché la conoscenza della realtà è sempre parziale. Tuttavia c’è uno stile che ci aiuta a raccontare la sofferenza: trattare la persona come soggetto, titolare di una dignità e partecipe a pieno titolo della comunità, anziché come oggetto di cura. Nulla di nuovo sotto il sole, ma è il principio della dignità che spesso salta.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo? Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Sì. E penso sia un problema di immaginario collettivo. Quando si parla di sofferenza sembra che spesso si parli di «altro da noi» e non su una condizione che costituisce l’esistenza umana. Siamo tutti fragili e ce ne accorgiamo nella malattia, nel dolore, nella caducità della vita stessa. Forse tardi, ma ce ne accorgiamo. Esistono però due limiti, e il giornalismo ha grandi responsabilità: il primo è la bulimia informativa del nostro tempo che concentra l’attenzione sulla cronaca, ignorando spesso il contesto. Ad esempio, il racconto che si fa dei quartieri periferici è spesso limitato alla cronaca nera mentre le buone pratiche non fanno notizia. Vedete solo il caso di Tor Bella Monaca a Roma, dove vi è tessuto associazionistico ricco che tutti i giorni cerca di costruire una comunità coesa. Tuttavia, di Tor Bella Monaca si parla quasi esclusivamente per altre ragioni. L’altro è il paradigma dei grandi numeri: spesso ci si ferma su un approccio quantitativo – statistico – sui malati e sui poveri senza tener conto, come dice Caritas Italiana, delle storie e dei volti che rendono più complessa la realtà.

6. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

È un rapporto mezzi-fini che va regolamentato. Il problema però siamo noi, non lo strumento. L’IA può facilmente adoperare una ricerca in tempi brevi e fare un lavoro di «segretaria» su molte cose. Tuttavia, se si impiega l’IA senza un’adeguata verifica delle fonti – e cioè del bacino di dati da cui lo strumento attinge si viene a mancare alla deontologia stessa. Tutti gli strumenti sono buoni, ma dipendono dall’uso umano che se ne fa. La calcolatrice, ad esempio, è utile a fare operazioni semplici e complessi. Se però l’umano smette di fare calcoli mentali si perde un patrimonio, come è in parte successo.

7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Difficile, oggi, essere un buon giornalista: il precariato lavorativo è diventato anche esistenziale, impedendo di essere creativi e togliendo profondità all’osservazione e alla narrazione. Diciamo che un buon giornalista deve abitare le soglie e le feritoie della società. Far emergere ciò che spesso non si vede: e in questo caso parliamo sempre delle fragilità, che sono un grande rimosso nella società del neoliberismo e della competizione. Serve però essere liberi di farlo ed essere responsabile. C’è infine un altro elemento, già citato da Leonardo Sciascia, che è quello dell’immedesimazione. Per raccontare l’umano occorre non essere estranei alla vita, ma esserci dentro con tutte le sue ricadute.

Intervista a Cristina Da Rold

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono a conoscenza del premio da qualche anno, credo di averlo saputo navigando in rete, o tramite social media. Ho inviato un mio lavoro perché mi sembra che l’impegno della vostra associazione sia in linea con il mio impegno personale come giornalista sanitaria nel cercare di fare buona informazione.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Per dare una risposta seria bisognerebbe disegnare uno studio che misuri questo impatto 🙂 Non me ne sono mai occupata, quindi posso limitarmi a dire che le testimonianze, l’esempio sono forse la strada principale per diffondere buone pratiche. Questo mi sembra facciate con l’associazione, e non può che essere una goccia che va nella direzione giusta.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ho curato a lungo una rubrica che si intitolava VitePazienti, che raccontava le storie di chi viveva la malattia propria o di un parente da vicino. Una storia estremamente dolorosa per me è stata quella di una madre che perse il figlio di 10 anni per una malattia mitocondriale. La voce di quella mamma era tutto nel mio racconto, e non sapevo come rendere l’atrocità che io sentivo. Ne sono uscita piangendo duramente e non so se sono riuscita a rendere ciò che volevo. È stata un’esperienza per me indimenticabile.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Io nel mio piccolo cerco di raccontare il dolore che la persona ha piacere di condividere senza raccontare questo dolore in terza persona, come un romanzo, ma sempre in prima persona, usando il virgolettato, lasciando che la persona si legga, che non venga letta. Non so se ci riesco.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Le uniche barriere che ho incontrato sono le mie: talvolta per motivi personali – periodi miei particolarmente difficili  per esempio in termini di malattie in famiglia – ho rinunciato a raccontare delle storie perché triggeravano troppo di me. Ma è capitato solo qualche volta, per il resto mi sono forzata, ho provato ad andare oltre me, e quelle volte ho scoperto quanto le storie, la condivisione, andare dentro il dolore che sembra inaffrontabile, sia alla fine una terapia.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Dipende dal giornale, dal giornalista. Alcuni giornali – penso ad Avvenire in primis – lo fa benissimo, raccontando fenomeni, storie di gruppo, non solo le storie individuali, che riempiono molto di più i nostri media.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Dipende. Per noi semplici giornalisti può essere un aiuto nel maneggiare grandi quantità di dati, ad esempio, o per svolgere compiti lunghi e noiosi permettendoci di concentrarsi sul dialogo con le persone a cui vogliamo dare voce, o sul senso che secondo noi i dati hanno. È un rischio demandare tutto il copy e la pubblicità all’IA (ma questo già non è giornalismo). L’IA può aiutare a fare sintesi, a darci una prima bozza, ma non a interpretare. Il rischio non è insito nell’IA: lo creano coloro che pensano l’informazione e decidono quanto spazio dare a questi sistemi.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Dare voce a chi non ce l’ha, per denunciare ingiustizie, abuso di privilegi e le conseguenze che ancora non vediamo di queste dinamiche sulla base della piramide.

Intervista a Stefano Baudino

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho appreso dell’esistenza del Premio Bisceglia attraverso il portale online della FNSI. Grazie a questa opportunità ho anche avuto la fortuna di approfondire la stupenda storia di coraggio di Alessandra Bisceglia, che prima non conoscevo.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?
Ritengo che ogni segnale, in questo senso, possa essere importante. Istituire un premio attorno all’annoso e spesso dimenticato tema delle malattie rare è assai lodevole. Da candidato, entro in questa dimensione in punta di piedi, ma estremamente convinto di aver fatto la scelta giusta.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?
Occupandomi da diversi anni – in qualità di saggista, scrittore e collaboratore esterno di scuole e università – di mafia e rapporti mafia-politica, mi sono spesso occupato delle storie di vittime della violenza criminale, collaborando sovente con i loro parenti, a esse sopravvissuti. Penso, ad esempio, alle tremende storie del giudice Paolo Borsellino e dell’infiltrato Luigi Ilardo, che racconto girando l’Italia insieme a Salvatore Borsellino (fratello di Paolo) e Luana Ilardo (figlia di Luigi). Questo background – nozionistico ma, soprattutto, psicologico ed emotivo – mi ha portato ad avere sempre un occhio di riguardo per le storie delle “vittime”, anche in campi completamente diversi.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?
Ne sono convinto. Penso che l’ingrediente principale sia costituito da un equilibrato mix tra empatia e perspicacia giornalistica. Ritengo che il cronista debba essere in grado di farsi vettore della componente emotiva che sfocia da queste storie e, al contempo, fornire il maggior numero di informazioni al lettore sullo spaccato di realtà che le caratterizza.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?
Credo che una potenziale barriera sia quella che il narratore, prima ancora di mettere nero su bianco il suo racconto, erige tra sé e il foglio bianco che ha davanti. Qualcuno ha il timore di dover maneggiare temi che tradizionalmente non “sfondano” dal punto di vista mediatico, altri di cadere negli angusti meandri della cosiddetta “pornografia del dolore”. Tali barriere si superano nel momento in cui si prende contezza di quanto sia doveroso occuparsi di certi argomenti, senza calcoli di sorta. Nel mondo esterno, però, ho la fortuna di non averne mai incontrate.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?
In questi casi, credo che fare di tutta l’erba un fascio, in un senso o nell’altro, sia sbagliato. Per quanto mi riguarda, posso dirmi estremamente fortunato: ho sempre collaborato con testate giornalistiche che hanno trattato con attenzione (ma anche con etica e delicatezza) un ampio ventaglio di tematiche sociali.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?
Credo che ancora nessuno possa saperlo con certezza, ma immagino che anche in questo caso la risposta giusta sia “dipende”. Spero, innanzitutto, che i rigidi “paletti” che oggi costituiscono la piattaforma di base della deontologia giornalistica riescano a reggere il colpo. Noi giornalisti, prima di chiunque altro, siamo chiamati a difenderli con le unghie e con i denti.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?
Esercitare il proprio spirito intuitivo in maniera attenta e consapevole, non dando nulla per scontato; contribuire a spingere verso i piani alti delle gerarchie mediatiche argomenti di vero interesse pubblico; stare dalla parte delle “vittime” (in qualsiasi forma la realtà le plasmi) e veicolare al pubblico più vasto possibile le loro denunce.

Intervista a Marta Di Donfrancesco

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho scoperto del Premio grazie alla scuola di giornalismo che frequento. Mi ha spinto a partecipare la voglia di raccontare una storia che potesse portare alla luce la difficoltà di affrontare qualcosa di così ignoto come una malattia rara, che proprio per questo può fare molta paura a chi ne soffre e a chi ci sta accanto.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Credo che sia un modo per spronare i giornalisti a confrontarsi con realtà che troppo spesso rimangono ai margini della narrazione e, di conseguenza, per portare sempre più persone a prendere atto dell’esistenza di alcune situazioni lontane dalla propria esperienza. Un punto di partenza per sensibilizzare su queste tematiche.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia di un bambino scappato dalla guerra in Ucraina e trasferitosi a Milano, dove ha iniziato a studiare in una scuola elementare. È stato molto toccante vedere con quanta empatia e semplicità lui e molti come lui si sono inseriti in un nuovo mondo, fatto di matite colorate e abbracci in cui la barriera della nazionalità è crollata dopo il primo “ciao” pronunciato in italiano. Una bella storia di solidarietà.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Credo che sia molto più semplice se non si hanno legami di alcun tipo con la storia che si vuole raccontare.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

L’ostacolo più grande è probabilmente il cercare di trattare la narrazione con oggettività e senza mostrare coinvolgimento, ma allo stesso tempo con rispetto verso le situazioni e le persone di cui si parla.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Sta migliorando.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Dipende da come la si utilizza.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere in grado di fornire un’informazione corretta e precisa, ma anche di scovare delle storie che meritano di essere raccontate e di farlo sempre con il maggior impegno possibile, trattando anche il racconto all’apparenza meno rilevante con l’attenzione e la cura con cui si tratterebbe un argomento da prima pagina.

Intervista a Giulia Di Leo

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ne sono venuta a conoscenza tramite il sito Fnsi

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Sì, soprattutto su tematiche meno popolari e conosciute ma sentite comunque da una cospicua fetta della popolazione

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Quella a voi inviata con un reportage sull’epilessia. Perché ne parlo da ex paziente e da caregiver e perché è un tabù che io in primis ho vissuto e che non vedo, a distanza di vent’anni, ancora essersi risolto

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Dar parola alle persone. I diretti interessati esprimono sempre tanto coraggio, seppur dicano di non averne in maniera spropositata, e dimostrano lucidità nel racconto. Non cadono nel vittimismo e nel desiderio di essere compatiti. È quanto ho sempre riscontrato nel lavoro di giornalista

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Nessuna barriera che mi abbia ostacolato sul lavoro finale ma non escludo possa capitare. Possono essere i soggetti direttamente interessati a essere restii, enti e ospedali, soprattutto quando parlare di sofferenza non mette in buona luce questi ultimi. Talvolta ho trovato poca apertura in questo senso ma sono riuscita ad arrivare comunque alla testimonianza

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Sì ma è sempre migliorabile. Penso che anche i lettori oggi voglia sempre di più leggere di storie di questo tipo.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Come ogni nuovo strumento sta a noi utilizzarlo in modo corretto. Non penso però sia un settore in cui l’IA possa essere particolarmente utile. Il contatto umano, penso soprattutto alle interviste, non può essere sostituito

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Empatizzare con la persona di cui si vuole raccontare una storia, ma al tempo stesso farsi da parte per far sì che a parlare sia la sua storia e non il proprio ego

Intervista a Oriana Gionfriddo

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

L’ho conosciuto tramite e i social. Decido di partecipare perché il mondo del sociale è la motivazione per cui ho scelto questo mestiere

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Il focus non è il premio, ma il bisogno di raccontare storie che arriveranno al premio. Quest’ultimo non può che essere da un lato un buon mezzo per la diffusione e dall’altro un modo per incoraggiare i giovani a raccontare storie e a occuparsi della parte più umana di questo mestiere, in un mondo che corre e ai volte vola sulle ali dell’apparenza di un feed Instagram

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Assolutamente quella che ho raccontato nel mio servizio

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

No. Esiste l’empatia.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Assolutamente sì. Mi è capitato che qualcuno chiedesse l’anonimato per non essere stigmatizzato in una città piccola come quella in cui vivo

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Probabilmente no

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Un valore aggiunto per tutto quello che riguarda il “cotto e mangiato”. Per le storie di vita un mondo artificiale non può esistere

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere al servizio della verità

Intervista a Giada Bertolini

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Ho conosciuto il Premio giornalistico Alessandra Bisceglia grazie alla Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia. Durante la mia frequenza la segreteria ha informato tutti gli alunni della pubblicazione del bando relativo alla VIII edizione del Premio.

Ho deciso di partecipare perché ha come oggetto una tematica di cui mi sono occupata più volte e a cui tengo particolarmente. Nel corso del biennio svolto presso la Scuola, e anche in precedenza nella mia attività da giornalista pubblicista, ho avuto modo di raccontare le storie, le difficoltà e anche le grandi conquiste, di persone con disabilità. Sono entrata in contatto con associazioni, medici e familiari di persone che a causa di incidenti hanno riportato gravi lesioni oppure di coloro che fin dalla nascita convivono con malattie rare.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

A mio avviso un Premio giornalistico può contribuire alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica si determinate tematiche sociali, ma è ovvio che questo non sia l’unico modo da seguire. Il mondo dei media può, e deve, fare di più. Il Premio è solo la punta dell’iceberg, alla base ci deve essere un’attenzione verso la narrazione di questi temi, a partire dal linguaggio utilizzato fino all’eliminazione di un racconto che sfoci sia del pietismo sia dell’eroismo. Sono certa che la comunicazione, e in particolare i giornalisti, abbi un ruolo decisivo anche nel rimuovere i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti delle persone con disabilità.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Oltre alla storia dell’atleta paralimpico Antonio Acciarino, che insieme alla mia collega Chiara Dall’Angelo abbiamo candidato a questo Premio, l’articolo che mi ha segnato di più è sicuramente quello legato alla storia Ilaria Parlanti, giovane scrittrice Toscana affetta dalla sindrome di Jarcho Levin. Una malattia genetica recessiva rarissima che comporta malformazioni multiple alle ossa, alla colonna vertebrale e agli organi interni. Alla nascita una prognosi di vita di pochi giorni, ma dopo un percorso sperimentale a Parigi, oltre 24 interventi alla colonna vertebrale, busti e protesi in acciaio, a 27 anni Ilaria ha fatto della sua passione, la scrittura, il proprio mestiere e dopo la pubblicazione del suo primo romanzo in cui racconta la sua vita, Ilaria anche è un’attivista per i diritti della disabilità nella sua regione.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non penso che esista un modo giusto e oggettivo di raccontare la sofferenza, ogni situazione è diversa e di conseguenza anche il modo in cui descriverla deve essere tale. Secondo me il giornalista deve ascoltare chi ha di fronte e farsi guidare nella narrazione dalla persona che gli affida la sua storia, la sua sofferenza, le sue battaglie. Ogni persona ha una propria sensibilità e disponibilità nel mostrarsi ed esporsi, è importante che il giornalista rispetti questo senza farsi prendere dal pietismo e dall’eccessiva esagerazione su alcuni termini o immagini che suscita emozioni forti. Concentrarsi più sulle possibilità e non sui limiti o le mancanze.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Più che barriere, mi è capitato di pormi delle domande relative all’etica del lavoro giornalistico. Qual è il limite da non superare nel raccontare la sofferenza? Fino a che punto posso spingermi a chiedere? Quanto devo raccontare o documentare di quella sofferenza anche se con la completa disponibilità della persona in questione? Qual è il modo corretto di interagire con persone con gravi disabilità nel rispetto del loro diritto alla riservatezza?

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Occupandomi spesso di sport, ho notato come negli ultimi anni – grazie anche all’ottimo lavoro di alcuni colleghi e alla grande attività di sensibilizzazione svolta dal Cip, dalle singole associazioni e da alcuni grandi sportivi come Bebe Vio Grandis – le tematiche sociali hanno sempre più trovato spazio nei media. Uno spazio che però rimane, purtroppo, ancora marginale rispetto a tematiche che seguono logiche economiche e commerciali.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Ogni giudizio su una nuova tecnologia deve essere collegato necessariamente all’utilizzo che ne fanno le persone. L’intelligenza artificiale influenzerà il mondo del giornalismo, a volte magari facendosi strumento di aiuto e supporto necessario, ma a mio avviso nel campo della comunicazione sociale l’AI, e la conseguente perdita della componente umana, potrebbe essere generare conseguenze negative e ridurre la narrazione a meri numeri, classifiche ecc…

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere un buon giornalista significa essere testimone dei fatti che deve riportare all’opinione pubblica, prendendo in con siderazione più punti di vista possibili, cercando di perseguire sempre la verità. Per quanto riguarda i temi sociali, secondo me il giornalista ha il dovere di denunciare i problemi ma deve anche dare un’immagine puntuale del contesto. Spesso ci concentriamo maggiormente sulle notizie negative, rischiando di creare allarme e costruire un’immagine distorta della realtà che ci circonda. Il giornalismo è anche il racconto di buone notizie, di soluzioni e di possibilità.