Come sono organizzate le agende informative: tutto quello che i media non dicono – Andrea Garibaldi

Andrea Garibaldi, giornalista, socio fondatore della Fondazione Alessandra Bisceglia ViVa Ale Onlus

“Come sono organizzate le agende informative: tutto quello che i media non dicono”

“Vorrei ragionare con voi su alcuni “grandi vizi” dell’informazione italiana, che possono aiutarci ad approfondire il tema di questo pomeriggio. A capire perché le persone fragili sono scomparse dai media, schiacciate da Covid e guerra. Per la verità, non è che prima fossero così presenti.

I “grandi vizi” sono essenzialmente quattro.

Il primo lo chiamerei “gli eccessi”.

Quando c’è un grande evento, l’informazione si concentra su quello. Giustamente, ma in modo esagerato. Col Covid, con la guerra lontana da qui, la vita è continuata: il lavoro, i figli, gli anziani, la spesa, gli incidenti. E continuavano ad esistere i fragili, i malati di altre malattie, i poveri.

Certo, Covid e guerra sono due eventi enormi, forse i più importanti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma il fatto interessante è tutto italiano: il 21 luglio è caduto il governo Draghi e sono state fissate le elezioni al 25 settembre. Da quel momento -più o meno- sia il Covid, che era già in calo, sia la guerra in Ucraina, che ancora causa centinaia di morti al giorno, sono state spinte verso le ultime pagine dei giornali, verso la metà dei telegiornali e sul fondo delle schermate dei siti. Spazzati via dalle elezioni, dalle dichiarazioni dei politici, dai temi imposti dai politici, dalle interviste, dai confronti, dai sondaggi.

Ecco, un eccesso che scaccia due altri eccessi. Ma questo è l’eccesso che sui media italiani c’è tutti i giorni: pagine e pagine di politica, come in nessun altro Paese al mondo. Anzi, si può notare come solo due mega eventi, Covid e guerra, fossero riusciti a ridurre l’interesse quasi morboso di media tradizionali e tv per i palazzi del Potere.

Il secondo “grande vizio” lo chiamerei “le dimenticanze”. Dopo il primo choc, quando si cominciò a razionalizzare la pandemia, vennero alla luce le carenze del Servizio Sanitario Nazionale, che era stato, negli anni passati, un nostro fiore all’occhiello. Fu chiaro ed evidente che non eravamo pronti ad affrontare il Covid e fu chiaro ed evidente che negli ultimi anni il Servizio Sanitario pubblico era stato indebolito, pezzo dopo pezzo. I posti letto pubblici erano passati da 530mila nel 1981 a 200mila nel 2022. In alcuni casi è stato giusto chiudere alcuni ospedali, ma si sarebbe dovuto parallelamente investire nelle strutture territoriali e di comunità. Invece, spendiamo l’1,2 del Pil per l’assistenza domiciliare e territoriale, contro il 2,9 per cento della Germania. Alla sanità pubblica destiniamo il 6,5 per cento del Pil mentre Germania e Francia spendono il 9,5 per cento, abbiamo 58 infermieri ogni 10mila abitanti, Germania e Francia ne hanno il doppio. Avevamo 5000 letti in terapia intensiva, ne sarebbero stati necessari 10mila. Nel frattempo, sono aumentate, in alcuni casi raddoppiate, le spese per rimborsare la sanità privata. In Lombardia il 40 per cento della spesa sanitaria pubblica va a strutture private convenzionate, che sostituiscono cioè le strutture pubbliche.

E per parlare dei fragili: liste di attesa per le visite specialistiche di sei mesi/ un anno, calo delle diagnosi oncologiche del 20 per cento, hospice per i bambini non in tutte le Regioni, come invece prevedeva una legge del 2010. Per minori, anziani e disabili, l’Italia spende un terzo della media europea. E comunque a Vibo Valentia si spendono 6 euro a persona e a Bolzano 583 euro a persona. Le famiglie dei malati di Alzheimer, dei bimbi autistici, di chi è colpito da una malattia rara sono lasciate molto da sole.

Si disse, in pieno Covid: l’insegnamento ci servirà, va ricostruito il Servizio pubblico, non ricapiterà quello che sta capitando.

Al momento non sembra che questo stia succedendo. Aspettiamo i venti miliardi del Pnrr, che dovrebbero essere utilizzati per ospedali di comunità, case della salute territoriali, assunzioni di 33mila infermieri. Per la verità, intanto, si sente parlare di revisione dei piani del Pnrr. Chissà se l’intenzione è proprio di togliere miliardi alla Sanità.

È vero che i giornali devono dare notizie, ma è notizia anche una promessa non mantenuta, è notizia anche il controllo sulla riparazione di ciò che si è rivelato insufficiente. Ma il ripristino del Servizio Sanitario Nazionale, prima e durante la campagna elettorale, è assente anche dalle agende dei media.

A Roma, qui dove viviamo tutti noi, ma anche in tante altre parti d’Italia, la paura di stare male è aggravata dall’idea di doversi rivolgere a un pronto soccorso. Un collega, Vittorio Di Trapani, per molti anni segretario del sindacato dei giornalisti Rai, Usigrai, ha raccontato recentemente di aver passato 14 ore in attesa all’ospedale Sant’Andrea prima di essere visitato, controllato e curato, dopo un tamponamento in auto. “È un dovere -ha scritto- impedire che accadano cose del genere. Ma un’altra cosa ho voglia di dire: quanto dolore ho visto! Quanto dolore! Perché tutto questo dolore?!?!? Perché?!?!?!?”.

Fabio De Iaco, presidente della Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza, prima delle elezioni ha scritto un articolo così intitolato: “Caro candidato, per capire passi un giorno al pronto soccorso”. Diceva, fra l’altro: “Se si vuole conoscere la vera condizione di un Paese non esiste miglior punto di osservazione. È solo lì, caro candidato, che troverà l’esatta fotografia del reale: perché le necessità sociali ed economiche non soddisfatte diventano inesorabilmente necessità sanitarie. E il Pronto Soccorso le raccoglie tutte: famiglie che non possono più assistere i propri cari, adolescenti preda del disagio mentale, nel vuoto assoluto di cura e occasioni che questo Paese offre loro, stranieri che sopravvivono e spesso producono in un limbo di ignoranza e marginalità”. Non risulta che nessun candidato abbia ascoltato il consiglio.

Ecco, questo discorso introduce il terzo “grande vizio”: la mancata vigilanza dei media sulle esigenze di carattere collettivo. Qui gli esempi possono essere molteplici.

La tragedia del fiume Misa esondato nelle Marche: 2,5 miliardi stanziati nel 2018 per metterlo in sicurezza e spesi solo in piccola parte. Diciotto miliardi stanziati in Italia per il dissesto idrogeologico e non spesi.

In Italia si perdono due metri quadrati di suolo al secondo, terreno che viene coperto da asfalto. E l’asfalto è la causa della impermeabilizzazione, degli allagamenti e delle falde che l’acqua piovana non può alimentare e quindi delle coltivazioni che non si possono fare.

I media dovrebbero ricordare questi fatti, o meglio non fatti, periodicamente, quando si può fare qualcosa di positivo e non scrivere soltanto pagine indignate, mentre si contano le vittime.

Altro esempio, l’emergenza clima, di cui molto si tratta. Ma poi, crescono i consumi dopo il lockdown, scoppia la guerra in Ucraina e ricominciano gli investimenti sul carbone: le aziende dei combustibili fossili in tutto il mondo hanno già approvato enormi progetti per lo sfruttamento di nuovi giacimenti, che porteranno l’aumento delle temperature globali oltre tutti i limiti fissati dagli accordi internazionali. E i mezzi d’informazione accettano senza battere ciglio il tradimento di ogni buon proposito di transizione energetica. In nome di un interesse superiore, che di solito non è quello dei cittadini.

Oppure, altro esempio, l’aumento delle spese militari in Italia, a seguito sempre della guerra, per un miliardo e duecento milioni. Quanto basterebbe per costruire trenta nuovi ospedali. Ma queste connessioni raramente vengono fatte.

E siamo al quarto e ultimo “grande vizio”. Che li riassume un po’ tutti: le presunte priorità.

Per i media italiani la priorità delle priorità -come abbiamo già accennato- è la politica. Ma non la politica dove si confrontano idee diverse di società, le decisioni diverse su dove investire e come redistribuire i redditi. Piuttosto, il racconto dei mezzi d’informazione si concentra sulla lotta fra i partiti o meglio sulla lotta fra i leader, sulle alleanze che si fanno e si disfano, sulle tattiche molto più che sulle strategie.

Non sembra, invece, una priorità l’evasione fiscale: 100 miliardi di evasione l’anno, con i quali si coprirebbe l’intera spesa sanitaria.

Non sembrano una priorità il 23 per cento dei giovani fra 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione.

Non è una priorità che negli ultimi 50 anni abbiamo perso 40 milioni di metri quadrati di spiagge, che le spiagge italiane sono occupate per il 43 per cento da stabilimenti balneari, che i proprietari di questi stabilimenti si oppongono con ferocia ogni qualvolta qualcuno (l’ultimo è stato Mario Draghi) cerchi di regolare i canoni ridicoli che pagano allo Stato per occupare il pubblico demanio.

Non è una priorità che fra il 2014 e il 2020 l’Italia è stata capace di spendere solo 17,3 miliardi sui 75,2 miliardi che l’Europa ci ha dato per fare strade, scuole, fibra ottica, sostegno al Mezzogiorno.

Non è una priorità che in Italia il 36 per cento dell’acqua immessa nei nostri acquedotti si disperde, si butta via a causa del degrado degli acquedotti stessi. Però si grida ai danni della siccità, al disastro dell’economia lungo il Po.

Certo, dove ho letto tutti questi dati? Sui mezzi d’informazione. Ma una cosa sono articoli en passant, altra cosa è insistere, scavare, bussare alle porte dei responsabili finché le questioni non vengano affrontate davvero.

Non sono priorità i problemi che riguardano le persone fragili. Esempio: 67 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno (furono 57 in tutto il 2021). Alcuni dei detenuti che si sono tolti la vita erano lì da pochi giorni, uno aveva rubato un telefonino, uno aveva oltraggiato un pubblico ufficiale, un altro aveva fatto una rapina in un supermercato. In carcere si tolgono la vita 11 persone ogni diecimila, fra i cosiddetti “liberi” 0,7 persone ogni diecimila.

Tutte le persone fragili sicuramente diventano più fragili in crisi eccezionali come la pandemia e la guerra, ma anche in tempi “normali” sono sempre e comunque relegate in nicchie di informazione. Appaiono quando chi è in grado di gridare per loro -associazioni, parenti- riesce a raggiungere le agende dei media.

L’ipotesi di tutto questo discorso è dunque che questa indifferenza è un problema strutturale e non legato alle ultime due situazioni che abbiamo vissuto. Con lodevolissime eccezioni, che abbiamo ascoltato qui e che continueremo ad ascoltare.

Vorrei concludere con una piccola postilla. Ho esaminato il comportamento dei mezzi di informazione tradizionale. Ma che dire dei nuovi mezzi di informazione? Intendiamo quelli che sono nati sull’online e non sono mai stati di carta (Fanpage, Open, Huffington Post) e quelli che navigano all’interno dei social network rispettando alcune delle regole del giornalismo (Will_Ita, Factanza, Torcha)?

Riguardo ai grandi vizi di cui abbiamo parlato, direi che questi nuovi mezzi ne evitano due e condividono gli altri due. Sono senz’altro meno sensibili al primo e quarto vizio. Quindi, meno eccessi, non smontano tutto per immersioni globali in eventi come il Covid e la guerra. Questo anche per l’esigenza di mantenere quote di intrattenimento. Quindi, meno presunte priorità. La loro offerta informativa -parliamo in generale- indirizza meno il lettore di quanto facciano i media tradizionali. L’idea -specie nell’informazione sui social- è quella di un grande supermercato con scaffali dai quali ciascuno prende il prodotto (la notizia, il servizio, l’approfondimento) che desidera.

Sulle dimenticanze e sulla mancata vigilanza invece i vizi si perpetuano, talvolta si amplificano, visto che qui più che nei mezzi tradizionali contano la velocità, l’immediatezza, la freschezza, il bisogno di tener desta l’attenzione con fatti sempre nuovi.

Infine, vi prego di credermi: non ho voluto dare lezioni, né pagelle, solo invitare la platea alla riflessione”.

L’alfabeto della fragilità – Fabio Zavattaro

Fabio Zavattaro, Direttore Master in Giornalismo, Università LUMSA

L’alfabeto della fragilità

“Andrà tutto bene!

Ricorderete tutti queste parole quasi esercizio per esorcizzare la paura del contagio, di finire in un reparto di terapia intensiva o, più semplicemente in un corridoio di ospedale. Da quelle parole, dall’inizio della pandemia, scoppiata in Cina alla fine del 2019, e da noi il 9 marzo 2020, o forse dovremmo dire 21 febbraio, Codogno, Lodi, il paziente uno, ci siamo sentiti quasi aiutati nella ricerca della luce in fondo al tunnel. Andrà tutto bene continuavamo a dire mentre cresceva il numero dei morti, dei contagiati, dei ricoveri, e anche delle polemiche da parte di chi negava l’efficacia dei vaccini per combattere il covid.

A questo punto poniamoci la domanda: è andato davvero tutto bene? Due cifre soltanto: dall’inizio della diffusione del Covid vi sono stati oltre 21 milioni e 100 mila contagiati, e, purtroppo, 172.397 morti. Quanto abbiamo discusso, un po’ tutti, sulla fragilità delle persone che hanno perso la vita a causa della pandemia, quasi a trovare una sorta di tranquillizzante giustificazione: sono in buona salute, non ho patologie più o meno gravi, e dunque rischio di meno. Con il tempo, i vaccini, e le attenzioni la curva dei contagi, i ricoveri sono scesi e abbiamo tutti turato un sospiro di sollievo.

Andrà tutto bene!

Poi, il 24 febbraio di quest’anno, la Russia invade l’Ucraina, a otto anni dalla precedente crisi scoppiata con l’allontanamento del presidente filorusso, un allineamento occidentale del nuovo governo ucraino, l’occupazione della Crimea e le prime proteste nel Donbass. Così abbiamo iniziato a scoprire nuove fragilità; abbiamo imparato a conoscere i bambini e i malati in terapia costretti a sfidare la sorte, assieme a medici e infermieri, nella speranza che missili e bombe non arrivassero a colpire l’ospedale.

Voi direte che sto andando fuori tema, che c’entra la guerra – ops, operazione militare speciale – con la fragilità? O forse dovremmo dire che proprio le persone fragili, sofferenti sono ancora più fragili in un conflitto che non risparmia ospedali e centrali nucleari; proprio queste persone sono ancora più fragili anche di fronte a una pandemia che, nonostante i vaccini, è ancora in agguato. E poi ci sono i poveri e i nuovi poveri, il cui numero è cresciuto di 6 milioni rispetto al 2021, e il 57 per cento degli italiani, secondo il rapporto Coop 2022, rischia di non riuscire a pagare l’affitto. Infine, ci sono coloro per i quali le limitazioni fisiche e psichiche sono compagni di vita, nel nascondimento di una abitazione o di una casa di cura. Storie che non vengono raccontate, che noi giornalisti non raccontiamo, se non saltuariamente, perché non fanno notizia. Poi leggiamo, troviamo articoli su chi ha scelto di mettere la parola fine alla propria esistenza, l’ultimo Jean-Luc Godard, o chi, dal silenzio del proprio letto, ci manda, sulle pagine di un quotidiano, una riflessione che ci provoca, che chiede il rispetto della sua esistenza, anche se segnata da malattie e sofferenze.

La prima parola di questo alfabeto della fragilità – ammalarsi – la lascio alla penna di un nostro collega malato di sla. Non faccio il suo nome perché non gli ho chiesto il permesso di citarlo in questo mio intervento, e perché, in fondo, è come se attraverso la sua voce arrivassero a noi le voci di tanti come lui costretti all’immobilità e la cui vita dipende da alcune macchine che devono restare accese 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno.

Risponde, il nostro, a una donna che vorrebbe interrompere la sua esistenza. Il suo corsivo anticipa di due mesi l’inizio della pandemia nel nostro paese:

“non mi permetto di giudicare il suo appello a morire con dignità, ma proprio adesso che il Parlamento sta per affrontare la questione, credo che prima abbiamo il dovere di rivendicare il diritto a vivere con dignità, anche in questa condizione estrema. E sappiamo molto bene, lei ed io, come questo ci sia negato. La burocrazia ci uccide con le sue lentezze inesorabili, fingendo di ignorare che per noi contano i minuti, non i mesi.

Siamo la nazione europea in cui si spende di meno per sanità, e dove i servizi domiciliari praticamente non esistono. Se lei ed io fossimo ammalati in Germania lo Stato avrebbe adeguato a sue spese le nostre abitazioni, potremmo contare su tutto quello di cui abbiamo bisogno quotidianamente, e non parlo solo di presidi medici, ma anche, per esempio, di computer speciali per poter lavorare o anche solo passare il tempo; addirittura, lo Stato arriva a pagare il surplus di energia elettrica necessaria a far funzionare le macchine di cui abbiamo bisogno. Io credo che questa sia civiltà, un assicurare una vita dignitosa che non può non precedere l’assicurare una fine dignitosa. Senza quella, riconoscere il “diritto a morire” è semplicemente un modo di lavarsi le mani di noi e dei nostri problemi, sperando che togliamo in fretta il disturbo; una sorta di moderna Rupe Tarpea da cui gettare le persone ritenute inutili. Assicurarci il diritto a vivere con dignità costerebbe pochissimo considerato quanti siamo. Ma proprio perché siamo pochi, non contiamo, non valiamo, non siamo nulla. Siamo, appunto, già morti, e riconoscerci il diritto a morire è una grandissima, ipocrita comodità”.

Pochi giorni fa è tornato a scrivere per mettere in primo piano le difficoltà che il conflitto in Ucraina e il crescente aumento del costo dell’elettricità, e di altro ancora, sta provocando alle persone che si trovano nelle sue stesse condizioni. Ha sottolineato come tutti siamo chiamati a risparmiare là dove è possibile, ma ci sono cose “sulle quali nessun risparmio è possibile. Le disabilità sono tra queste, anche se credo che nessuno l’abbia presente”. Poi esprime il suo no a nuovi tagli sulla sanità, come da qualche parte si prospetta: perché questi andranno a ricadere sulle spalle dei disabili “con i soliti tagli feroci alle spese per l’assistenza domiciliare. Fondi già risicati, e che sono sempre i primi a venire falcidiati”. Da quelle macchine non può separarsi “è appesa la mia vita, e non è possibile spegnerle. O meglio sarebbe possibile, certo, e in questo modo si potrebbe ulteriormente risparmiare sui fondi dell’assistenza”.

Una seconda parola di questo alfabeto è disabilità

Una definizione: per l’OMS è “qualsiasi restrizione o carenza (conseguente a una menomazione) della capacità di svolgere un’attività nel modo e nei limiti ritenuti normali per un essere umano”. Per l’International Classification of Impairments, Disabilities and Handicap – ovvero la Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap pubblicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1980 a scopo di ricerca – si tratta di “scostamenti, per eccesso o per difetto, nella realizzazione dei compiti e nella espressione dei comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso…”

Ecco che disabilità viene subito accostata alla parola normalità, alla capacità di svolgere un’attività. Ma domandiamoci se sia giusto legare la lettura di questa situazione dovuta a una menomazione, alla capacità del fare. La disabilità, anch’io continuo a utilizzare questo termine e vi chiedo scusa, esiste da sempre, è compagna della nostra vita. Disabili erano Tutankhamon, Cesare, l’imperatore Claudio, Roosvelt, Churchill, Stalin. La disabilità è vista come una sorta di male da curare; e ancora oggi quel modo di percepire la fragilità o la menomazione di una persona è ben presente e spesso utilizzato anche per offendere.

C’è un termine che segna in modo chiaro la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità: abilismo. Termine nato nel mondo anglosassone alla fine degli anni 80 e viene attuato attraverso il linguaggio, gli atteggiamenti, la mancanza di leggi e qualsiasi comportamento non inclusivo.

La disabilità non è una malattia e la persona non è la sua disabilità. Dovremmo proprio partire da questo concetto per costruire un nuovo modo di approcciarci con queste persone. Spesso si usano espressioni pietistiche, o le narriamo quando fanno delle scelte di diversa natura – attività sportiva, pubblicazioni, o altre espressioni dell’intelligenza – attraverso un linguaggio come dire eroico. È una persona che va presa in considerazione per quello che ha e non per quello che non ha. E se il risultato ottenuto, l’atto compiuto è degno di citazione perché bello, ecco diciamolo senza aggiungere altro, senza dire: bello perché ottenuto da una persona disabile.

Nel narrare fatti e episodi spesso si usano termini quali: handicappato, affetto da disabilità o portatore di; ancora, diversamente abile. C’è poi tutta una terminologia che vorrebbe essere di attenzione, ma che invece è ancora più fastidiosa soprattutto per la persona di cui parliamo o a cui ci rivolgiamo: poverino, sfortunato, sventurato, infelice. Meglio persona con disabilità, con la sindrome di…

La cosa più importante da tenere a mente quando trattiamo questo tema, è che ci rivolgiamo, o parliamo, di una persona, con i suoi diritti e la sua dignità. Ua persona che non vuole, non cerca la pietà tout court.

Ma c’è una seconda possibilità di lettura della lettera D, ovvero dubbio. La pandemia non è ancora finita, anche se è abbastanza sotto controllo; la guerra nel cuore dell’Europa è ancora lì a dirci la stupidità di una scelta che porta con sé ferite dolorose, distruzioni e morte. Dubbio perché il nostro incipit – andrà tutto bene – ci sembra suoni falso; il futuro lo vediamo ancora incerto, ricco di incognite in una Europa, ma anche nel nostro paese, che fa fatica a far passare due concetti chiave: solidarietà e bene comune. Non sappiamo più bene cosa davvero significhino. E pensate quale preoccupazione ricade su coloro che vivono questo tempo nella fragilità e nella sofferenza. Papa Francesco – scusatemi ma il mio passato di giornalista vaticanista torna ad affacciarsi quando scrivo – il Papa ci ricordava, il 27 marzo di due anni fa, che non ci si salva da soli, c’è bisogno di condivisione, di solidarietà. Diceva Francesco: “avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta”; e guardando il crocifisso di san Marcellino al Corso a Roma, in quella preghiera in piazza San Pietro, ha aggiunto: “non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.

Non c’erano le folle quella sera in piazza San Pietro; forse, mai come in quei giorni quel vuoto desolante si è riempito da una folla di credenti e non credenti che hanno accompagnato il vescovo di Roma in tutti i suoi momenti di preghiera, grazie alla televisione e ai nuovi media. Francesco è ancora una volta solo, ma porta con sé tutta la sofferenza del mondo. La sua è la voce di uno che grida nel deserto, che chiede di guardare all’uomo, a tutto l’uomo e a ogni uomo, anche l’uomo, o la donna, sofferente; oggi è il Papa che chiede la fine del conflitto, di quella terza guerra mondiale a pezzi, come ha detto più volte. Per il Papa non è soprattutto il tempo della dimenticanza, il nostro, e per questo chiedeva, lo ha detto due anni fa, di conquistare un diritto fondamentale che non ci sarà tolto: il diritto alla speranza.

Ecco un’altra parola, anzi due, per il nostro vocabolario: egoismo indifferente. Le fitte tenebre della pandemia ci hanno resi ancora più chiusi; quel distanziamento sociale – termine che ho sempre contestato – si è impadronito delle nostre vite, ci ha fatto costruire una sorta di zona franca dove l’altro non è ammesso, se non in rarissimi momenti. Il conflitto tra Russia e Ucraina ha ridestato una paura che lentamente pensavamo di aver superato dopo la pandemia. E abbiamo mai pensato, guardato, alle persone chiuse nelle loro case o in qualche clinica o ospedale; ci siamo mai chiesti come vivono queste persone la loro fragilità.

E allora ecco un’altra parola: ricominciare. Già, ma come? Abbiamo vissuto un tempo sospeso e oggi ci troviamo a scegliere la strada da percorrere. L’immagine che qui mi piace ricordare è di un grande scrittore russo Lev Tolstoj che, nel libro “Il Regno di Dio è in voi”, descrivere con queste parole la verità: è come una lanterna nelle mani di un viandante, il quale “non vede ciò che la lanterna non rischiara ancora; non vede neanche la via percorsa e che è già ricaduta nell’oscurità; ma in qualunque luogo si trovi, egli vede ciò che è rischiarato dalla lanterna, ed è sempre libero di scegliere l’uno o l’altro lato della via”. Ecco abbiamo questa lanterna nelle nostre mani e nel ricominciare dobbiamo stare bene attenti alla strada da percorrere. I cambiamenti che abbiamo di fronte sono grandi e chiedono prospettive nuove: non possiamo voltarci indietro, ma la memoria di quanto abbiamo vissuto ci deve aiutare a compiere le scelte giuste. Come diceva Thomas Eliot ne “La rocca”: “in posti abbandonati noi costruiamo con mattoni nuovi. Dove le travi son marcite costruiremo con nuovo legname. Dove parole non son pronunciate costruiremo con nuovo linguaggio”.

Vogliamo ricominciare? Ma non si tratta di un ritorno al 2019, a prima della pandemia. La lanterna di Tolstoj che ci deve guidare facendoci mettere da parte i nostri egoismi e aprirci all’altro; dobbiamo riscoprire l’importanza di parole come solidarietà, condivisione, bene comune. Quando torneremo alla normalità – ecco sono caduto anch’io nella trappola di questa parola che aggiusta tutto – e allora chiediamoci cosa vuol dire normalità…

Forse dovremmo pensare a costruire parole nuove, a dare nuova luce a quelle già note: anche questo sarà un modo per non voltarci indietro e camminare invece in una prospettiva di cambiamento.

In questo alfabeto, l’ho pronunciata più volte, non poteva mancare la parola fragilità. Nel nostro immaginario collettivo la fragilità è associata alla parola debolezza. Certo è anche vero, ma pensiamo a quanta forza, a quanta volontà è necessaria per superare la situazione di fragilità. Torniamo per un attimo alla lettera del nostro collega che ho citato prima: quanta forza nelle parole che ha consegnato alla nostra lettura. Per lui, e spero non solo per lui, vale quanto afferma San Paolo: quando sono debole è allora che sono forte.

La fragilità, nel nostro mondo così convulso e ricco di stimoli, è associata alla mancanza di efficienza: fragile è chi non corre, non si muove con scioltezza; è il mito della perfezione, del non aver bisogno di un aiuto, dell’altro.

Un proverbio indiano narra di quattro stadi, quattro età, della vita dell’uomo. Il primo è lo stadio in cui si impara; il secondo è quello in cui si insegna e si servono gli altri; nel terzo si va nel bosco, il bosco profondo del silenzio, della riflessione, del ripensamento. Nel quarto stadio, si impara a mendicare; l’andare a mendicare è il sommo della vita ascetica, e il mendicante rappresenta lo stadio più alto dell’esistenza umana. È soprattutto la consapevolezza che si ha bisogno dell’altro, di avere accanto qualcuno che sia di aiuto.

La fragilità, dunque, è la nostra condizione umana. Ne facciamo esperienza sempre di più nella complessità delle relazioni. Fragili sono le relazioni personali e sociali. Fragili le parole che usiamo. Fragili sono le stesse democrazie, sotto la spinta di fenomeni eversivi, tra populismi e sovranismi. Fragili sono le persone…

Ma proprio perché è una condizione umana dobbiamo, noi giornalisti, essere attenti a come trattiamo il tema. Forse non ci rendiamo nemmeno conto, e, soprattutto, non lo facciamo con malizia, ma quando affrontiamo, ad esempio, nei servizi di cronaca, la questione dei falsi invalidi, ecco che rischiamo di mettere in cattiva luce anche le persone che vivono davvero e con dignità la propria condizione di disabilità.

Tutti conosciamo, o abbiamo visto in azione, Oscar Pistorius. Provate a digitare il suo nome e la prima frase che apparirà sul video del vostro computer vi stupirà: Pistorius, soprannominato “the fastest man on no legs” (il più veloce uomo senza gambe). Torna il concetto del superuomo, capace di stupire e di superare gli ostacoli nonostante la sua disabilità, che va menzionata, mentre dovremmo semplicemente mettere la persona al primo posto.

Infine, attenzione a quando ci rivolgiamo a una persona con disabilità: dobbiamo parlargli guardandolo, non avendo paura di dire espressioni che sono di uso comune e che, invece, omettiamo perché pensiamo che così non urtiamo la sua suscettibilità.

Permettetemi, infine, un ultimo veloce cenno alle nostre regole deontologiche, al Testo unico dei doveri del giornalista, in vigore dal primo gennaio 2021. Cito solo una parte dell’articolo 6 sui

Doveri nei confronti dei soggetti deboli. Informazione scientifica e sanitaria

Il giornalista:

a) rispetta diritti e la dignità delle persone malate o con disabilità siano esse portatrici di menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali, in analogia con quanto già sancito per i minori dalla «Carta di Treviso»;

b) evita nella pubblicazione di notizie su argomenti scientifici   un sensazionalismo che potrebbe far sorgere timori o speranze infondate avendo cura di segnalare i tempi necessari per ulteriori ricerche e sperimentazioni; dà conto, inoltre, se non v’è certezza relativamente ad un argomento, delle diverse posizioni in campo e delle diverse analisi nel rispetto del principio di completezza della notizia;

c) diffonde notizie sanitarie e scientifiche solo se verificate con fonti qualificate sia di carattere nazionale che internazionale nonché con enti di ricerca italiani e internazionali provvedendo a evidenziare eventuali notizie rivelatesi non veritiere;

d) non cita il nome commerciale di farmaci e di prodotti in un contesto che possa favorirne il consumo e fornisce tempestivamente notizie su quelli ritirati o sospesi perché nocivi alla salute.

Cito, infine, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, dove, all’articolo 2 si legge

per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo.

Nella Convenzione vengono elencati una serie di principi generali, e tra questi:

(a) il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone;

(b) la non discriminazione;

(c) la piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società;

(d) il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa;

(e) la parità di opportunità;

(f) l’accessibilità;

(g) la parità tra uomini e donne;

(h) il rispetto dello sviluppo delle capacità dei minori con disabilità e il rispetto del diritto dei minori con disabilità a preservare la propria identità.

Se vogliamo ricominciare davvero lasciandoci alle spalle la pandemia e, speriamo quanto prima, anche la guerra, recuperiamo quella lanterna e illuminiamo i nostri passi che siano nella prospettiva di un vero e profondo cambiamento che sappia accogliere l’altro nel rispetto della sua dignità e della sua libertà. Il senso della vita riguarda tutti e non può mai essere misurato e calcolato.

Permettetemi un’ultima citazione, una poesia di Montale del 1967. Quattro anni prima la morte della moglie Drusilla Tanzi, e il vuoto di questa mancanza l’affida a queste poche righe:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue”.

Raccontare la malattia e la disabilità senza pietismi – Andrea Vianello

Andrea Vianello, direttore Rai Radio 1

“Raccontare la malattia e la disabilità senza pietismi”

“Ho avuto la fortuna di lavorare con Alessandra in un periodo importante della mia carriera a “Mi manda Raitre”, un programma che cercava di aiutare i fragili che non avevano voce, quindi, un programma sicuramente fondante, in un periodo in cui il nostro Paese aveva bisogno che ci fosse la possibilità di alzare un po’ la voce … e quindi, il fatto di averla conosciuta, di vederla ogni giorno, di vedere quanto fosse bella e molto forte, è stato per me un privilegio. Sono molto contento e orgoglioso del fatto che le nostre due vite si siano intrecciate, anche se per poco tempo. Come dice il sottotitolo del nostro incontro, dobbiamo raccontare le malattie rare, in particolare, ma insomma, direi anche le malattie in generale. Dopo un tempo molto particolare che è quello della pandemia e della guerra, il nostro mondo improvvisamente è cambiato.
Da un momento all’altro la pandemia ci ha fatto capire quanto sia importante la Sanità pubblica. Un po’ lo avevamo dimenticato. Anche noi, come giornalisti, parlavamo di Sanità pubblica soprattutto per evidenziarne gli errori, per dire che c’erano problemi di prenotazioni o di code. Abbiamo capito, in realtà, che un Paese forte ha bisogno di una Sanità forte e che noi ce l’avevamo, ce l’abbiamo. Nell’ultima campagna elettorale non mi pare che la Sanità sia stata un tema centrale. Credo che sia un errore enorme. Se c’era una cosa che pensavamo di aver imparato e cioè che non si può fare politica, vivere e raccontare il mondo senza partire da una Sanità pubblica forte … bene … incredibilmente ce lo siamo dimenticato … o meglio, se lo sono dimenticato i politici di destra, di sinistra, di centro e tutti quelli che hanno partecipato all’ultima campagna elettorale. Spero che adesso se lo ricorderanno. Ecco, sono rimasto molto colpito, perché vuol dire che abbiamo predicato al vento come giornalisti e forse un pochino su questo dobbiamo fare un mea culpa. Nei prossimi mesi dovrò fare più domande ai politici, rispetto a che modello di Sanità vogliamo avere in questo Paese. Abbiamo capito, per esempio, che alcune Regioni che pensavamo essere molto forti, in realtà avevano una Sanità principalmente privata, magari fortissima, ma la pubblica era stata dimenticata.  La Sanità sarebbe stata un tema molto più importante rispetto ad altri al centro del nostro acceso dibattito politico. Anche io ho un’esperienza personale e la voglio mettere sul tavolo, altrimenti sarei ipocrita. Ho fatto il conduttore, faccio il giornalista e ho avuto la fortuna di fare un mestiere bellissimo, soprattutto lo faccio nel servizio pubblico. Chi lavora in Rai con serietà sa che cosa significa, conosce il nostro approccio alle cose. Abbiamo sempre cercato di dare voce al mondo della malattia, anche con l’aiuto di alcune associazioni come Telethon. C’è stata sicuramente una consapevolezza importante. Poi anch’io, improvvisamente, sono diventato fragile: ho avuto una crisi prima che arrivasse la pandemia, nel senso che ho avuto un ictus, una dissecazione della carotide, mi hanno operato e mi sono svegliato che grazie a Dio ero vivo. Ero ancora in questo mondo, con i miei tre figli e con mia moglie. Insomma, avevo già avuto una bella vita e per me questo era importante. Poi, però, non riuscivo più a parlare. Non so fare quasi niente, neanche mettere una lampadina, l’unica cosa che so fare è parlare. La malattia aveva colpito proprio quella che era la mia forza. Ero diventato fragile, come Superman quando entra in contatto con la criptonite. Mi chiedevo dove sarei andato a finire senza la parola, io che ero una parola vivente. Cosa succede dopo? Succede, appunto, che vivi e che trovi forze che neanche immagini di avere. La forza sicuramente te la dà, magari, il fatto che hai una famiglia, ti resta ancora la voglia di vivere, di poter dare una mano. In questo modo ne sono uscito. È chiaro che ne sono uscito più fragile e più debole. Per oggi, ad esempio, non ho scritto niente, perché se leggessi a voce alta potrei commettere errori. Poi dipende dai giorni. Insomma, il danno c’è stato, ma il cervello trova altre strade, ci mette un po’ a capire come farlo ma poi la trova. Adesso sono passati tre anni e mezzo. Ma oggi, appunto, prima di venire da voi, per leggere a voce alta, sono andato a fare la mia lezione di logopedia. Ho fatto un sacco di errori nel leggere un articolo di Repubblica. Dovevo leggere delle “non parole”. Non so se sapete cosa siano: sono una cosa terribile, parole finte che vengono usate proprio per chi deve ritrovare la gestione del linguaggio (il cervello che riconosce le parole deve imparare a riconoscere, per leggere, anche le non parole, ndr). Dopo tre anni e mezzo, però, posso dire che in realtà sono molto fortunato … e soprattutto non mi sento fragile. So soltanto di essere meno forte di prima da un punto di vista fisico, ma allo stesso tempo non mi sento di essere migliore. Non credo alla retorica che la malattia ci faccia diventare migliori. Credo di essere un uomo più profondo, con un rapporto un po’ più stretto con il vero me stesso, un rapporto che si perde un po’ nella vita, nella carriera, nell’orgoglio. Ma non sono migliore. Sono solo più forte di prima … e soprattutto non mi nascondo. Una cosa importante nella malattia è il non nascondersi. Sono cose che succedono. Alcuni, come Alessandra, hanno avuto una vita segnata. Ma lei era una donna così luminosa dentro di sé! La cosa più importante è la luce che abbiamo dentro di noi. Non so se adesso ho più luce, ma sicuramente ho un’anima più accesa, più consapevole della bellezza di questa vita che è anche sofferenza. Credo che una delle cose che mi porto da questa esperienza, anche nel lavoro che faccio è di raccontare la malattia senza nascondere le persone. Ho scritto un libro, ad esempio, su questa mia storia e l’ho fatto proprio perché volevo raccontarla, perché è il mio lavoro e perché non ho niente da nascondere. Non è stata colpa mia. A volte chi ha avuto una malattia pensa che sia una colpa propria, invece non è colpa di nessuno. Succede e quindi non lo dobbiamo nascondere, anzi, è un pezzo della nostra vita che sicuramente sarebbe meglio non aver vissuto, ma con cui si deve fare i conti. Avere il coraggio di pronunciare “ictus”, una parola che fa molta paura, è importante. Abbiamo evitato di dire per tanti anni “cancro”, ma adesso abbiamo superato questo blocco. Sto cercando di fare la stessa cosa con la parola ictus. In fondo lo capisco: è difficile parlare dell’ictus, che è la terza causa di morte e la prima causa di disabilità in questo Paese. Se ne parla pochissimo, perché ne abbiamo paura. Ha paura chi non l’ha avuto e soprattutto noi che ci siamo passati. C’è poi la paura di dire: tu sei quello dell’ictus. Ma io non sono quello dell’ictus. Io ho avuto un ictus. Credo che la cosa più importante sia sdoganare questa parola, sia raccontare che cos’è una malattia, come prevenirla, come gestirla. Aiutare le famiglie, che sono importanti in queste situazioni e soprattutto aiutare noi stessi. Non bisogna pensare che la nostra vita è finita, che è diversa da prima. Certo, a volte è diversa da prima, ma l’anima rimane la stessa. Il senso di quello che ho cercato di fare in questi tre anni e mezzo, a metà tra un lavoro che mi impegna, grazie a Dio fortemente e il ruolo di presidente di Alice, l’associazione nazionale per la lotta all’ictus, è quello di dare, appunto, un piccolo contributo non da medico, ma da paziente e da giornalista comunicatore. Essere un po’ come un piccolo portabandiera di una grossa comunità composta da chi è stato colpito da un fulmine che quando arriva rompe il nostro motore. Quando è uscito il libro, è entrata nella mia stanza una giovane donna che lavora in Rai, per chiedermi una dedica. Non la conoscevo. Aveva 24 anni ed era stata colpita da un ictus quando era molto più giovane. Me lo ha raccontato. Ragazza molto bella, molto carina e dolcissima. Mentre parliamo entra una collega nella mia stanza e mi accorgo che la ragazza ha subito nascosto la sua mano. L’ictus a me ha colpito la parola. A quella ragazza giovane e bella, dell’ictus le era rimasto un problema alla mano, un pugno chiuso. Quando è uscita la collega, ho chiesto alla ragazza perché avesse così paura di far vedere la sua mano. Lei mi ha detto che ci pensa tutto il giorno. Ho provato a farle capire che è una ragazza giovane e bella e che non deve pensare a quella mano, quindi, le ho scritto una dedica sulla copia del libro, ricordandole che è molto bella. Tutti i giorni, prima della pandemia, entravo nella sua stanza a ricordarle quanto fosse bella. Non so se questa difficoltà le sia rimasta, anche perché non ci siamo visti per un po’ per via della pandemia. Anche Alessandra era una ragazza bellissima. Di lei ricordo che era molto bella e piena di luce, che è la forza non di chi è fragile, ma di chi è consapevole della sua anima”.

La cura della fragilità nel magistero di Papa Francesco – Paolo Ruffini

Paolo Ruffini, Prefetto dicastero per la Comunicazione della Santa Sede

“La cura della fragilità nel magistero di Papa Francesco”

È interessante parlare di fragilità in un tempo che predica invece la forza.

E riflettere su quel paradosso che è la forza della fragilità.

In un suo saggio di qualche anno fa, un teologo francese, Paul Valadier, ha tessuto un vero e proprio elogio della «vulnerabilità», come antitesi della indifferenza. Come capacità di accettare le ferite, quelle del corpo e quelle dell’anima; e di farsi carico della vulnerabilità dell’altro. Di saperla vedere, raccontare anche, e curare.

Può sembrare assurdo, ma per chi crede la fragilità è anche una delle caratteristiche di Dio; onnipotente; eppure vulnerabile nel suo essere coinvolto dalle vicende dell’uomo.

Vulnerabile proprio perché amore. Proprio perché non indifferente.

Coinvolto a tal punto, da farsi egli stesso uomo, fragilmente umano, proprio per amore dell’uomo.

La cura della fragilità nel magistero di Papa Francesco, che è poi il titolo di questo mio intervento, trova esattamente qui la sua radice.

Ed oggi che il Papa ci appare egli stesso più fragile, e vulnerabile, si manifesta in una testimonianza fortissima.

La fragilità e la sua cura fanno parte della nostra essenza.

Il Papa scrive il suo magistero con i gesti prima ancora che con le parole.

Ed ecco: il primo gesto è non nascondere la propria di fragilità.

Le sue stesse parole seguono i gesti. Per questo comunicano.

Per la loro verità.

Per questo sono credibili.

Perché sono state prima testimoniate e poi dette.

E a volte anche taciute. In preghiere mute e sofferenti.

La preghiera di chi crede.

Spes contra spem.

Fondata sulla sofferenza, la passione di Dio stesso. Preludio della resurrezione. E allo stesso tempo pianta saldamente nel mondo.

La speranza richiede anche un impegno concreto.

La fragilità esige la cura.

Al di là della ricerca scientifica che fa passi da gigante, che va supportata, finanziata, orientata al bene comune, la fragilità è comunque un mistero. E ancora più misteriosa, ingiusta, ci appare la fragilità dei più piccoli, degli innocenti. Il dolore dei bambini per esempio.

“Io non ho una risposta – ha detto una volta il Papa, era il 15 dicembre 2016 – sul perché i bambini muoiono.

Nemmeno Gesù ha dato una risposta a parole.

Di fronte ad alcuni casi, capitati allora, di innocenti che avevano sofferto in circostanze tragiche, Gesù non fece una predica, un discorso teorico.

Si può certamente fare, ma Lui non lo ha fatto.

Vivendo in mezzo a noi, Gesù non ci ha spiegato perché si soffre. Ci ha mostrato la via per dare senso anche a questa esperienza umana:

non ha spiegato perché si soffre, ma sopportando con amore la sofferenza ci ha mostrato per chi si offre. Non perché, ma per chi”.

Cfr discorso agli infermieri, 15 dicembre 2016

Ecco.

In questa unione fra il gesto e la parola c’è secondo me il cuore del magistero del Papa sulla fragilità. Che si fonda sull’accompagnamento.

Per questo, in tutto quello che dice, in tutto quello che fa, Francesco cerca di essere strumento della tenerezza di Dio. E di offrire così una visione profetica della fragilità

Una visione che comprende purtroppo anche la malattia, e il dolore.

Un approccio che richiede la cura, non l’accanimento. Dovela fragilità dell’uomo si specchia nella fragilità di Dio…

“Tante volte – ha detto il Papa – io penso alla Madonna, a quando le hanno dato il corpo morto di suo Figlio, tutto ferito, sputato, insanguinato, sporco. E cosa ha fatto la Madonna? Lo ha abbracciato, lo ha accarezzato. Anche la Madonna non capiva. Perché lei, in quel momento, ha ricordato quello che l’Angelo le aveva detto: “Egli sarà Re, sarà grande, sarà profeta…”; e dentro di sé, sicuramente, con quel corpo così ferito tra le braccia, con tanta sofferenza prima di morire, dentro di sé sicuramente avrebbe avuto voglia di dire all’Angelo: “Bugiardo! Io sono stata ingannata”. Anche lei non aveva risposte.

Noi possiamo chiedere al Signore: “Ma Signore, perché? Perché i bambini soffrono? Perché questo bambino?”. Il Signore non ci dirà parole, ma sentiremo il Suo sguardo su di noi e questo ci darà forza.

Non abbiate paura di chiedere, anche di sfidare il Signore. “Perché?”. Forse non arriverà alcuna spiegazione, ma il Suo sguardo di Padre ti darà la forza per andare avanti. Non abbiate paura di chiedere a Dio: “Perché?”, sfidarlo: “Perché?” Sempre siate con il cuore aperto a ricevere il Suo sguardo di Padre. L’unica spiegazione che potrà darti sarà: “Anche mio Figlio ha sofferto”.

Ma quella è la spiegazione.

 E’ la cosa più importante. E’ lo sguardo. La vostra forza è lì: lo sguardo amoroso del Padre”.

29 maggio 2015, incontrando alcuni genitori a casa Santa Marta

Queste parole, e i gesti che le hanno accompagnate, raccontano il magistero della Chiesa, e del Papa, sulla fragilità. Il mistero della forza della fragilità. Dell’amore che vince la morte. E richiede anche gesti concreti, politiche concrete, impegni concreti.

Anche su questo il magistero del Papa e della Chiesa è netto.

Reclama il diritto alla cura.

“Il segreto della vita – spiega Papa Francesco – ci è svelato da come l’ha trattata il Figlio di Dio che si è fatto uomo fino ad assumere, sulla croce, il rifiuto, la debolezza, la povertà e il dolore (cfr Gv 13,1). In ogni bambino malato, in ogni anziano debole, in ogni migrante disperato, in ogni vita fragile e minacciata, Cristo ci sta cercando (cfr Mt 25,34-46), sta cercando il nostro cuore, per dischiuderci la gioia dell’amore”.

Cfr. commento al comandamento “Non uccidere” nella udienza generale del 10 ottobre 2018 https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2018/documents/papa-francesco_20181010_udienza-generale.html

Per questo vale la pena curare la vita, ogni vita?

“Perché ogni uomo vale il sangue di Cristo stesso (cfr 1 Pt 1,18-19). Non si può disprezzare ciò che Dio ha tanto amato!”.

Un legame profondo lega dunque il discorso sulla fragilità a quello sull’amore. E quello sull’amore a quello sulla giustizia. Il diritto ad essere curati con il dovere di garantire l’accesso alle terapie essenziali o necessarie. Soprattutto nei Pasi più poveri, dove si muore per niente; o nel caso di malattie rare, po dei cosiddetti farmaci orfani; perché ogni vita vale. Il suo valore è infinito.

“La vita – ci ricorda il Papa – è aggredita dalle guerre, dalle organizzazioni che sfruttano l’uomo, dalle speculazioni sul creato e dalla cultura dello scarto, e da tutti i sistemi che sottomettono l’esistenza umana a calcoli di opportunità, mentre un numero scandaloso di persone vive in uno stato indegno dell’uomo. Questo è disprezzare la vita, cioè, in qualche modo, uccidere”.

Cfr. commento al comandamento “Non uccidere” nella udienza generale del 10 ottobre 2018

“Un bimbo malato è come ogni bisognoso della terra, come un anziano che necessita di assistenza, come tanti poveri che stentano a tirare avanti: colui, colei che si presenta come un problema, in realtà è un dono di Dio che può tirarmi fuori dall’egocentrismo e farmi crescere nell’amore. La vita vulnerabile ci indica la via di uscita, la via per salvarci da un’esistenza ripiegata su sé stessa e scoprire la gioia dell’amore”.

Cfr. commento al comandamento “Non uccidere” nella udienza generale del 10 ottobre 2018

La cura è la via. La cura amorevole, senza la quale la cura medica è claudicante. La cura integrale, la cura giusta, che riguarda la scienza, la medicina, ma che va intessuta di amore; e che coinvolge dunque anche il modo in cui concepiamo le nostre relazioni, l’economia, il lavoro, la pace.

È l’amore che tutto lega perché …

“nelle dinamiche esistenziali tutto è in relazione, e occorre nutrire sensibilità personale e sociale sia verso l’accoglienza di una nuova vita sia verso quelle situazioni di povertà e di sfruttamento che colpiscono le persone più deboli e svantaggiate.

Se da una parte «non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano […] quando non si dà protezione a un embrione umano» (Lett. enc. Laudato si’,120), dall’altra parte la vita umana stessa è un dono che deve essere protetto da diverse forme di degrado (Ibidem 5). Infatti, dobbiamo constatare con dolore che sono tante le persone provate da condizioni di vita disagiate, che richiedono la nostra attenzione e il nostro impegno solidale”.

Cfr discorso ai partecipanti al Convegno dei Centri di Aiuto alla Vita -6 novembre 2015 –www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/november/documents/papa-francesco_20151106_centri-aiuto-alla-vita.html

E quanto alla salute, come disse il Cardinale Martini

“Non si può pensare alla sanità come azienda, alla salute come prodotto, al paziente come cliente … ciò significa recuperare e rilanciare la soggettività della società, incoraggiando e sostenendo la responsabilità delle persone, singole o aggregate, affinché la società civile abbia a esprimersi come forza autonoma rispetto sia allo Stato sia al mercato”.

Cfr discorso su “L’etica dello stato sociale”, tenuto alla Sapienza di Roma il 24 novembre 1999

L’amore è, nella cura intesa così, la chiave del mistero della vita. L’unico antidoto alla morte e alla ingiustizia. L’unico rimedio al dolore laddove la cura non può curarlo. L’unica strada alla felicità che reclamiamo nutrendola troppo spesso di egoismi e di rancori.

Ci sarebbe a questo punto, concludendo, da domandarsi ancora. E la morte? La morte che abbiamo cacciato dai nostri orizzonti? La morte fa parte della vita.

È della vita il passaggio forse più difficile. Che proprio per questo ha bisogno di essere accompagnato e non rimosso. In qualsiasi momento delle nostre vite essa accada.

Questo accompagnamento – che richiede sapere medico, discernimento sulle cure mediche proposte e condivisione spirituale – non riguarda solo chi è fragile, ma anche chi gli sta vicino. Chi amando l’altro, il figlio, il padre, la madre, l’amato, l’amata, l’amico, l’amica, non riesce a comprendere il perché di questa sofferenza.

Di chi vede nel paziente un altro sé stesso. Di chi pensa pensa il concetto di salute in un’ottica integrale, che abbraccia tutte le dimensioni della persona.

“In una società che rischia di vedere i malati come un peso, un costo – dice papa Francesco – occorre rimettere al centro ciò che non ha prezzo, non si compra e non si vende, cioè la dignità della persona. Le patologie possono segnare il corpo, confondere i pensieri, togliere le forze, ma non potranno mai annullare il valore della vita umana”. Il diritto alla salute è un diritto fondamentale. Sempre. Non può ridursi a un si salvi chi può. E allora “occorre lavorare perché tutti abbiano accesso alle cure, perché il sistema sanitario sia sostenuto e promosso… Tagliare le risorse per la sanità è un oltraggio all’umanità”.

Saluti istituzionali – Marcello Cattani Presidente Farmindustria

“Come presidente di Farmindustria è un onore per me essere qui, nel ricordo di Alessandra. Non ho avuto il piacere personale di conoscerla, ma il video mi è bastato: sorrisi, gioia di vivere e professionalità, competenze, un’età fresca e una malattia. Noi – ed io personalmente per il mio percorso professionale – siamo molto vicini al mondo dei malati rari, dove ancor di più che in tanti altri casi si celano drammi e gioie familiari al tempo stesso: gioie quando si vedono momenti positivi, piccoli miglioramenti, piccoli passi; ma c’è anche un tema sociale, un tema di stigma che riguarda spesso i familiari e i genitori; un tema che non deve essere trascurato. Prima di tutto, quindi, il mio è un messaggio di vicinanza alla famiglia, perché il ricordo è molto bello, ma credo che crei e rinnovi emozioni come dolori. Oggi lo scopo è quello di celebrare e dare un riconoscimento anche ai giovani come Alessandra che intendono impegnarsi su questo fronte del giornalismo. Un giornalismo che ha un bisogno enorme di autorevolezza nel condurre il filone della narrazione legato alle malattie rare, in un contesto che ci vede trascinati da tante contingenze, da crisi, ma che non deve dimenticarsi di questo come di altri temi che nel quotidiano rischiano di perdersi. Ora vengo più al nostro specifico impegno, più vivo che mai, come associazione d’imprese farmaceutiche. Negli ultimi 20 anni in Europa, il mondo delle malattie rare, la ricerca, il diritto e l’accesso ai farmaci sono stati una grandissima conquista. Siamo passati da pochissimi farmaci agli inizi degli anni 2000 a oltre 200 farmaci; anche il nostro Paese ha un ruolo importante nella ricerca. Ma anche da questo punto vista, non è tutto rose e fiori. L’Europa si sta attrezzando per una nuova rivisitazione della normativa sui farmaci che sono tanti: oltre 2500, di cui tanti destinati ai malati rari. Questa legislazione, purtroppo, sta avendo un iter troppo lento. L’Europa complessivamente ha perso la gara della ricerca e dell’innovazione non solo in questo settore, ma anche nella transizione ecologica, nella ricerca delle fonti alternative, nell’idrogeno. Il mondo si è polarizzato con Stati Uniti da una parte e Cina dall’altra e anche nel nostro settore stiamo vivendo questa realtà. Credo, quindi, che sia importante portare questo confronto anche all’interno dell’Università credo, poiché si uniscono i mondi della ricerca, della scienza, della comunicazione e della divulgazione, per condividere e per fare fronte comune. Riteniamo che il valore della ricerca sia oggi incontrovertibile. Vi sono studi di farmacoeconomia che dimostrano il valore della ricerca. Le aziende in Italia investono tanto: si parla di oltre 700 studi all’anno e molti di essi sono nell’ambito delle malattie rare, che sappiamo essere 8.000. Solo il 5% di queste 8.000 malattie, oggi, ha una terapia. C’è ancora molto da fare, quindi, per conoscerle, per scoprirle, per aiutare gli screening neonatali e quindi per poter dare accesso e cure migliori ai cittadini. Siamo tutti prima o poi pazienti nella vita: c’è chi ha più fortuna e chi è meno fortunato. Ma riguarda tutti direttamente. Credo, quindi, che in un Paese che ha scelto la strada democratica di un sistema sanitario universalistico, coniugare un maggiore investimento nella ricerca, quando si investe ancora troppo poco in ricerca pubblica – soltanto 1,3% del Pil rispetto ai nostri competitor europei – sia un messaggio forte da portare anche alle nuove istituzioni e al nuovo governo che verrà. E quindi vorrei ribadire il nostro impegno e la nostra vicinanza alla famiglia di Alessandra, alla Fondazione e al Premio, che ha una finalità molto alta e nobile: assegnare riconoscimenti a chi si impegna nel fronte del giornalismo a raccontare storie come l’esempio di Alessandra – che ha vissuto una vita piena, nonostante le difficoltà e nonostante le malattia – che a volte sono davvero storie di vita impensabili, di grande forza, di grande dignità e di grande inclusione sociale. È tutto questo il collante, il filo di unione tra Alessandra, il presente e il futuro di chi, come lei, si sta impegnando e si impegnerà per un’informazione autorevole, libera e aperta al mondo”.

Saluti istituzionali – Lorenza Lei Presidente Onoraria Fondazione Alessandra Bisceglia

“Per me Alessandra, come per tutti i presenti, rappresenta in quest’aula universitaria l’incontro tra l’io individuale e l’io sociale. Il video che abbiamo visto rappresenta frammenti di una vita vissuta intensamente seppur brevemente. Colgo l’occasione per ringraziare tutti i presenti, perché in sei anni abbiamo costruito realmente tanto e sto parlando del Premio giornalistico, un grande indicatore del successo di Alessandra, che sta riunendo insieme tante persone che l’hanno vissuta e che l’hanno seguita e che le hanno voluto bene. Devo alzarmi in piedi tutte le volte che parlo in quest’aula, perché altrimenti mi viene da piangere e quindi devo trattenermi, devo prendere fiato ed una piccola rincorsa per dire grazie a tutti veramente. Pensate che il sorriso di Alessandra apre le porte, come io ho aperto la mia porta in un giorno veramente incredibile. La porta era più piccola e io non sapevo che lei fosse su una sedia a rotelle. La convocai perché avevo avuto il suo curriculum, mi era arrivato. Me l’aveva mandato e l’avevo letto. Così ho detto: “Andiamo subito nella 789 perché qui non entra”. Chi è stato in Rai sa che cos’è la 789: è una piccola sala riunioni che però ha una porta regolare; mentre la mia stanza aveva una porta non angolare … questo mi dava molta agitazione, anche perché Alessandra non la vedevo sulla sedia a rotelle, così come voglio vedere tutti coloro che hanno delle abilità diverse. Mi fermo qua, perché potrei trattenervi e anche emozionarvi e invece vi auguro buon lavoro”.

Saluti istituzionali – Francesco Bonini, Rettore Università Lumsa

“L’Università è una struttura molto articolata e complessa, ma l’Università vive soprattutto delle persone concrete, degli studenti, dei docenti, di tutti coloro che compongono la comunità universitaria. La caratteristica dell’Università è proprio quella di dispiegarsi nel tempo e credo che questa occasione che segue – come diceva Donatella Pacelli diversa dalle altre precedenti – ci faccia entrare nello spirito vero dell’Università, intorno ad Alessandra Bisceglia. Tutti noi, quindi, non solo siamo convinti. Siamo contenti di questo contributo annuale, che è un momento di ricordo, di riconoscenza, di riflessione. L’Università è una struttura complessa, che vive in un sistema. Sono molto lieto, quindi, che ci siano esponenti di rilievo dell’Ordine dei giornalisti della regione Lazio e dell’Ordine nazionale, di Farmindustria, del mondo di quella che si chiama, con un’espressione ricorrente, società civile: perché l’Università, appunto, è dentro questo sistema. Fare bene l’Università significa fare memoria e avere l’eredità del passato per avere prospettive per il futuro. Grazie veramente, quindi, alla famiglia Bisceglia; grazie ad Alessandra; grazie a tutti i docenti che si sono alternati e che hanno costruito il sistema della nostra Facoltà di Scienze della Comunicazione, che è stato il primo Italia e che continua ad esserlo e non soltanto dal punto di vista cronologico. Buon lavoro a tutti e buon cammino per il nostro impegno”.

Apertura dei lavori – Donatella Pacelli professoressa Lumsa di Roma, vicepresidente Fondazione Alessandra Bisceglia

Donatella Pacelli, professore ordinario all’Università Lumsa di Roma, vicepresidente Fondazione Alessandra Bisceglia

Apertura dei lavori

“Benvenuti a questo evento, che ormai per noi è un appuntamento molto sentito e che è arrivato alla sua sesta edizione. Un appuntamento con cui la Fondazione ViVa Ale, l’Università Lumsa di Roma e l’Ordine dei Giornalisti portano avanti un progetto condiviso, teso a valorizzare il giornalismo che ha il coraggio di fare comunicazione sociale; che ha il coraggio di farlo declinando il grande tema della comunicazione sociale con particolare attenzione al tema delle malattie rare: quelle patologie che hanno conosciuto molte persone  e che non sono più tanto rare, ma che hanno bisogno di formazione e di divulgazione, per far anche capire che forse siamo pronti a un approccio culturale diverso rispetto alla malattia. È un progetto che unisce in un continuo sinergico, il momento della formazione a quello del riconoscimento e della valorizzazione dei giovani e meno giovani. Ringraziamo veramente tanto i giovani che hanno risposto a questo bando, perché hanno colto, nell’ormai grande panorama dei premi giornalistici, l’aspetto, la specificità e l’identità di questo particolare concorso. Un concorso che entra nel cuore della comunicazione sociale con un’attenzione mirata a migliorare le condizioni di chi vive una patologia rara e che lo fa  – come mi piace dire – con narrazioni che raccontando i disagi che esistono, le barriere fisiche e simboliche che ancora dobbiamo superare, ma anche con contro-narrazioni che fanno un po’ di luce su cosa sta cambiando e sui traguardi raggiuti anche in termini di empowerment da parte di chi vive nel disagio, di tutto ciò che concorre a non aggiungere disagio al disagio. Stiamo parlando di un momento formativo importante, che precede il conferimento del premio e dei riconoscimenti speciali, che ci fanno capire che abbiamo un giornalismo italiano che gode di una buona salute. Forse di alcune di queste testate si parla poco. Ma ci sono. E nel momento di conferire i premi ci fa piacere testimoniare anche il fatto che non ci sono solo giovani agli albori della loro professione, ma anche rappresentanti di un giornalismo più strutturato. La parte iniziale (del corso-convegno, ndr.) sarà dedicata ad introdurre i nostri temi con un momento di alta formazione.  Ringrazio veramente tutti i relatori e giornalisti che hanno accolto il nostro invito ad essere presenti in questo convegno e a condurci in un dibattito che penso sia veramente molto interessante. Nei nostri convegni abbiamo già messo a fuoco la difficoltà di trovare le parole giuste, di dialogare tra vecchio e nuovo giornalismo, di mantenere questo ethos e di andare a divulgare e a toccare con mano le situazioni di cui si vuole parlare. Oggi non potevamo non parlare dei problemi che si affrontano, con i temi della comunicazione sociale e della malattia in particolare, in un contesto difficile che ha alterato la nostra vita e che ha messo anche in subbuglio anche le agende giornalistiche: crisi su crisi, pandemia e guerra non possono non impattare su una trattazione giornalistica che per lasciare spazio ai fragili deve sicuramente fare un importante lavoro aggiuntivo. Crediamo molto nella formazione e nella divulgazione. Siamo in un Ateneo e quindi sentiamo l’importanza di mantenere l’insegnamento di Alessandra nella formazione, nella divulgazione, nell’informazione. Le immagini che abbiamo visto narrano tanto di lei. Ma finito il video, quello che ci rimane è una luce, una luce profonda, la luce del suo sguardo, la luce e la forza del suo sorriso. Ecco, questa luce non si è dispersa. Questa luce si è riversata nel lavoro di una Fondazione che grazie, in primis, alla splendida famiglia di Alessandra (Raffaella, Antonio, Nicola e Serena) non ha disperso questo insegnamento. Grazie a tutti i soci fondatori e grazie in particolare alla prima presidente della nostra Fondazione, che con l’intelligenza creativa, l’intuito a sensibilità che la contraddistingue ha capito che una Fondazione nel nome di Alessandra poteva fare tante cose e poteva volare alto !!! Sono 12 anni – e non senza difficoltà – che la nostra Fondazione vola alto !!! E mi fa piacere dirlo come relatrice di Alessandra e come vicepresidente di questa Fondazione, che grazie ad Alessandra è diventata la famiglia di noi tutti. Il materiale divulgativo che trovate anche nelle varie sacchette (distribuite in sala, ndr.) e comunque nel sito (della Fondazione Alessandra Bisceglia, ndr.) vi fa capire quante cose importanti faccia la Fondazione, che nasce per sostenere la ricerca sulle patologie rare, sotto a guida ineguagliabile, sapiente e generosa del nostro direttore scientifico Cosmoferruccio De Stefano. Ma il lavoro poi è cresciuto. Ed è cresciuto in un approccio interdisciplinare che fa anche formazione nelle scuole, che fa accompagnamento per le famiglie che si trovano a vivere queste difficoltà, grazie ad una équipe molto articolata. In tutto questo grande lavoro, il Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia per la comunicazione sociale occupa un posto importante per due motivi. Il primo, perché Alessandra era una giovane donna giornalista che ci ha creduto tanto e che ha fatto del suo talento un’affermazione personale importante. L’abbiamo vista, a neanche 28 anni, raggiungere traguardi importanti per come si è impegnata nello studio e nella professione: una professione che metteva insieme il giornalista e l’autore. Il secondo motivo di importanza, è che questo Premio dimostra che i temi difficili della comunicazione sociale, che incrocia il vero grosso tema della malattia, non possono essere affidati solo alla divulgazione scientifica. Grazie a tutti coloro che sono qui, grazie a chi ha risposto al bando. La partecipazione sempre crescente ci fa capire che siamo sulla buona strada. E abbiamo avuto contributi di grande sensibilità sia dai premiati che dai non premiati. Grazie ai relatori, grazie agli illustri presenti a questo primo tavolo di saluti. Cedo subito la parola al nostro Magnifico Rettore, il professor Francesco Bonini, che ringrazio anche a titolo personale, perché ha sempre sostenuto con grande passione e commozione quello che noi facevamo nel nome di Alessandra. Cominceremo con il professor Bonini, seguirà la professoressa Lorenza Lei, presidente onorario della Fondazione, che ringrazio anticipatamente. Saluto anche il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani, nuovo compagno di viaggi, che colgo l’occasione di ringraziare subito, perché abbiamo veramente bisogno di un sostegno ampio e di articolare il nostro lavoro su vari fronti. Chiaramente, non posso non ringraziare gli amici dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio e nazionale, come Paola Spadari, nostra grande amica, tanto vicina alla Fondazione. Grazie a tutti !!!”.

Comunicato stampa: Il Premio giornalistico Alessandra Bisceglia su malattie rare e integrazione apre anche ai podcast

11 novembre 2022

COMUNICATO STAMPA

“Il Premio giornalistico Alessandra Bisceglia su malattie rare e integrazione apre anche ai podcast”

 Pubblicato il bando per la settima edizione del concorso, rivolto ai giornalisti di età non superiore ai 35 anni. Le candidature dovranno essere presentate entro il 30 aprile 2023. In palio tre premi da mille euro ciascuno, ma saranno assegnati anche riconoscimenti speciali

Con la pubblicazione del bando avvenuta in queste ore, ritorna il Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia per la comunicazione sociale, che per l’edizione 2023 – la settima dalla sua istituzione – si presenta con una significativa apertura alle nuove multimedialità. Il concorso – dedicato alla memoria di Alessandra Bisceglia, la giornalista lucana scomparsa nel 2008 a 27 anni per una patologia vascolare rarissima – è promosso dalla Fondazione a lei intitolata e dall’Università Lumsa di Roma ed è rivolto a giornalisti pubblicisti o professionisti di età non superiore ai 35 anni e ai giovani che frequentano scuole di giornalismo riconosciute dall’Ordine nazionale. L’obiettivo è quello di stimolare l’impegno dei giovani giornalisti “per una diffusione della comunicazione sociale sulle malattie rare, con particolare attenzione all’evidenza scientifica e all’equità nell’accesso alla cura e sulle pratiche di integrazione per le persone diversamente abili, testimoniate da episodi che esprimono etica solidale e senso civico”. Il concorso è suddiviso come sempre in tre categorie, ma la loro articolazione è stata quest’anno modificata per andare incontro alle evoluzioni del giornalismo. Le sezioni sono le seguenti: servizi radio-televisivi; articoli su agenzie di stampa, quotidiani e periodici; servizi, articoli, podcast e multimediali sul web. L’importante novità della settima edizione è proprio l’apertura ai podcast, registrazioni scaricabili o ascoltabili sul web o su strumenti tecnologici di uso comune come gli smartphone, che si stanno facendo largo sempre di più nel mondo del giornalismo e della comunicazione. Per partecipare i candidati dovranno inviare a mezzo raccomandata o via posta elettronica – entro il 30 aprile 2023 e secondo le modalità indicate nel bando, consultabile e scaricabile sul sito internet della Fondazione Alessandra Bisceglia – articoli o servizi pubblicati o trasmessi nel periodo compreso fra il primo marzo 2022 e lo stesso giorno del 2023. La dotazione del Premio è di tremila euro, da dividere in tre premi dal valore di mille euro, assegnati ai vincitori di ciascuna sezione. Previsto, inoltre, un riconoscimento speciale alle testate giornalistiche che si sono distinte nello sviluppo dei temi del bando. L’assegnazione dei premi, che saranno consegnati in una cerimonia che si terrà entro il mese di ottobre del 2023, sarà determinata da una giuria composta da rappresentanti dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, della Lumsa, del Vicariato, dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), da giornalisti e soci della Fondazione “Alessandra Bisceglia”.

VI edizione del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia: il 28 settembre alla Lumsa di Roma il gran finale con la premiazione

21 settembre 2022

COMUNICATO STAMPA

 VI edizione del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia: il 28 settembre alla Lumsa di Roma il gran finale con la premiazione

 Si inizierà alle 14.30 con i saluti istituzionali e con il convegno “Fragili più fragili. Raccontare le malattie rare al tempo della pandemia e della guerra”. Dalle 18 la consegna dei premi e dei riconoscimenti speciali

 ROMA – Sostenere l’impegno dei giovani giornalisti nella diffusione di una cultura di solidarietà, integrazione e inclusione, promuovere una corretta informazione sulle malattie rare e sull’equità dell’accesso alle cure, alimentare proficui dibattiti e riflessioni su tematiche sociali e sistema sanitario. Sono gli obiettivi del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia per la comunicazione sociale, il concorso rivolto ai giornalisti di non più di 35 anni e agli studenti delle scuole di giornalismo, che è giunto quest’anno alla sesta edizione. Il 28 settembre – con inizio alle ore 14.30 nell’Aula Magna dell’Università Lumsa di Roma – si terrà l’evento conclusivo con la premiazione dei vincitori delle tre sezioni: Web; Radio-Televisione; Agenzie di stampa, quotidiani, periodici.

Il concorso è dedicato alla memoria di Alessandra Bisceglia, giovane giornalista lucana scomparsa prematuramente il 3 settembre 2008, all’età di 27 anni, in seguito ad una grave patologia legata a una malformazione vascolare rarissima. A promuovere il Premio Giornalistico, che diventa di anno in anno più importante e prestigioso, la Fondazione intitolata ad Alessandra, in collaborazione con l’Università Lumsa e con il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti.

La cerimonia di premiazione verrà preceduta, come di consueto, da un corso-convegno che garantirà ai partecipanti l’acquisizione di crediti per la formazione continua dei giornalisti e che potrà essere seguito anche in diretta streaming sul canale YouTube della Fondazione Alessandra Bisceglia. Tema scelto quest’anno, “Fragili più fragili. Raccontare le malattie rare al tempo della pandemia e della guerra

Si inizierà con i saluti istituzionali della vicepresidente della Fondazione ViVa Ale, Donatella Pacelli (Università Lumsa), del rettore della Lumsa, Francesco Bonini, della presidente onoraria della Fondazione, Lorenza Lei, del presidente di Farmindustria Marcello Cattani e dei presidenti dell’Ordine dei Giornalisti nazionale e del Lazio, Carlo Bartoli e Guido D’Ubaldo. Il convegno sarà moderato dal Capo Ufficio Stampa dell’Istituto Superiore di Sanità, Mirella Taranto. Interverranno Paolo Ruffini (prefetto del dicastero per la Comunicazione della Santa Sede), Andrea Vianello (direttore Radio 1), Fabio Zavattaro (condirettore del Master in Giornalismo della Lumsa), Andrea Garibaldi (giornalista e socio fondatore di ViVa Ale), Vincenzo Morgante (direttore di TV2000) e Roberto Natale (Rai per la Sostenibilità). Dopo i relatori sarà la volta degli ospiti, con Franco Di Mare (Rai 3), Laura Pertici (La Repubblica), Roberto Giacobbo (giornalista e conduttore televisivo), Paola Severini Melograni (conduttrice Rai). Intorno alle 18, la consegna dei premi e dei riconoscimenti speciali, che sarà condotta dal lucano Oreste Lo Pomo, caporedattore centrale della Tgr Campania. Chiuderà la serata, con un suo intervento, la presidente della Fondazione Alessandra Bisceglia ViVa Ale Onlus, Serena Bisceglia.