Intervista a Giuseppe Nuzzi

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Certamente: spesso si ha la convinzione che argomenti troppo specifici non possano trovare spazio all’interno di un pubblico vasto e generalista, ma credo sia una concezione sbagliata. Con un giusto tipo di narrazione (che sia appunto un racconto e non una fredda esposizione dei fatti) anche temi di questo tipo possono diventare più facilmente comunicabili e, quindi, sensibilizzare l’opinione pubblica.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ammetto di avere un’esperienza limitata nel campo, ma la storia che ho raccontato nell’articolo presentato per questo Premio mi ha colpito: basta davvero poco per creare un ambiente sicuro per tutte e tutti e, soprattutto, per dare vita a un progetto che coinvolga anche realtà difficili. Performattivə – il nome del gruppo di ricerca teatrale di cui parlo – è formato da diversi membri della comunità queer di Bologna ed è ora ospitato nei locali del condominio sociale di Piazza Grande, uno spazio che punta a reinserire nella società persone dal passato complesso.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Parto dal presupposto che, per mia convinzione personale, l’oggettività nel giornalismo è un mito che andrebbe sfatato. Il che, ovviamente, non vuol dire prendersi la facoltà di scostarsi dalla verità dei fatti. La sofferenza è un tema particolarmente delicato, che spesso viene anche spettacolarizzato dalle testate proprio perché è un argomento che può fare leva sull’interesse del pubblico. Occorrerebbe invece avere uno sguardo che sappia abbracciare la sofferenza, per raccontare ciò che può e deve essere raccontato e tralasciare il superfluo. Anche a costo di rimanere in silenzio.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

L’impressione è che, soprattutto negli ultimi tempi, le testate generaliste preferiscano altri temi (la politica, per esempio): argomenti di nicchia hanno spazi più limitati. Il discorso varia se si sfogliano giornali o riviste del settore, dove ovviamente anche la comunicazione sociale può avere lo spazio che merita.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Anche questo è un mito che andrebbe sfatato: siamo costantemente bombardati di notizie e oggi il concetto di “nuovo” è decisamente da circoscrivere – o perlomeno da ridefinire. Sono quindi convinto che sia possibile fare giornalismo anche con notizie già date, che vengano però approfondite a dovere: il giornale deve saper dare un “di più” al suo lettore rispetto alla notizia nuda e cruda. E allora sì al fact-checking, all’approfondimento, al data journalism.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Anche qui dipende dalle testate. Molte sono ancora servizi pubblici – anche se, alle volte, è comunque percepibile una certa “essenza commerciale”, perlomeno in alcune pagine. Altre, invece, sono decisamente più capziose e tendenziose e faticherei a definirle “servizio pubblico” – a meno che, ovviamente, non si parli di un pubblico ben specifico, anche a livello politico.

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

Non solo è possibile ma è anzi doveroso: l’allarmismo va a braccetto con il clickbait. Ciò che crea allarme o scalpore vende, anche a costo della qualità e della correttezza dell’informazione. Soprattutto durante la prima fase della pandemia c’è stato un certo allarmismo anche da parte dei giornalisti (non tanto nei contenuti in sé, quanto nel modo di raccontare i fatti). Questo può contribuire ad allontanare numerosi lettori e lettrici, che sentono per l’ennesima volta i giornali gridare “al lupo”. Una cattiva comunicazione può avere l’effetto contrario a quello voluto, creando disinteresse o paura anziché consapevolezza sul tema.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Grazie a una duplice occasione: una email inviata alla segreteria del Master di Giornalismo di Bologna e il suggerimento di una dei nostri tutor giornalisti.

Intervista a Federica Nannetti

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Credo possano – anzi debbano – essere il contesto e la visione complessiva a fare la differenza: un premio giornalistico su un tema così specifico come questo è dunque un modo, assolutamente valido e importante, per contribuire a creare maggior sensibilizzazione nell’opinione pubblica, ma è allo stesso tempo importante accompagnarlo da un’attenzione costante e da uno spazio adeguato sulle testate. Indubbiamente un premio e i suoi eventi collaterali sono già tasselli importanti per parlarne, per avviare un confronto e un dibattito, per infondere curiosità verso una realtà magari poco conosciuta, dunque per avviare o conservare un circolo virtuoso che si alimenta progressivamente.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ogni storia ha una sua particolarità e qualcosa per cui vale la pena ricordarla. Se fosse possibile sarebbe bello girare questa stessa domanda ai lettori: chissà quanto sono riuscite ad andare lontano alcune esperienze di vita?

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Ogni storia, ogni vicenda porta con sé il modo di raccontare del giornalista che l’ha raccolta: detto questo l’oggettività credo sia uno dei valori a cui tendere, pur senza pretese e senza presunzione.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Negli ultimi anni mi sembra di notare una maggior attenzione alla comunicazione sociale, soprattutto in termini di sua considerazione: se fino a qualche tempo fa questa veniva considerata quasi una tematica “isolata” e a sè, oggi mi pare ci sia una pervasività un po’ più trasversale e, dunque, una prospettiva diversa con cui leggere un po’ tutte le vicende.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Reputo importante soprattutto la varietà dei temi per dare ai lettori e agli spettatori gli strumenti per crearsi una propria visione del mondo. Sul senso del “nuovo” delle notizie si potrebbe discutere a lungo, poiché anche una stessa notizia potrebbe essere analizzata nel tempo da prospettive diverse e risultare così sempre nuova.

La tempestività è poi un valore importante del giornalismo, a patto che questa non vada a discapito della qualità.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Sebbene una riflessione sull’economia che sta dietro e dà forma ai media sia imprescindibile, credo che il giornalismo in quanto tale sia un servizio pubblico.

7.Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Anni fa, grazie al Master in Giornalismo dell’Università di Bologna: la prima partecipazione al premio nel 2020.

Intervista a Lara Martino

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Qualsiasi iniziativa serve a creare dibattito, a diffondere consapevolezza. Un premio organizzato per i giornalisti, nel ricordo di una giornalista che con la sua vita ha normalizzato la disabilità pur nella sua straordinarietà, è di sicuro uno stimolo prezioso a raccontare vite e storie come la sua con rispetto e sensibilità.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia di Genny, ragazzo con autismo di Napoli e di suo nonno Antonio che dopo una vita difficile, anche a contatto con la criminalità, dedica tutto se stesso al nipote e al suo quotidiano impegno per imparare a usare le parole.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Secondo me no, ma non in senso negativo: per raccontare la sofferenza di qualcuno bisogna comprenderla e in qualche modo sentirla sulla propria pelle.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Purtroppo lo spazio che trova la comunicazione sociale sulle testate è poco: si preferisce un genere di comunicazione più frivolo o, dal lato opposto, violento e sensazionalistico.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Non è necessario. Una stessa notizia può essere raccontata nelle sue mille sfaccettature. Non bisogna però rinunciare a cercare sempre più storie da raccontare per non lasciare nessuno nell’ombra.  

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Spesso sono prodotti commerciali, complice la crisi dell’editoria e del giornalismo in generale che costringe gli operatori dell’informazione a piegarsi a volte a dinamiche commerciali. Per fortuna, però, non sempre questo avviene.

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

Secondo me sì: se si tratta di tematiche sensibili, vanno affrontate con sensibilità, senza cercare di esagerare il racconto. Alla fine, se una storia o una notizia sono forti esprimeranno la loro forza di per sé, senza bisogno che ci sia qualcuno che le carichi di significati ulteriori e fuori luogo.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Dal mio caporedattore e da un collega che aveva partecipato in precedenza al premio.

Intervista a Davide Giuliani e Giulia Paltrinieri

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

A nostro parere, per sensibilizzare realmente l’opinione pubblica, non può essere sufficiente il solo premio giornalistico. Questo perché, per natura stessa del bando di questo concorso così come di quelli di altri premi, per favorire la partecipazione il tema è ampio e non così specifico. Per rendere più efficiente la sensibilizzazione servirebbe, accanto al premio, magari in occasione della consegna così come in altri appuntamenti durante l’anno, organizzare eventi che trattino la tematica – nelle sue molteplici sfaccettature – in maniera più puntuale. Realizzando una serie di incontri che permettano di toccare i diversi aspetti della comunicazione sociale, magari coinvolgendo dei testimonial “famosi” e coinvolgendo sicuramente i candidati al premio e i vincitori delle precedenti edizioni.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

È difficile scegliere una storia tra le tante. Ancor più considerando di dover unire le nostre diverse esperienze. Questo perché ogni incontro, ogni persona con cui entriamo in contatto facendo il nostro lavoro, lascia a suo modo qualcosa, chi più chi meno. Pensiamo di poter dire però, avendo avuto la fortuna di confrontarci anche con interlocutori “famosi”, che le storie che più lasciano il segno sono quelle di persone comuni, cui magari i grandi temi dell’informazione non lasciano abitualmente troppo spazio. Ma che possono davvero lasciare, in noi come in chi vede il nostro lavoro, un segno importante.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Crediamo sia fondamentale questo aspetto. Sia per una questione di professionalità sia per una questione di dignità delle persone intervistate o incontrate nello svolgere il nostro lavoro. La dignità di un uomo o di una donna va ben al di là della situazione pur difficile che può attraversare; cadere nel pietismo è un rischio che si deve evitare prima per i protagonisti delle storie e poi per l’oggettività della narrazione.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

È un tema che trova spazio soprattutto in concomitanza alla realizzazione di eventi, più o meno grandi. Da qui anche il suggerimento che ci siamo sentiti di dare alla domanda numero 1. Per fare un esempio concreto, una delle iniziative che trova maggiormente spazio ogni anno è la Colletta Alimentare organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare. Il raccontare un evento semplice come il “fare la spesa per chi è in difficoltà” ha fatto sì che, anno dopo anno, l’evento coinvolgesse sempre più persone, fino ad arrivare a vip, sportivi di primo piano e alle più alte cariche istituzionali. E, così facendo, ha conquistato sempre più spazio da un punto di vista comunicativo sia a livello di testate cartacee sia per quanto riguarda la televisione e gli altri mezzi di comunicazione.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Sicuramente negli ultimi anni c’è stata la rincorsa a notizie sempre nuove, quasi a determinare una sorta di “ingordigia da scoop”. Un fattore che per tanti aspetti ha portato al venir meno di qualità nell’informazione. Non dovrebbe essere così fondamentale raccontare notizie sempre nuove, quanto approfondire e meglio spiegare quelle davvero importanti. Solo così il giornalismo può davvero rispondere alla sua vocazione di servizio pubblico.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Purtroppo, come anticipato nella domanda precedente, negli ultimi anni si è sempre più andati verso la caratterizzazione delle testate come di prodotti commerciali. Anche per le necessità di mercato che sono diventate sempre più stringenti. Una rotta che servirebbe invertire per riportare il mondo della comunicazione nell’alveo del servizio pubblico. Esistono casi “positivi”, generalizzare è ovviamente sbagliato, ma crediamo che questa tendenza sia innegabile.

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

Crediamo sia necessario. Per le stesse motivazioni date alla domanda numero 3. Informare su tematiche sensibili senza creare allarmismi è un compito fondamentale, per tenere fede alla natura di servizio pubblico che il giornalismo dovrebbe avere e per rispetto delle persone le cui vite sono da queste tematiche toccate nelle più diverse modalità.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Siamo venuti a conoscenza del Premio tramite i siti internet della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e dell’Ordine nazionale dei giornalisti.

Intervista a Giulia Cristina Ghirardi

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Una volta una persona mi ha detto che il cambiamento è un mare. E che tutti noi, le cose facciamo, i gesti, i pensieri che coltiviamo non siamo altre che tante piccole gocce in questo grande mare.

Ecco io credo che non esista un’unica via, un’unica maniera in grado di sensibilizzare l’intera opinione pubblica. Esistono tanti pubblici, tante personalità, tante persone differenti. Così come esistono tante modalità che possono contribuire a diffondere un messaggio, un’idea, un cambiamento. Così sarebbe utopico pensare e credere che un Premio Giornalistico possa carezzare la sensibilità di ciascuno ma si può verosimilmente credere che abbia per lo meno la forza di imprimersi nella memoria di qualcuno acquisendo così la forza di contaminarne le azioni future.

Questo premio è un goccia, magari non sufficiente a cambiare le cose, ma estremamente necessaria a sensibilizzarle.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Mi è capitato di piangere facendo un’intervista. Una volta, non mi era mai successo prima di allora. Era il 5 marzo 2023. Parlavo con una ragazza di nome Hansini, una di quelle voci che non sono che dolore e passione allo stesso tempo. Lei è una delle fondatrici di un’associazione che si occupa del fenomeno della povertà di strada. Io allora stavo lavorando ad un servizio relativo al tema dell’homelessness nella città di Milano.

Lei raccontava della sofferenza, delle difficoltà che esistono intrinsecamente collegate a questa tematica. Mi ha parlato di tanti nomi che riempiono le strade di Milano e di come queste rimangano tragicamente prive di vita. Abbiamo parlato di come Milano sia scintillante, la città della fortuna, la città del progresso, di come sia in grado di sedurre e di come paradossalmente allo stesso tempo lasci tragicamente morire di solitudine molte delle persone che ne percorrono le strade.

E nei suoi racconti, nell’impossibilità forzata di trovarsi parte di un sistema non sempre giusto, nel sacrificio, nella dedizione delle persone nelle sue parole mi è sembrato di scorgere un po’ il senso dell’umanità: tragica e bellissima.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Un sociologo statunitense di nome Blumer ha scritto che i problemi sociali esistono soltanto quando vengono definiti come tali all’interno di una determinata società, che essi non esistono in quanto realtà oggettive poiché impattano persone diverse in maniere differenti.

Blumer queste cose le scrive negli anni ‘70 eppure credo siano ancora perfettamente applicabile alla vastità dei problemi sociali di cui il mondo è infetto oggi. Non credo che sia possibile parlare della sofferenza in maniera totalmente oggettiva. Siamo umani e in quanto tali, seppur in maniera differente, sentiamo, entriamo in relazione con le emozioni e i sentimenti che ci circondano. E credo che questa umanità sia da conservare e da usare per parlare delle tematiche sociali e tanto più della sofferenza. Credo che il punto sia piuttosto un altro: non lasciarsi andare a questo sentire, a questo soffrire ed empatizzare nel momento in cui si parla della sofferenza per non cadere in una sua strumentalizzazione o teatralizzazione. Non utilizzare la sofferenza per suscitare pathos forzato nel lettore, non utilizzarla insomma con finalità diverse da quella di advocacy di un problema in un’ottica di denuncia e sensibilizzazione. E per farlo è necessario andare in profondità, parlare della sofferenza attraverso chi veramente la esperisce e la vive sulla propria pelle e parlare attraverso le loro parole, guardare negli occhi il lettore attraverso i loro di occhi e smetterla di parlare secondo il nostro punto di vista, di parlare attraverso le nostre attorie ma iniziare a farlo attraverso le loro.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Difficilmente la comunicazione sociale trova oggi spazio nelle agende setting dei media contemporanei, relegata per lo più (e al massimo) nelle ultime pagine di un quotidiano o tra le ultime notizie di un telegiornale. Il fatto è che se si considerano le quattro grandi arene pubbliche (discorso giornalistico, discorso politico, mondo delle fondazioni e non profit e quello di internet e dei social media) la comunicazione sociale fatica a trovare spazio e tempo sopraffatta il più delle volte dalla competizione retta dalla politica, dell’economia o dallo sport.

Questo perché la comunicazione sociale è faticosa, richiede sforzo, è dolorosa e a nessuno piace prestare attenzione alla sofferenza dopo una lunga giornata di lavoro.

E al contempo manca chi questo mondo sappia raccontarlo. Manca chi sappia comunicare l’urgenza delle tematica, svestendola dalla fatica e sottraendo il lettore a questo sforzo cognitivo, in maniera moderna e innovativa. Perché credo che soltanto con una rivoluzione paradigmatica la comunicazione sociale potrà tentare di conquistare maggior spazio nel dibattito pubblico e così di sprigionare la sua forza di creare cambiamento.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Ritengo fondamentale seguire e narrare l’attualità e gli eventi più recenti della storia contemporanea perché non si può ignorare il cambiamento costante nel quale siamo immersi. Al contempo credo però imprescindibile che lo sguardo si volga necessariamente anche verso il passato. Perché, ricordando il detto Historia magistra vitae, soltanto ascoltando e guardando al passato si può pensare di poter costruire un futuro migliore. E questo diventa tanto più importante quando si parla di problematiche di tipo sociale. 

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Viviamo in un mondo comunicativo ibridato ed in costante evoluzione. E in un tale scenario inevitabilmente anche i mass media sono mutati e da prodotti di servizio pubblico sono diventati sempre più prodotti commerciali asserviti all’inevitabile confronto con il gusto e il desiderio del pubblico. È impensabile infatti oggi pensare di poter prescindere l’opinione dell’audience. Per questo quello che era pura informazione è diventata oggi, nella maggior parte dei casi, un prodotto di infotainment. Con questo non voglio dire che non esistano prodotti comunicativi di servizio pubblico quanto piuttosto sottolineare la difficoltà di riconoscere quali tra tutti continuino ad esserlo. La difficoltà oggi è comprendere i cambiamenti sostanziali che sono in atto e cercare di trovare un equilibrio che rispetti questi cambiamenti pur mantenendo quell’integrità sostanziale e connatura che dovrebbe appartenere alla professione giornalistica nel fare informazione, nello svolgimento del proprio pubblico servizio.

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

Credo che sia assolutamente possibile fare informazione senza necessariamente creare allarmismo. Questo però sta a chi l’informazione la produce più che all’informazione stessa. Ogni notizia può essere narrata e per ognuna di esse esiste un equilibrio con cui farlo. Sta all’abilità e al buon senso di ogni comunicatore cercare quell’equilibrio e seguirlo nel rispetto della notizia quanto, al contempo, nel rispetto del proprio pubblico per offrire un’informazione quanto più giusta e veritiera possibile.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Attraverso alcuni miei colleghi di lavoro

Intervista a Giuseppe Facchini

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Assolutamente si. Ogni occasione è utile per farlo.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

A dire il vero ce ne sarebbero tanti. Forse su tutte direi le storie dei malati di Huntigton e i loro parenti, alle prese con una quotidianità in alcuni casi per nulla semplice, a causa di una patologia rara e ancora senza una cura.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

È possibile, ma non è sempre facile.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Col passare del tempo, sempre di più.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

È fondamentale.  

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Per ovvie ragioni, diventano sempre di più prodotti commerciali.

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

La storia recente ci ha mostrato altro, è vero, ma penso sia assolutamente possibile. Il modo in cui si comunica fa la differenza.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

In rete. Ho partecipato anche ad alcune edizioni precedenti

Intervista a Chiara Esposito

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Certamente. Nel flusso continuo di notizie in cui ci imbattiamo ogni giorno spesso un tema, anche se valido e meritevole di attenzione, può finire col confondersi nel turbine mediatico. Attraverso un Premio – e la sua promozione -, invece, si può dare risalto a quei prodotti editoriali che mirano a sensibilizzare su argomenti così specifici.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Potrà sembrare banale, o scontato, ma la storia che più mi ha segnato è proprio quella di Simone, il bambino protagonista dell’inchiesta che ho presentato per il premio Bisceglia. Ciò che più mi ha colpito è la straordinaria forza di sua madre, Manuela, e la capacità di tutta la sua famiglia di trovare la bellezza anche nelle difficoltà. La capacità, anche, di superare lo sconforto per la malattia di Simone,riuscendo ad apprezzare con purezza la felicità per il solo dono della vita ricevuta.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

La sofferenza fa parte della vasta e profonda gamma di emozioni della vita umana. Come tale,essa ha un valore in sé che non va esasperato nell’essere raccontato. L’oggettività, anzi, è il presupposto imprescindibile per restituire la verità di ciò che si vuole trasmettere. Ciò non significa dover adottare uno stile asettico o freddo, ma nemmeno scadere nel sensazionalismo del dolore.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Sì, ma in maniera ridotta e rilegata solo in alcune sezioni specifiche, magari alla fine dello sfoglio. Difficilmente in prima pagina troveremo una storia incentrata su temi sociali, a meno che questi non riguardino personaggi noti.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Teoricamente il principio del giornalismo è questo. Aggiornare, dare contezza di ciò che di nuovo accade nel mondo. Ciò non esclude, però,che possa esserci spazio anche per una storia già passata ma non conosciuta. Talvolta non c’è niente di più nuovo che riscoprire una vecchia notizia.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Prodotti commerciali. Ogni testata risponde a criteri di marketing, ha target specifici a cui si rivolge, vive in ragione di meccanismi economici che spesso influenzano anche la scelta delle notizie a cui si dà rilievo. Una testata seria, però, non dimentica qual è la sua missione, al di là dei fini commerciali: fare informazione.

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

Assolutamente sì, basta appunto non scadere in titoli sensazionalisti fatti apposta per girare sui social generando interazioni. Un giornalismo serio può fare informazione su tutto senza allarmismi.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite la scuola di giornalismo della Lumsa.

Intervista a Maria Carmela Drago

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Si, un Premio Giornalistico può di certo porre l’attenzione su un tema specifico, in questo caso la promozione di tematiche che riguardano tutti noi, favorire la conoscenza, la solidarietà e la sensibilità verso le tematiche sociali.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ho avuto la fortuna di entrare in contatto con tante persone e ascoltare tante storie di vita vera, come amo definirle, di dolore ma anche di chi è riuscito a convertire il proprio dolore in speranza, in aiuto verso gli altri. La storia che mi ha segnata decisamente di più è sicuramente quella che voglio far conoscere attraverso questo Premio, è la storia di Daniele che non si è mai arreso di fronte alla sua malattia che lo ha costretto su una sedia a rotelle, di fronte a tutte quelle barriere mentali e architettoniche lungo la strada del suo cammino. Ma potrei anche raccontare la storia di Roberta Macrì, giovane in carrozzina di Barcellona Pozzo di Gotto, nel messinese, insignita proprio quest’anno, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica. Il suo impegno sociale quotidiano, a seguito di un incidente che l’ha resa paraplegica, la sua forza, il coraggio sono da stimolo e vero esempio per tanti che soffrono ma che non smettono mai di pensare che la vita è vita e che va vissuta intensamente ogni attimo.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Credo che il tema centrale del nostro lavoro sia raccontare con oggettività la sofferenza. Una sofferenza che esiste, è reale, che è parte integrante della vita di ognuno di noi. Parlare, scrivere con oggettività è rendere pubblico, indirizzare alla consapevolezza, affinché si attuino le misure e i percorsi utili verso chi ha bisogno.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

La Comunicazione sociale trova spazio ma potrebbe trovarne ancora di più. Attraverso la Comunicazione Sociale entriamo in contatto con mondi a volte molto lontani dalla nostra realtà ma che ci aiutano a comprendere meglio il mondo in cui viviamo, la profondità della realtà con cui ogni giorno ci confrontiamo.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

È sicuramente molto stimolante raccontare notizie sempre nuove ma a mio avviso è importante seguire i casi e le storie per mantenere viva l’attenzione degli utenti e continuare a sensibilizzare l’opinione pubblica.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Credo che ci siano testate commerciali ma anche testate che si occupino di servizio pubblico.

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

È necessario fare informazione senza creare allarmismi. Riuscire ad affrontare temi difficili con la giusta sensibilità. Il compito del giornalista è un compito difficile ma è fondamentale per noi avere il giusto approccio verso chi si appresta a raccontare la propria storia e verso chi invece ascolterà quella storia.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Da quando ho iniziato a scrivere ho sempre avuto questa missione: raccontare storie di vita vera. Ho la fortuna di lavorare per un’emittente che ha fondato la propria linea editoriale sulla comunicazione sociale. Girando sul web ho conosciuto Alessandra Bisceglia e il premio, sono rimasta colpita dalla sua storia di forza, di coraggio. Una storia che mi rende in linea con il suo pensiero, con i suoi obiettivi, e a cui ispirarmi in questo progetto che nel mio piccolo vorrei portare avanti: far conoscere le storie di chi purtroppo vive la sofferenza ma che ogni giorno converte la propria sofferenza in aiuto concreto verso gli altri, in speranza.

Intervista a Marco Di Vincenzo

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Secondo me, un Premio Giornalistico può essere uno strumento molto efficace e potente per sensibilizzare l’opinione pubblica su temi come la Comunicazione  Sociale. Il giornalismo svolge un ruolo fondamentale nel modellare le opinioni del pubblico, e un Premio che riconosce e celebra il giornalismo di qualità sul tema della Comunicazione Sociale può contribuire ad aumentare la consapevolezza e la comprensione del pubblico su questi argomenti.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più? +

La storia che più mi ha segnato è quella che ho inviato al vostro concorso. Il racconto della vita di Francesca, un’adolescente nata senza arti che fa pole dance, è certamente un tema che può avere un grande impatto emotivo e sociale. Come giornalista, ho avuto l’opportunità di seguire la sua vicenda, mettendo in luce la sua determinazione e la sua forza di volontà. In molti casi, le persone con disabilità sono ancora oggetto di discriminazione e pregiudizio nella società, e questo rende ancora più importante raccontare storie di persone come Francesca che, nonostante le difficoltà, trovano il modo di realizzare i loro sogni e le loro passioni. Raccontare storie come questa è importante per diffondere un messaggio di inclusione e di accettazione delle differenze, e per sensibilizzare il pubblico sulle sfide che le persone con disabilità devono affrontare quotidianamente. Inoltre, attraverso queste storie, si può anche incentivare un dibattito più ampio sulla disabilità e sulla diversità, e favorire un cambiamento culturale più positivo e inclusivo

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Secondo me, il giornalismo ha il compito di informare e raccontare la realtà in modo imparziale e oggettivo: questo non esclude il racconto la sofferenza. Si può e si deve fare, prestando attenzione a non manipolare o distorcere i fatti e senza cadere nella retorica, nel sensazionalismo o nell’emotività esagerata.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Per me, la Comunicazione Sociale oggi dovrebbe trovare ancora più spazio sulle testate, specialmente in Italia. In un periodo come questo, dove i giornali e le tv sono inondati dalle notizie (non sempre positive) in tempo reale, talvolta sarebbe bene ridurre la velocità, fermarsi e riflettere, raccontando anche il lato buono delle cose. Bisognerebbe lasciare più spazio e tempo a quello che viene chiamato constructive journalism. Come detto, non bisogna parlare solo di fatti negativi, ma anche raccontare come le persone, le Istituzioni e le comunità agiscono per dare risposta ai problemi sociali. Bisogna raccontare di più il buono e il bello che c’è.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Non necessariamente. Negli ultimi tempi siamo sempre stati più abituati a un approccio da breaking news, dove bisogna rincorrere a tutti i costi la notizia dell’ultima ora. Penso sia bene, talvolta, rallentare e trovare le storie – non per forza nuove – da approfondire e raccontare. Fermarci e riflettere può contribuire a renderci persone migliori.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Le testate stanno sempre più assomigliando a dei meri prodotti commerciali, mettendo il business e il profitto al primo posto, dimenticando spesso il ruolo primario dell’informazione di qualità. Credo che sia un effetto della crisi dell’editoria – soprattutto della carta stampata – e ai problemi legati all’economia del periodo storico che stiamo vivendo. Questo non significa, però, che non esistano giornali o tv indirizzati alla funzione di servizio pubblico.

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

Certamente. E per farlo, il giornalista – o l’operatore dell’informazione – deve prestare particolare attenzione alla scelta delle espressioni e delle parole nella sua narrazione  e restituire equilibrio nella presentazione del racconto. Un’informazione su tematiche sensibili, senza creare allarmismi, è fondamentale.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Sono venuto a conoscenza del Premio Bisceglia tramite il web, attraverso il sito del Federazione Nazionale della Stampa Italiana.

Intervista a Martina Dei Cas

  1. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema così specifico?

Sì. Anzi, penso che un Premio Giornalistico di questo tipo svolga una doppia attività di sensibilizzazione. Da un lato, informando l’opinione pubblica su temi spesso sconosciuti, evitati o trattati ancora troppe volte con un’ottica pietista e approssimativa. Dall’altro, offrendo alle testate giornalistiche un prezioso momento di riflessione sul perché non ci sia un’attenzione costante al tema della malattia o della disabilità. Spesso, infatti, nelle redazioni di giornali anche importanti, ci si ripromette di dare il giusto spazio a questi argomenti, ma poi la routine quotidiana fa sì che questi articoli difficilmente finiscano in copertina o abbiano tanto spazio quanto altri, magari più curiosi e “notiziabili”, ma purtroppo anche più superficiali.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

La storia che mi ha segnato di più è quella che finora non ho mai avuto l’occasione o forse il coraggio di raccontare e cioè quella del mio papà, che dal 2000 convive con due focolai di tumore celebrale e che dopo un secondo intervento chirurgico nel 2013 ha visto la sua vita cambiare. Non può più lavorare, gli è rimasto un difetto del linguaggio ed è fragile come una carta velina. Mi piacerebbe, un giorno, trovare le parole giuste per descrivere quanto la vita della nostra famiglia sia cambiata in questi ultimi anni, documentare l’empatia che va persa nelle pieghe della burocrazia, ma anche la sua forza e il suo attaccamento alla vita, che è un grande esempio per tutti noi. Un altro caso che porto nel cuore è quello di un ragazzo con la sindrome dell’incisivo solitario, che da intervistato, quindi da spettatore in qualche modo passivo, è diventato intervistatore e ora ricopre un ruolo attivo come articolista del nostro bimestrale. Accompagnarlo nel percorso di redazione accessibile affinché tirasse fuori la sua voce e leggere, mese dopo mese, i suoi contributi è per me una grande gioia. Tra le altre storie che mi hanno fatta riflettere c’è quella di Michele Oberburger, un ragazzo con autismo non verbale che grazie alla dedizione del suo papà Roberto è diventato un campioncino di trial – disciplina in cui corre coi normodotati – e sta partecipando a un tirocinio professionalizzante come aiuto cuoco. E ancora la storia che vi ho proposto. Matteo Faresin, infatti, ha solo qualche anno più di me, e pensare come la sua vita sia cambiata drasticamente in pochi mesi e come – nonostante il suo corpo sia ormai immobile – la sua mente continui a partorire nuove idee creative non lascia certo indifferenti.

3. È possibile raccontare la sofferenza senza rinunciare all’oggettività?

Sì. È un esercizio che a volte riesce meglio di altre, ma è sempre l’obiettivo a cui tendere.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Sì. Anche se a volte, purtroppo, si tratta di uno spazio strumentale o strumentalizzato.

5. Secondo te bisogna raccontare notizie sempre nuove?

Sì e no. Se da un lato è importante raccontare nuove storie, infatti, dall’altro è fondamentale dare seguito a quelle di cui ci siamo già occupati. Non accendere, insomma, solo riflettori spot sui trend del momento, ma evitare che si spengano le luci sulle vicissitudini di chi, magari nell’ombra, sta combattendo piccole grandi battaglie che potrebbero migliorare la qualità della vita loro e di altri.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Dipende. Per vocazione, sono più vicina all’idea di una comunicazione istituzionale semplice, efficace, etica e ben fatta e mi piacerebbe pensare, in modo naïve, che il mondo dei media vada in questa direzione. Ma credo che, con riferimento alla domanda, non si tratti di demonizzare i prodotti commerciali o esaltare la responsabilità informativa delle testate nei confronti del pubblico generalista. Penso che queste due anime possano e debbano coesistere. L’importante è che la distinzione sia chiara per chi legge, vede o guarda il servizio. È un publiredazionale? Allora forse andrebbe dichiarato. O ancora…io giornalista ho un conflitto di interessi su questo specifico tema? Se sì, forse dovrei astenermi dallo scriverne…

7. È possibile fare informazione su tematiche sensibili senza creare allarmismi?

Sì. Gli allarmismi creano notiziabilità, morbo, clic …. E questo vende. Penso che il nostro sforzo come categoria professionale – e come persone prima di tutto – dovrebbe essere quello di non lasciarci trascinare da queste dinamiche, ma di scrivere sempre con responsabilità, verificando i fatti e presentandoli nel modo meno sensazionalistico possibile. Diversa cosa sono gli allarmi sociali. Penso infatti che una buona informazione dovrebbe farli scattare per contribuire attivamente a prevenirne o ridurne gli effetti negativi.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite il web.