Intervista a Luca Carrello

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Lo è stato, ma mi ha permesso di capire a pieno il mondo delle persone con disabilità. Grazie al concorso ho imparato a utilizzare un linguaggio corretto e a rapportarmi al tema in modo propositivo, eliminando gli aspetti pietistici. Sono persone normali, uguali a chiunque altro. Quindi è importante farle sentire integrate e non diverse.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Mi ha molto colpito la storia di Claudio Recenti, uno studente con disabilità fuori sede dell’università Iulm. Claudio ha voluto sottolineare che anche le persone con disabilità il hanno diritto di scegliersi l’università, e non devono restare vincolate a una determinata realtà territoriale. Devono avere le stesse possibilità di chiunque altro.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Ogni tema, se ha una valenza pubblica, può essere oggetto di informazione. Il discrimine sta nel come vanno trattate le notizie. Bisogna tendere il più possibile all’oggettività ed essere completi nel dare la notizia. Si deve anche tutelare la privacy delle persone.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Io credo che sia sbagliato focalizzarsi troppo sulle parole, perché altrimenti si perde di vista il contenuto. Si rischia di fare le battaglie sui termini e non sui diritti. Certo, ci sono delle parole che ormai sono un tabù, e il giornalista che non ne è al corrente dovrebbe fare dei corsi per aggiornarsi e adeguarsi ai tempi.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

No anche una vecchia notizia può essere ritrattata se riassurge a pubblico interesse. Occorre però non invadere oltre il dovuto la privacy dell’interessato.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Dipende, molte testate hanno titoli acchiappa click e le marchette trovano sempre più spazio perché l’editoria è in crisi. Ma esistono ancora ottimi prodotti giornalistici che fanno un servizio pubblico.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Significa avere a cuore la formazione dell’opinione pubblica. È anche grazie al nostro lavoro se le persone riescono a compiere delle scelte consapevoli. È nostro dovere inoltre tutelare le fasce deboli. Il giornalismo è un mestiere: per essere dei validi professionisti occorre avere metodo e rimanere coerenti con i propri valori.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Da una mail inoltratami dalla segretaria del Master in Giornalismo Iulm, che frequento (sono al secondo anno).

Intervista a Gabriella Cantafio

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Più che una sfida, per me, rappresenta un tassello del mio impegno quotidiano nell’approfondimento e nel racconto di tematiche sociali.

 2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Non riesco a dare una risposta singola, ogni storia che ho approfondito mi ha permesso di sfiorare diverse sensibilità e marginalità che, attraverso il racconto e il confronto, acquisiscono maggiore centralità nella società, almeno spero.

 3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

In generale, deve essere oggetto di informazione qualsiasi notizia di interesse pubblico. Nel campo della comunicazione sociale, è molto importante dare un segnale e sensibilizzare su tematiche socio-culturali attuali, spesso scarsamente considerate, magari anche raccogliendo storie/testimonianze significative.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Purtroppo non sempre, però io, a seguito dei miei studi, della mia collaborazione con il mondo associazionistico e della mia innegabile sensibilità, cerco di trovare sempre spazio, anche su testate che non si occupano prettamente di comunicazione sociale, con l’obiettivo di aiutare, nel mio piccolo, a far luce su determinate tematiche e abbattere stereotipi e discriminazioni.

5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Certo, il compito di noi giornalisti, soprattutto di noi impegnati nell’ambito sociale e culturale, è proprio quello di “scovare” sempre nuove notizie/storie che possano contribuire ad attivare un cambiamento o una presa di coscienza nella società.

 6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Purtroppo, spesso, alcune testate badano troppo al business degli articoli clickbait o delle cosiddette “marchette”, ma fortunatamente esistono ancora testate degne di essere definite tali, basate su etica e onestà intellettuale. Nell’era digitale in cui viviamo, è necessario raggiungere un equilibrio tra le strategie commerciali e la creazione di contenuti editoriali di qualità.

 7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

A mio modesto parere, passione, curiosità, competenza, onestà intellettuale e attendibilità sono i valori fondamentali di un buon giornalista.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Ho appreso del vostro Premio sul sito www.giornalistitalia.it

Intervista a Simona Berterame

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sicuramente sì però mi trovo spesso a trattare tematiche legate al mondo del sociale, della disabilità e dell’integrazione. Sono racconti complessi, che ti entrano dentro ma una volta pubblicati regalano tanta soddisfazione e ti insegnano sempre qualcosa.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Mi occupo da anni del mondo manicomiale e in particolare ho raccolto diverse testimonianze di ex pazienti internati in manicomio prima dell’approvazione della Legge Basaglia. Le loro voci ti spiazzano, raccontano di veri e propri lager dove si finiva anche senza avere nessuna malattia mentale.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

L’informazione deve essere legata ad una notizia, un episodio che valga la pena raccontare. Perché trattare quella storia? I motivi possono essere tanti, il primo fra tutti ovviamente è quello di informare chi ci ascolta, ma anche far riflettere e scatenare la curiosità su un certo argomento.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

In alcuni periodi l’informazione è diventata quasi monotematica. Prima con la pandemia, adesso con la guerra, diventa perciò sempre più difficile in quei momenti ritagliare uno spazio per altri argomenti. La bravura del giornalista in questo caso sta proprio nel riuscire a trovare il canale giusto, il titolo accattivante per permettere anche a quell’argomento di uscire fuori.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non necessariamente. Esistono le ricorrenze, gli anniversari per riproporre storie già trattate ma magari con un taglio diverso. I racconti esclusivi sono fondamentali per il prestigio di una testata ma anche stimolare la memoria storica è importante.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Dovrebbero essere servizi pubblici ma spesso sono (anche) prodotti commerciali. La difficoltà è fare coesistere questi due elementi cercando di far prevalere sempre l’importanza dell’informazione.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Un buon giornalista sa ascoltare, non affronta una notizia con preconcetti e pregiudizi. Pone domande senza avere già una risposta, è curioso di tutto ciò che lo circonda e cerca sempre di apprendere nozioni nuove.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Conosco questo premio da diversi anni e l’ho scoperto grazie alla vostra pagina Facebook.

Intervista a Stefano Scibilia

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Si, certamente.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Proprio in questi giorni al Ducato di Urbino abbiamo trattato il caso di Fabio Ridolfi di Fermignano.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Tutto. Sempre all’insegna del rispetto della privacy, dei minori e delle fonti.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La maggior parte delle testate ha sempre spazi per il Sociale.

Noi ragazzi studiamo proprio per questo…ci insegnano a trovare il “giusto” modo per porgere certe notizie.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non per forza. Molte riguardano approfondimenti,continuano un discorso gia’ iniziato…

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Entrambe le cose

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

E’ quello che spero di diventare. Un professionista.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Seguo tutti i bandi di concorso. Con questo rispondo anche alla domanda del punto 1.

Intervista ad Eleonora Panseri

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È sicuramente una sfida, nella quale, tuttavia, vale sicuramente la pena provare a imbarcarsi. Essere giornalisti significa anche mettersi alla prova ogni giorno per migliorare costantemente nella professione.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Mi ha molto colpito la storia di Giusy Fabio, attivista per il riconoscimento della fibromialgia, patologia fortemente invalidante ma non riconosciuta in Italia. Sono rimasta impressionata dalla sua determinazione e dalla sua voglia di non arrendersi di fronte alle difficoltà.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Credo che la vera “informazione” sia quella che, come da etimologia della parola, dà forma alle società in cui viene diffusa. Tutto può potenzialmente essere “informazione” ma credo che la buona informazione sia quella che pesa positivamente sulla vita delle persone.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Penso che alla comunicazione sociale non venga dato il giusto spazio e che il poco che riceve spesso gli venga dato in maniera strumentale. Servono sicuramente parole “giuste”, sia per la delicatezza di alcuni temi che per correttezza nei confronti dei lettori che meritano di essere “educati” a certi argomenti.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non necessariamente. Alcune notizie meritano di essere riportate e ricordate a più riprese, a prescindere dalla loro “freschezza”, soprattutto se si tratta di notizie che raccontano problemi rimasti irrisolti.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Credo che oggi si pensi molto di più al guadagno piuttosto che agli interessi della comunità e al rispetto nella trattazione di alcuni argomenti.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Significa riuscire a mettersi sempre al servizio del lettore e, nel caso in cui si raccontino storie delicate, delle situazioni di cui si scrive. Bisogna essere rispettosi, accertandosi, nei limiti del possibile, della correttezza delle informazioni che si stanno riportando.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Il Premio è stato promosso dalla scuola di giornalismo “Walter Tobagi”. Alcuni colleghi hanno partecipato l’anno scorso e quindi per questa edizione ho deciso di presentare il lavoro che, insieme a una collega, abbiamo realizzato.

Intervista a Lamberto Rinaldi

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

È sempre una sfida raccontare una storia nascosta, darle lo spazio che si merita, farla riscoprire, apprezzare, innescare una riflessione. Poi, per me, è stata una sfida misurarmi con un tema che non conoscevo e di cui si parla sempre troppo poco: la salute mentale, la condizione dei pazienti psichiatrici, il ruolo che ha lo sport in tutto questo.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Quella della Nazionale “Crazy For Football” è senza dubbio una delle storie più emozionanti che abbia mai raccontato. Ho conosciuto e ho parlato con i ragazzi che sono scesi in campo e potevo vedere nei loro occhi una speranza, una passione, un obiettivo. Vedevo nei loro sguardi e sentivo nelle loro parole il senso di appartenenza, a una squadra, a un gruppo, a un progetto. Come si fa a non raccontare una storia simile?

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Informazione vuol dire “dare forma”, nello stesso modo in cui istruzione vuol dire “dare una struttura”. E secondo me sono due concetti simili. L’informazione dà forma sia alla notizia, sia a chi la legge. Quindi deve essere oggetto di informazione tutto ciò che chiarisca, faccia riflettere e ragionare, proponga una nuova visione, indaghi, accerti. Tutto ciò che contribuisce a dare una forma a qualcosa che non ce l’ha.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Secondo me la comunicazione sociale non trova lo spazio che merita. D’altronde è un atteggiamento figlio dei tempi: la comunicazione sociale parla di un noi quando va sempre più di moda l’io, spinge per l’apertura quando ormai tutto parla di chiusura, è per il dialogo e i ponti in un’era di silenzio e di muri. In tutti gli ambiti: dalla politica allo sport. Per questo si deve tornare a parlare di sociale.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

No, non per forza. Una notizia può essere anche una riscoperta, una nuova lettura, un nuovo spiraglio. In una comunicazione dettata sempre di più alla velocità, alla logica dell’arrivare per primi, vale la pena fermarsi, lavorare sulle cose, andarle a cercare. Anche correndo il rischio di farle scadere. Se una notizia è valida lo è sempre.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Mi ricollego a quanto detto prima, al tema della velocità e della lentezza. Il voler arrivare per forza primi, urlare di più, risaltare di più, è ovviamente un atteggiamento commerciale, da marketing. Se si mira solo a questo si perde di vista l’utilità vera del giornalismo, che è quella appunto di fare informazione. Penso che nel nostro panorama ci sia ancora tanto servizio pubblico, ma stia crescendo, soprattutto nell’online, una logica di consumo, di vendita, di notizia come merce.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Sono due i motti a cui mi rifaccio per provare a essere, innanzitutto io, un buon giornalista. Il primo è di Gianni Mura: “Saper fare un uovo in padella non fa di me uno chef”. Il secondo è “Andare, guardare, cercare di capire, raccontare”. Con il tempo di internet tutti possono essere giornalisti, scrivere articoli, riportare notizie. Per farlo in maniera vera, positiva, bisogna avere spirito critico, bisogna uscire, non restare incollati uno schermo, scavare e svelare, ascoltare e cercare. Solo così le storie, le persone, i luoghi, saranno raccontati in maniera vera.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Attraverso i social e il sito dell’Ordine dei Giornalisti.

 

Intervista ad Agnese Palmucci

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

E’ sicuramente una sfida grande, e soprattutto per un giornalista in formazione. Per me ha significato tornare al cuore delle mie motivazioni, perché parlare di disabilità è parlare di vita, di dolori e sogni. Insomma, di umanità pura. E’ stato sfidante cercare di capire cosa comporta una malattia, come si muove nel tempo, certo. Ancor di più, però, è stato farlo cercando di non mettere mai al centro il problema, ma sempre la donna, che nel mio caso si chiama Graziella. Insieme abbiamo voluto raccontare prima di tutto la vita quotidiana di una mamma, di una moglie, di un’amica che lotta ogni giorno, anche contro le istituzioni, per una vita normale, senza pietismo.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Devo ringraziare questo premio, senza piaggeria, perché mi ha permesso di conoscere una donna e una famiglia straordinaria, di diventare loro amica. Di entrare nella vita di Graziella e Giuseppe, di farmi da parte per mettere al centro un vissuto così ricco. Devo dire che, per la mia storia familiare, ho sempre avuto il desiderio di raccontare esperienze di disabilità che facessero emergere la forza di volontà, la voglia di distruggere le barriere e la gioia di vivere. Questa è stata per me la prima occasione in cui ho potuto, vivendo alcuni giorni accanto a lei, sperimentare le difficoltà di chi vive in carrozzina a Roma.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Sicuramente due elementi, nel caso di Graziella: l’assurda inadeguatezza delle infrastrutture, ancora nel 2022 non a norma per i disabili in carrozzina, e il carente supporto alle necessità di una madre non autosufficiente. Per quanto riguarda la prima situazione, accompagnando Graziella per le strade del suo quartiere ho sperimentato l’impossibilità di scendere da un marciapiede, di entrare in un negozio, di prendere i bimbi a scuola da sola e poi tanto altro che raccontiamo nel servizio. Riguardo al secondo punto, una delle difficoltà meno conosciute è la ricerca, spesso estenuante e infruttuosa, di un’assistente domestica che possa aiutare in casa le madri disabili con i bambini. Proprio per l’assenza di questa presenza fissa, ad esempio, Giuseppe è stato costretto a diminuire le ore di lavoro per venire incontro alle esigenze della casa.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

La comunicazione sociale ha rilevante spazio su alcune testate, come Avvenire, ad esempio, che puntano molto sulla narrazione della prossimità e sulla denuncia dei disagi di chi è meno ascoltato dalle istituzioni.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Spesso pensiamo che “notizia” debba significare “novità”, a tutti i costi.              Ma le disabilità, le povertà, le disuguaglianze, così come tutti i problemi relativi all’umano, non sono né vecchi né nuovi. Semplicemente esistono e si evolvono, e in quanto ciò hanno tutta la dignità per essere raccontati, per denunciare, per chiedere interventi mirati, per spingere alla ricerca, per alimentare la speranza.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

C’è tanto lavoro dietro una pagina di giornale, dietro una home page piena di pezzi. C’è impegno, sacrificio, ci sono giornate con poche ore di sonno. Se una scelta editoriale è fatta per “vendere”, questo può sembrare immorale, e a volte lo è. Nella maggioranza dei casi, quello che sembra un “tradimento” del servizio pubblico, diventa economicamente necessario per sostenere il lavoro giornalistico “vero” di quella testata. Nel mio modo di vedere questa nostra “missione” di giornalisti, tutto quello che facciamo deve essere mirato al servizio.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Significa amare la verità e gli esseri umani, mettendo ciò prima di sé. Significa dare voce a chi non ha spazio, a chi non viene ascoltato, a chi ha da dire e anche ha timore di parlare, ma ha tanto nel cuore. Significa studiare, leggere senza posa, ma non per mero intellettualismo, no. Piuttosto per capire meglio e in profondità tutto quello che accade, vicino e lontano da noi. Significa illuminare gli angoli più bui, denunciare quello che proprio non va, senza paura, ma “compromettendosi” con le vite di chi si incontra. Nella mia breve carriera, ho capito che non mi interessa essere una giornalista “estranea” alle cose, che non si lascia toccare da niente, che racconta asetticamente.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Sto frequentando il master di giornalismo all’Università Lumsa di Roma, e sono venuta a conoscenza del premio lo scorso autunno 2021, quando ho assistito alla premiazione in ateneo. Quello delle disabilità è un tema che mi sta a cuore da sempre, e la storia di Alessandra mi ha colpito davvero molto.

Intervista a Marta Occhipinti

1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

L’intera professione giornalistica è una sfida per chi ama questo mestiere. Ma, di certo scrivere di integrazione sociale e cercare di restituire storie di resilienza è oltre che una sfida in più, un impagabile paga di valori.

 2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Non saprei. Ogni storia, ogni volto, ogni racconto restituito sulla pagina scritta si porta con sé tutto un mondo difficile da dimenticare. Ci sono particolari di migranti, loro mani, occhi, volti di ragazzi, storie di recupero post tumore, che non dimenticherò.

 3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

La realtà di un caso o una storia premiante in valori che diventa esempio per tanti o argomento su cui riflettere.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Sì, ma non in tutte allo stesso modo. Ciò dipende ovviamente dall’agenda e dalla direzione editoriale di una testata, come sappiamo. Le parole giuste sono deontologicamente essenziali per una corretta e veritiera informazione. Le parole giuste partono dalla conoscenza, innanzitutto.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non sempre, alcune magari sono sotto i nostri occhi da tanto tempo, ma diventano nuove per noi quando le scopriamo. Non è mai troppo tardi per raccontare una storia o sviscerare reportage. Ciò che è nuovo, deve esserlo sempre agli occhi del cronista, principale stakeholder dell’opinione pubblica.

 6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Credo ancora nel servizio pubblico.

 7. Che significa essere un buon giornalista?

Rispettare la deontologia, divulgare notizie secondo la verità sostanziale dei fatti, essere scomodi.

 8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Mi tengo sempre aggiornata sui premi giornalistici per under35. Dunque, via internet, al momento della pubblicazione del bando di partecipazione.

Intervista a Giancarla Manzari

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Per me non è una vera e propria sfida, ma un’opportunità per far conoscere e diffondere le tante associazioni che aiutano a vivere a tante persone con la speranza e i sorrisi in più.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Una delle storie che mi ha colpito di più è quella di Sinisa Mihajlovic, allenatore del Bologna calcio, colpito dalla leucemia melodie acuta e che dopo vari cicli di chemioterapia e trapianto di midollo osseo, è tornato sulla panchina della squadra che allena con forza e determinazione dando così coraggio a tante persone che lottano contro questa malattia. Sento di essere vicina e comprendere tante situazioni perché anche io sono monitorata e seguita dal team dell’ospedale oncologico ematologico di Bari per una lieve patologia.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

 Tutte queste situazioni elencate devono essere divulgate rispettando la privacy dei pazienti e delle persone affette da varie patologie e handicap. Vanno condivise per poter dare un contributo fondamentale alla cura, prevenzione e aiuto post diagnosi.  Gli oggetti di informazione possono essere le vite quotidiane delle persone affette da qualche patologia, come vivono e come affrontano la malattia, la cura e il dopo.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

 La comunicazione sociale non trova molto spazio nelle testate, ma solo in quelle specifiche. Non esistono parole giuste per promuovere i diritti, la giustizia, e soprattutto divulgare le difficoltà in questa società. La solidarietà sociale va condivisa e diffusa attraverso idee, significati e valori.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

 Le notizie che devono essere pubblicate devono avere sempre un collegamento temporale ad un avvenimento attuale.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

 Attualmente le testate sono influenzate dalla pubblicità e dalle aziende che le finanziano, soprattutto a causa del passaggio dalla carta stampata al digitale.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

 Essere un buon giornalista significa voler divulgare in qualsiasi forma la verità, interpretandola e raccontandola, con la giusta formazione e con la conoscenza della deontologia che non vada mai a danneggiare inutilmente nessuno.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Frequentando il master in giornalismo di Bari e, visitando la pagina dell’Ordine dei Giornalisti, mi sono accorta della bellissima iniziativa del Premio Bisceglia.

Intervista a Emanuele La Veglia

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

In realtà no, ma semplicemente perché è la terza volta che vi concorro. L’anno scorso ho ottenuto la menzione web per un mio articolo pubblicato su Ohga.it ed ho avuto l’occasione di trascorrere una piacevole giornata a Roma e di approfondire la storia di Alessandra Bisceglia.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Le storie che mi hanno più segnato in verità le porto dentro da prima di cominciare a scrivere, perché riguardano alcuni aspetti del mio vissuto. E forse da questo nasce quella sensibilità con cui cerco di accostarmi a temi delicati, alle esperienze cosiddette “forti”. Basta scorrere le interviste fatte nel periodo in cui ho scritto per Vanity Fair e se ne trovano davvero tante.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Io credo che in un mondo disattento, fatto di scroll sui social e di distrazioni continue, quello che attrae più l’attenzione sono le storie. Tessuti narrativi, ma realmente accaduti, in cui possiamo identificarci e da lì iniziare una riflessione su temi caldi, di attualità.

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Io mi soffermerei proprio su queste due parole: “comunicazione” e “sociale”. Quando possono andare di pari passo è un grande traguardo, ad esempio se in un’azienda si fa attenzione agli aspetti di sostenibilità, sia ambientale che appunto sociale. Non esistono parole giuste o sbagliate, ma è importante che il linguaggio sia rispettoso nei confronti delle singole diversità.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

A volte può capitare di riproporre magari delle persone, o delle realtà che possono costituire di riferimento. Riparlarne ha senso se ci sono nuove iniziative o collegamenti con vicende appena accadute. In generale, ciò che non è mai stato visto colpisce sempre perché magari riporta alla mente bei ricordi e perché suscita nel pubblico curiosità e sorprese.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Come mi trovai a dire già in questa intervista lo scorso anno, il servizio pubblico è quello offerto in particolare dalla Rai, in quanto televisione di stato. Per il resto ogni testata o gruppo segue una propria linea editoriale e l’indipendenza o meno è legata a fattori soprattutto economici e di finanziamenti. E, parallelamente, c’è l’universo del brand journalism, siti online o riviste che si rivolgono alle imprese, citando successi e casi studio.

  1. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Penso che sia una definizione idealistica, nel senso che i percorsi diversissimi e chiunque intraprende questa strada cerca di fare del suo meglio. Per la crisi del settore, però, l’essere in gamba non è direttamente proporzionale alle continuità dell’impiego e delle collaborazioni, che si concludono per mille motivi, dovuti a un’evoluzione delle esigenze o a rallentamenti burocratici.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Lo conosco da anni, per cui non ricordo il momento esatto in cui ho ricevuto la prima mail, ma probabilmente è capitato negli anni di studio, attraverso le università. C’è da dire comunque che mi sono attivato, sin da quando ho iniziato questo mestiere, nel 2010, a cercare premi e concorsi a cui poter partecipare fino a vincerne tre, oltre alla menzione del “Bisceglia” nel 2021.