Giornalismo come costruttore di pace – Paolo Ruffini

PAOLO RUFFINI – Prefetto del Dicastero vaticano per la Comunicazione

Il tema che mi è stato affidato è in che modo il giornalismo può costruire oppure, al contrario, non costruire, una cultura di pace, nel senso più ampio di questo termine. Se guardiamo anche soltanto il tema delle guerre, ci sono 400 guerre più o meno nel mondo, 378 erano nel 2018 e credo che già questo dato basti a dirci quanto possa essere importante un giornalismo costruttore di pace in un tempo che, al contrario, è sempre più tentato della radicalizzazione, che viene dalla semplificazione e dalla voglia di correre subito alla conclusione, senza avere la pazienza della comprensione. Come afferma Johan Galtung, sociologo e matematico norvegese, fondatore del Peace Research Institute, che per tanti anni ha contribuito ad una trasformazione non violenta dei conflitti: “Sembriamo come genere umano, come esseri umani, essere giunti al punto di essere noi stessi i nostri peggiori nemici, maggior causa di morte e di ferimento da violenza e guerra, eppure spesso ci riferiamo a noi stessi come intelligenti, in cerca di qualcosa di altrettanto intelligente”. Studiando i quotidiani norvegesi del 1960 per capire come essi davano le notizie Galtung arrivò a quattro conclusioni: che per finire sui media le notizie devono essere negative; devono evocare la guerra, la violenza; devono essere rivolte all’esterno; e deve esserci qualcuno a cui dare la colpa, colpa che, aspetto non meno importante, deve spesso riguardare altri, altri Paesi, Paesi importanti, personaggi importanti di Paesi importanti. Per cui, se un evento corrisponde a uno o a tutti di questi quattro elementi, allora è più facile che diventi notizia.

Sono passati sessant’anni da allora, e certo l’Italia non è la Norvegia, ma sicuramente c’è, c’era e c’è, nella teoria di Galtung un fondo di verità, che l’era dei social in qualche modo sta ingigantendo. È conveniente infatti spesso costruirsi un nemico, è grande tentazione quella di semplificare, è costante l’uso di un linguaggio guerresco sui media e sui social. Vivevamo allora e viviamo ancora un tempo che ricerca, anzi costruisce, incessantemente capri espiatori per ridurre tutto o quasi tutto a un dualismo feroce, amico/nemico, pollice-pro/pollice-verso. Questo è un tempo che costruisce identità fondate sulla negazione dell’altro e che le costruisce anche attraverso i media, un tempo che cerca di convincerci fraudolentemente che l’unica alternativa a disposizione sia quella fra la negazione di noi stessi e la negazione degli altri. Nella globalizzazione frammentata in cui siamo immersi sono allora anche, certo non solo, ma anche i mezzi di comunicazione, e sono le reti social il crogiolo dove prendono forma e si formano le nostre identità in divenire, dove si forma una cultura di pace o una cultura dello scontro.

Vorremmo tutti poter dare e poter avere risposte semplici e anche semplicistiche, vorremmo tutti sentirci rassicurati dal fatto che di risposta ce n’è una sola, che non ci sono alternative, che non c’è da scegliere, ma purtroppo non è così. Le occasioni come questa servono a risvegliare i significati di quello che siamo, di quello che facciamo. Prendiamo allora la cosiddetta guerra contro la pandemia: a mio avviso è proprio per l’incapacità anche dei media e soprattutto dei social media di seguire la via lunga e difficile della comprensione e per la voglia di cedere alla prima suggestione, alla soluzione che ci viene venduta a più buon mercato, che rischiamo di trasformare la guerra contro la pandemia in una guerra di tutti contro tutti. Per Johan Galtung tutto inizia proprio dell’educazione dei giornalisti – e oggi dovremmo dire anche di tutti quelli che fanno comunicazione anche sui social, anche se giornalisti non sono, quindi di tutti i comunicatori- l’educazione a un giornalismo di pace. Scriveva: “Può essere diviso in due: giornalismo di pace negativo, che cerca di trovare soluzioni a conflitti al fine di ridurre la violenza; e giornalismo di pace positivo, che vuole esplorare la possibilità di una maggiore cooperazione positiva. In altre parole, il primo si concentra su un aspetto negativo e il secondo su quello positivo. Detto così si potrebbe pensare che ci sia una formula, un algoritmo, per il giornalismo costruttore di pace, ma anche in questo caso la realtà è più complessa, non c’è una regola, non c’è una formula, però può esserci un metodo, può chiamarsi giornalismo dialogico, giornalismo costruttivo, giornalismo della pace.

Ci sono tante iniziative di questo tipo, anche papa Francesco ne ha parlato in uno dei suoi messaggi per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: “La verità ci farà liberi, fake news e giornalismo di pace”. In ogni caso si tratta di un giornalismo fondato sul dovere del distacco, del dubbio, della critica, della verifica, sulla differenza fra il prendere parte e il partito preso, un giornalismo nutrito di un uso responsabile delle parole (anche questo è stato detto molto meglio di come dirò io). Che uso facciamo delle parole nel racconto di quel che siamo, di quel che facciamo, di come viviamo, nella costruzione cioè della nostra storia, che uso ne facciamo? Non è che ci succede che inseguendo un uso sbagliato delle parole, la storia stessa ci scappi di mano, diventi sguaiata, diventi violenta, si scriva quasi da sola? Le parole sono alla base della nostra comunicazione, per questo è bene che siano quelle e quelle giuste sono quelle che aiutano a capire.

Quanti titoli di giornale o quanti tweet evocano linguaggi di guerra, linguaggi di odio, per semplificare e accorrere a soluzioni che non sono quelle vere. Si, dunque, è vero, tocca anche ai mezzi di comunicazione ricostruire l’unità della famiglia umana, tocca anche ai mezzi di comunicazione e occorre una grandissima cautela di fronte al rischio di alimentare una narrazione fondata sul meccanismo amico-nemico che finisce per far sparire ogni forma di minimo comun denominatore, ogni forma di dialogo. Occorre comprendere che solo le false notizie, le false interpretazioni della realtà, le parole usate come pietre o come alimento per i tanti pregiudizi, gli incubatori di quel fanatismo che annienta ogni libertà. Un giornalismo costruttore di pace può contribuire a eliminare la falsa necessità della polemica, a sottrarre l’identità dall’obbligo di avere un nemico, può contribuire a svelare quanto sia falso il dilemma della scelta fra negare se stessi e negare gli altri, può custodire e tramandare i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fraternità umana, può educare al coraggio necessario per accettare l’alterità.

Una seconda riflessione che si può fare riguardo al giornalismo costruttore di pace riguarda la selezione delle notizie. Si potrebbe obiettare: allora il giornalismo di pace deve evitare il racconto della guerra, deve evitare il racconto del male? È chiaro che la risposta non può essere questa, non ha senso girarsi dall’altra parte. Il vero problema non è se raccontare, ma come raccontare. Non si può raccontare un mondo angelicato, non saremmo credibili, non si può pensare in nome del giornalismo di pace di non raccontare le guerre, di non raccontare le storie non buone. Il problema è il come, però, non il se. Le storie non buone sono le storie raccontate male, sono le storie che non cercano la verità, ma la manipolano, sono le storie che non svelano la menzogna, ma la usano.

Quando ero un giovanissimo giornalista, un vecchio collega insegnandomi come si facevano i titoli, mi disse che dovevo abituarmi a non scartare mai un titolo accattivante per essere fedele alla verità dei fatti. Un po’ scherzava, un po’ no, e in ogni caso non mi ha mai convinto. Non mi ci sono mai abituato né da giornalista, né da fruitore dei media. Ho sempre pensato che i titoli accattivanti sono titoli falsi, sono titoli cattivi, appunto accattivanti, ci portano fuori strada. Penso sia questo quello che ci dice, per esempio, il Papa nel suo ultimo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, dedicato proprio al tema del racconto: “Le storie non buone non sono quelle che indagano il male per combatterlo, sono quelle che tessono di male il racconto stesso e così facendo logorano e spezzano i fili fragili della convivenza”. Come scrive Italo Calvino nelle “Città invisibili”: “Inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno, è quel che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme, ma due modi ci sono per non soffrirne: il primo riesce facile a molti, accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più; il secondo è rischioso, esige attenzione e apprendimento continui, cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno, inferno non è, e farlo durare e dagli spazio”. Ecco, in questo dargli spazio, in questo non diventare parte dell’inferno, è il ruolo del giornalismo di pace, io direi è il ruolo del giornalismo, ed è il ruolo dei giornalisti, dei giornalisti professionisti in particolare.

Un’altra riflessione che vorrei fare riguarda il rapporto fra pace e sicurezza, a proposito delle guerre, della pace e del costruir la pace.  Qui prendo in prestito le parole di Dietrich Bonhoeffer, per provare a capovolgere un sillogismo troppo facile, secondo il quale la pace dipende dalla sicurezza. Davvero è così? Non proprio, non sempre almeno. La pace si coniuga con la giustizia oltre che con la sicurezza, che non sempre è giusta, e certo non lo è quando riduce l’altro, a prescindere, a un nemico da cui difendersi. Cito dunque Bonhoeffer “Come si crea la pace? Con un sistema di trattati politici, mediante il denaro o addirittura mediante un riarmo pacifico generale con lo scopo di assicurare la pace? No, attraverso nessuna di queste cose e questo per un unico motivo, perché si confondono sempre pace e sicurezza, ma la pace va osata, mai e poi mai può essere assicurata, la pace è il contrario della sicurezza. Esigere sicurezza significa essere diffidenti e a sua volta la diffidenza genera la guerra”. Ecco, un altro elemento di riflessione a proposito del modo in cui intendiamo la comunicazione, riguarda l’obbligo per ogni buon giornalista di non vedere le cose da un unico punto di vista, l’obbligo di porsi dubbi, in questo caso di distinguere tra la sicurezza giusta e quella ingiusta.

La quarta riflessione che voglio condividere riguarda la rete, nel tempo della interconnessione dei social, del passaggio della società della comunicazione alla società della conversazione, dobbiamo stare attenti a non trasformare la rete in quel che essa per sua natura non è, non necessariamente almeno, un luogo dove più ci si addentra più si perde la propria unicità e la propria identità personale e anche l’orientamento, la capacità di distinguere fra vero e falso, coerente e incoerente, rimanendo intrappolati in un gioco in cui finisce ogni relazione vera. Le reti sociali sono diventate giornalismo sociale, dove appunto si fondano anche le nostre identità, le nostre conoscenze, le nostre memorie, le nostre scelte; da un lato ci permettono di essere in ogni luogo e in ogni tempo, e dall’altro il modo in cui ci avvolgono, virtuale, disincarnato, rischia di ridurre tutto ad un dualismo feroce, a quel dualismo amico-nemico che appunto non costruisce un giornalismo di pace, ma costruisce un giornalismo di rancori, una identità fondata sulla negazione dell’altro. Da un lato distruggono ogni alibi, dall’altro costruiscono alibi perfetti e spacciano opinioni per verità, inseguendo fantasmi che costruiscono in maniera instancabile. Da un lato riscattano le periferie dalla loro marginalità, nella rete non c’è centro e non c’è periferia, e ogni nodo è il centro, dall’altro rischiano di distruggere il mondo reale per sostituirlo con un luogo dove lo spazio e il tempo sono annullati, dove la radicalizzazione violenta diventa una tentazione facile, strumento potente e terribile, capace di fornire una figura a chiunque, ma anche di produrre maggioranze feroci e minoranze fanatiche, capace di unire ma anche di scavare divisioni profonde, trasparente ma anche opaco, custode della verità ma anche della menzogna.

Dunque la sfida del giornalismo costruttore di pace è esattamente qui, nella capacità di essere misura, metro, parametro, di fronte a tutto questo, di recuperare capacità di visione e di condivisione. Ho detto che non ci sono formule matematiche, è una questione di metodo, e ci sono tutti gli errori da evitare, non bisognerebbe mai decontestualizzare, non bisognerebbe mai cadere nella tentazione di semplificare, non bisognerebbe mai accontentarsi del paradigma del capro espiatorio. Bisognerebbe non cedere mai alla dittatura dell’istantaneità, controllando il riflesso mediante la riflessione. Perdonatemi dunque se concludo questo mio breve intervento con le parole di Papa Francesco ai giornalisti, quando ha ricevuto i corrispondenti alla stampa estera, il 18 maggio dell’anno scorso: “Vi esorto, dunque, a operare secondo verità e giustizia affinché la comunicazione sia davvero strumento per costruire e non per distruggere, per incontrarsi e non per scontrarsi, per dialogare e non per monologare, per orientare non per disorientare, per capirsi e non per fraintendersi, per camminare in pace e non per seminare odio, per dare voce a chi non ha voce e non per fare da megafono a chi urla più forte”.

 

Fake news e gestione delle fonti: la posta in gioco non solo per l’informazione scientifica – Vincenzo Morgante

VINCENZO MORGANTE – Direttore TV2000

È davvero un privilegio e anche una gioia poter essere ancora una volta qui per un premio che in quest’anno particolare assume valore e significato notevoli. Ritrovarci nel nome di Alessandra a discutere su temi fondamentali per il nostro mestiere ma anche per la vita civile, per la convivenza democratica, lo considero importante. Sentiamo tutti il condizionamento che la pandemia, anche sul versante della informazione e del confronto, in qualche modo sta imponendo. Grazie alla tecnologia che in questo momento ci ha aiutato, una tecnologia virtuosa, siamo ancora una volta qui, a distanza di un anno, a celebrare l’impegno, la bellezza di Alessandra, ma anche il valore di una informazione corretta che faccia comunicazione sociale, e che faccia, anche da privati, del servizio pubblico.

Fino a qualche anno fa, quando si parlava di fake news – termine inglese di recente introduzione, noi le notizie false le chiamavamo “bufale” – la maggior parte del mondo dell’informazione, dei comunicatori, di noi, in qualche modo snobbava il problema. Si credeva che questo fenomeno fosse legato quasi esclusivamente ai social in una forma goliardica, tutto veniva ridotto in una dimensione scherzosa. Invece sappiamo, e lo stiamo provando quotidianamente, che con le fake news c’è poco da scherzare, i danni e i rischi sono davvero incalcolabili, soprattutto perché colpiscono soggetti in stato di povertà culturale, soggetti che non hanno strumenti adeguati per chiedersi e verificare se quella notizia sia vera o meno. Recenti ricerche su questo fenomeno dicono che il problema ormai ha assunto dimensioni globali, senza confini. Colpisce che molte fake news prendano le mosse da informazioni vere, autentiche, che poi vengono distorte, manipolate, veicolate, per scopi che nulla hanno a che fare con l’informazione.

Alcune risultanze cliniche dicono – è avvenuto durante la prima ondata della pandemia – che i bambini vengono meno contagiati rispetto agli adulti e con sintomi meno gravi? Questo non significa che nessun bambino sarà contagiato. Ma scrivere e dire, come invece è avvenuto, che i bambini non rischiano di essere contagiati cambia completamente il senso della realtà.

Come giornalisti siamo tutti chiamati, ancora una volta, a fare un’autocritica, dura e pesante. Siamo tutti chiamati a porci delle domande. Come mai le fake news, le bufale, le polpette avvelenate, si diffondono e in modo così rapido? E qual è il ruolo dei media di fronte alle fake news? Come ci possiamo difendere, come comunicatori ma anche come utenti dell’informazione, dalle notizie false? Il terreno è paludoso perché entra in campo il tema della verosimiglianza. Le notizie false sono così ben costruite, camuffate che è facile caderci dentro.

Le fake news, le bufale, sono diventate un problema serio, un problema reale, perché incidono pesantemente sull’opinione pubblica quindi sulle scelte concrete che i cittadini devono fare nella loro vita di comunità, nella loro vita sociale, ma anche nella loro vita privata e anche nella espressione della partecipazione democratica. Lo ricordiamo tutti: durante la campagna elettorale che portò all’elezione del presidente degli Usa Trump molto si discusse, politicamente, sulla capacità dei social di influenzare milioni di persone. Certo, prendersela con un solo social, seppure tra i più influenti, sarebbe riduttivo, direi anche di moda… Ma fu un problema che si pose.

Le fake news spesso hanno un padre e una madre, non nascono per caso e riguardano un po’ tutti: social, giornali, cittadini, politica. Come ne usciamo? Certamente con un lavoro scrupoloso, con la competenza, con il controllo rigoroso delle fonti, con l’approfondimento, con lo studio. Dobbiamo ricordare a tutti – sappiamo che questo è anche un seminario di formazione – che essere giornalisti, esercitare il mestiere di giornalismo, comporta sacrificio, impegno, studio. Bisogna mettere da parte l’ansia di dare sempre tutto, e subito. Il fattore tempo non può essere una scusante. Non si può sorvolare sulle verifiche. Oggi, spesso, una notizia che viene messa in circuito da uno sconosciuto sui social diventa notizia per una testata che mette da parte la sua autorevolezza, mette a rischio la propria storia pur di “stare sulla notizia”, dico tra virgolette, pur di “essere sul pezzo”. Bene, un mio vecchio maestro ripeteva spesso a me e ai miei colleghi, quando eravamo giovani, “meglio prendere un buco che dare una notizia non verificata”. Oggi invece anche per le modalità diverse di diffusione del flusso informativo, è una rincorsa e nella rincorsa troppo spesso una notizia viene data senza verificare da dove arriva, “da dove viene viene”, come si dice.

Nella deregolamentazione dell’accesso alla professione, nella delocalizzazione, a volte esagerata, del lavoro giornalistico che riduce ai minimi termini il contatto, il confronto tra i giornalisti scriventi, gli inviati, per non parlare dei collaboratori, e i responsabili in redazione, trova sempre meno momenti e luoghi per realizzarsi ed essere proficuo.

La rete oggi ha una grande funzione, mette in contatto, fa circolare informazioni, permette lo scambio di opinioni e di immagini; però, nel suo lato oscuro, propala contenuti costruiti apposta per seminare disinformazione, per non parlare di quando semina contrasti e dissemina odio.

Oggi questo problema è conosciuto da tutti i professionisti della comunicazione e del web ma fino a non molti anni orsono esperti, addetti ai lavori, professionisti, comunicatori, sostenevano che il tema fake news non era un problema degno di particolare attenzione. Il problema vero, che deve tutti coinvolgerci e in qualche modo preoccuparci, non è certo lo studente che pubblica una notizia falsa online, a volte una bolla che poi si sgonfia. Il problema è che la disinformazione o l’informazione pilotata attraverso fake news rischia di diventare sistema. Ci sono, lo sappiamo, organizzazioni che hanno prodotto milioni di informazioni false, con vere e proprie legioni di programmatori e giornalisti che hanno fatto una falsa propaganda. Una volta messe in giro, le fake news sono difficili da fermare ed è impossibile bloccarne gli effetti perversi e dannosi. Secondo una ricerca di Mbc News, le fake news più diffuse dello scorso anno riguardano la salute e il cibo. Hanno spopolato suoi social a colpi di post e articoli acchiappa-click le seguenti notizie: una gang di medici cattivissimi nasconde all’unanimità la cura per il cancro; le bacche sono più efficaci dei vaccini; mangiare i noodles, gli spaghetti asiatici, può uccidere.

La ricerca ha evidenziato che quest’anno i primi 50 articoli hanno raccolto oltre 12 milioni di condivisioni, commenti e reazioni; circa un terzo erano articoli virali che promuovevano cure, mai provate, sui tumori. Tra le bufale sulla salute più virali del 2019, riporta sempre Mbc News, c’è la presunta cospirazione di medici e lobby che starebbero nascondendo una cura miracolosa contro il cancro, e altre notizie sempre riguardo al mondo dell’informazione medico-scientifica: un vaccino sperimentale per il tumore al seno, apparso un articolo su Florida Fox, è stato condiviso, pensate, da 1 milione e 800 mila utenti. Insomma c’è una speculazione sulle fake news in materia di salute, che trova sui social linfa vitale e consente di guadagnare con “bufale” che non hanno nessun fondamento scientifico. Per non parlare della pubblicità su integratori miracolosi. Si è speculato anche sulla popolarità della medicina naturale.  “Lo zenzero è 10.000 volte più efficace nell’uccidere il cancro rispetto alla chemio”, recitava il titolo di un articolo che avuto oltre 800 mila condivisioni. Notizie false e bufale riguardano ancora i vaccini, un’arma fondamentale per proteggerci da tante malattie, considerata sicura dalla comunità medico-scientifica, ma che molti gruppi anti-vax ben finanziati e senza informazione medica e esperienza hanno preso come bersaglio con una campagna di disinformazione: i vaccini sono accusati di procurare gravi danni, fino alla morte.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha lanciato l’allarme infodemia, cioè la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni che rendono davvero difficile orientarsi per la difficoltà di individuare fonti affidabili. Le fake news e la disinformazione, sostiene l’Oms, stanno infatti ostacolando in qualche modo la risposta alla pandemia e per questo viene proposto di usare le stesse armi che si usano contro il virus: prevenire, intercettare, rispondere. La disinformazione, aggiunge l’Oms, mette a rischio vita e salute, mina la fiducia nella scienza, nelle istituzioni e sta ostacolando, appunto, la risposta al Coronavirus. Per affrontare quello che l’Oms definisce “una sfida globale”, è stato lanciato anche un Sos a Google per assicurarsi che le persone che cercano informazioni sul Coronavirus vedano quelle veicolate dall’OMS in testa alle notizie ottenute con i motori di ricerca.

L’impatto della disinformazione sulla salute è ovviamente enorme. Può apparire scontato, ma desidero ripeterlo, ci vorrebbero più controlli su quello che viene postato sui social e nel web. Si dovrebbe trovare, lo dico a bassa voce, anche un vaccino per le fake news ma al momento gli strumenti più efficaci, ribadisco, sono il lavoro scrupoloso, la competenza, il controllo rigoroso delle fonti, l’approfondimento, lo studio. Direi che occorre un approccio “francescano”, segnato da una caratteristica, da un valore che dovrebbe accomunare tutti i professionisti, in questo caso i professionisti dell’informazione: quello della umiltà, l’umiltà di approccio al mestiere.

Una testata affidabile è una testata che fa comunicazione nel sociale, che fa servizio pubblico, è una testata che non perde lettori, telespettatori, ascoltatori o followers. Insomma una testata affidabile che deve camminare di pari passo con la responsabilità di ciascuno di noi, di quanti sono chiamati a vivere il privilegio di fare un mestiere veramente bello, prezioso, utile, ma che tratta materiale molto pericoloso, e quindi che chiede grande competenza, grande responsabilità.

Abilità e disabilità, tra vicinanza, libertà e diritti – Fabio Zavattaro

FABIO ZAVATTARO – Direttore scientifico del Master di Giornalismo della LUMSA Master School

Siamo giornalisti che vivono di parole; ho apprezzato molto Vincenzo Morgante che ha parlato di un “lavoro francescano”, cioè di quella umiltà che deve accompagnare il nostro mestiere. Umiltà che significa anche capacità di sapersi correggere quando pronunciamo frasi non utili, quando pronunciamo parole che possono colpire. Vero, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola è scritto nella nostra Costituzione: nell’articolo 21 abbiamo quella strada che è pronta per noi, ma che prevede degli ostacoli nella sua realizzazione perché non possiamo offendere, non possiamo dire cose false. L’Ordine è stato molto valido nel prevedere Carte che in qualche modo hanno cercato di regolare tutto, di regolare i temi, le attenzioni, di regolare soprattutto la capacità di raccontare senza offendere, senza colpire le persone. Quindi, giornali e giornalisti, abbiamo un compito molto molto molto, e lo ripeto tre volte, importante perché in un tempo in cui regnano le fake news abbiamo l’obbligo e il compito di fare chiarezza, di raccontare senza per questo stravolgere, senza modificare i concetti. Allora il tema di rivolgerci alle persone che vivono una difficoltà, che sono ferite nel corpo, in qualche modo ha bisogno di un’attenzione in più. Noi invece – ma lo facciamo “senza cattiveria”, passatemi questo termine- quante volte impropriamente usiamo la parola “handicappato”, quante volte ci rivolgiamo a una persona che magari ci ha tagliato la strada, che ci impedisce di andare avanti apostrofandola in questo modo? Perché in fondo siamo vittime di un abuso di certi termini. Dobbiamo invece riscoprire il senso della parola vera, riscoprire il concetto di raccontare con verità senza occultare le notizie. A me piace sempre ricordare -un po’ perchè la mia attività è stata legata all’attività dei Pontefici- un passaggio di Benedetto XVI che quando si è recato nel 2009 a Piazza di Spagna per la devozione alla statua della Madonna, disse: “Nella città vivono – o sopravvivono – persone invisibili, che ogni tanto balzano in prima pagina o sui teleschermi, e vengono sfruttate fino all’ultimo, finché la notizia e l’immagine attirano l’attenzione. E’ un meccanismo perverso, al quale purtroppo si stenta a resistere. La città prima nasconde e poi espone al pubblico. Senza pietà, o con una falsa pietà. C’è invece in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto”.

Noi giornalisti, spesso, quando affrontiamo questi temi cadiamo in questo meccanismo e non siamo capaci di renderci in grado di raccontare al meglio queste cose. Allora proviamo a riflettere un po’ su quello che si può e non si può dire. Non ci rendiamo conto che a volte feriamo le persone con le nostre parole, usiamo linguaggi che invece dovremmo preoccuparci di non utilizzare. E allora, proviamo a capire un po’ quali sono questi termini, secondo me, giusti da utilizzare nei nostri racconti. Ecco, direi che il termine “handicappato” sarebbe meglio non utilizzarlo perché in realtà questo significa subito spostare l’attenzione su un altro termine, “disabile”, come sostantivo che in qualche modo nasconde la persona, e il disabile già di per sé è un titolo, non è l’uomo che ha una disabilità.

Poi perché disabilità? È una persona che vive di una malattia, di una incapacità e disabilità-abilità, come vedete, sempre sono termini legati a una capacità di essere, una capacità di manifestarsi verso l’altro, eppure queste persone spesso hanno una abilità diversa, hanno una abilità maggiore rispetto a quella che le cosiddette “persone normali” a volte hanno, e questo secondo me è uno degli aspetti da tenere presente. Quindi attenzione anche alle parole che a volte vengono utilizzate, “anormale”, “anormalità”: bruttissimi termini.  La persona va considerata come tale, come persona, non è un qualcosa da offrire così, come diceva papa Benedetto, alle cronache per poi rimetterla subito nel dimenticatoio. Può capitare a tutti, non è difficile che magari una situazione si possa ripetere anche per le nostre persone; quindi innanzitutto il rispetto dell’altro. Grande attenzione anche alle immagini perché le immagini possono aiutare a far capire, ma possono anche offendere e colpire le persone.

Il nostro è un mestiere bellissimo, è un mestiere che ci permette di raccontare e di essere accanto alle persone. “Essere accanto alle persone” significa essere capaci di accompagnare ciò che noi vediamo senza creare cortocircuiti, senza ferire, senza far provare una pietà. La vecchia espressione è che la lacrima crea audience (parlo della televisione, ovviamente, ma non solo della televisione), è qualcosa che dobbiamo accantonare; cerchiamo di essere rispettosi della persona. Se noi possiamo raccontare senza ferire, se possiamo raccontare senza dover colpire nella capacità del singolo di essere accanto a noi, se noi riusciamo a ragionare in termini corretti utilizzando parole giuste, utilizzando termini che ci consentono di essere rispettosi e di rispettare anche la verità della comunicazione cominciamo un grande-grande-grande lavoro.

Dobbiamo avere una capacità più grande di essere persone che raccontano e che rispettano. Non si dicono mezze verità, ma si dicono verità e le verità hanno le parole giuste, hanno termini giusti, hanno quel modo di essere incisivi senza per questo ferire. Mi ricordo il mio primo direttore, di una piccola agenzia, che aveva un’abitudine molto bella: conservare dietro la sua sedia alcuni cestini in cui c’erano i nomi dei suoi collaboratori, dei suoi giornalisti. In quel cestino finivano gli articoli in cui avevamo male compreso cosa ci era stato chiesto, ma anche quelli in cui utilizzavamo termini che non andavano utilizzati. E quando sprecavamo le parole, quel direttore amava ricordarci alcune parole del Carducci: “l’uomo che per dire una cosa di cinque parole ne usa venti, lo ritengo capace di male azioni”.

Ecco, noi dovremmo essere capaci di raccontare in cinque parole, senza ferire, senza compromettere la notizia, ma soprattutto rispettando l’altro che ci è accanto e che ci accompagna in questo nostro breve pellegrinaggio su questa terra.

 

 

Emergenza Covid: banco di prova dell’informazione di qualità – Paola Spadari

PAOLA SPADARI – Presidente Ordine dei Giornalisti del Lazio

Il presidente Verna l’ha ricordato: siamo in presenza di un’emergenza che mette a dura prova anche l’informazione, siamo sulla lama di un rasoio. I

l Paese sta affrontando un’emergenza inedita, vissuta sulla propria pelle che richiederebbe il ricorso alle energie migliori a disposizione.

Oggi quindi anche noi che partecipiamo all’informazione combattiamo un virus, quello della mala informazione, che si alimenta delle parole spesso sbagliate, non corrette, ma soprattutto della contrapposizione, se non addirittura dell’odio, e che non ha nulla a che fare con il legittimo diritto di cronaca.

L’informazione deve comprendere appieno il contesto nel quale esercitare la propria funzione sociale.

Questo convegno è un’iniziativa lodevole, perché promuove la buona informazione e diffonde il buon giornalismo tra i giovani e questo, secondo il mio parere, il parere dell’Ordine, è una delle nostre principali funzioni.

Però oggi assistiamo alla rappresentazione di fatti e all’uso di parole che alimentano spesso divisioni, che fanno leva sulle paure, mentre saremmo chiamati a fare la nostra parte per rallentare la corsa del pendolo, sempre più orientata verso il facile ricorso all’aggressione verbale. E non ci vuole nulla a passare dall’aggressione verbale a qualcosa di più tangibile, più grave. Comodo e veloce volàno di questo pericoloso uso, se non abuso, sono i social dove spesso dilagano parole di odio, di insulto, facendone bersaglio soprattutto le fasce più deboli e particolarmente esposte, e puntando a esporre i cittadini a una tensione continua. La logica della polarizzazione dei conflitti, della contrapposizione continua e dei muri è qualcosa che non affligge soltanto chi fa informazione, noi addetti ai lavori. I semplici cittadini infatti hanno meno strumenti di noi per maneggiare questo materiale così delicato, e quindi non vengono messi in condizione di decifrare i codici di un dibattito diffuso, sempre più deteriorato e spesso rissoso.

La funzione del giornalismo è duplice.

Deve intanto consolidarsi nei giornalisti stessi che il rispetto delle regole cui siamo sottoposti nell’esercizio del nostro lavoro riguarda anche e soprattutto la nostra presenza sui social, che non devono costituire -come spesso ahimè accade- una zona franca.

Inoltre, i social, a mio avviso, dovrebbero essere più massicciamente utilizzati da chi, come noi giornalisti, quindi addetti ai lavori, ha maggiore padronanza dei mezzi espressivi per agire a contrasto proprio dei fenomeni degenerativi e aggressivi nei confronti di chi non la pensa allo stesso modo, di chi non ha gli stessi strumenti per difendersi.

I social dovrebbero farsi, al contrario, volàno di messaggi positivi contro l’alimentarsi delle paure, delle strumentali contrapposizioni. Ma questa funzione delicatissima spesso rischia di essere indebolita da attacchi alla stessa libertà di espressione, si tacitano coloro che si fanno portavoce di messaggi diversi e si ostacola il difficile lavoro di indagine che porta alla conoscenza dei cittadini fenomeni altrimenti oscuri e scomodi, rispondendo così quella che è la nostra missione principale, affidata ai giornalisti dalla stessa Costituzione.

Il nostro lavoro deve essere finalizzato anche a consolidare proprio nei cittadini la consapevolezza del bene comune, che è l’informazione, rappresentato soprattutto da chi svolge il nostro mestiere in modo professionale.

Ecco, in nome di questo principio e di questo valori molti colleghi hanno sacrificato la propria serenità esistenziale, il proprio diritto alla sicurezza. Voi sapete che ormai dilaga purtroppo (nel Lazio abbiamo uno dei primati) l’attacco ai giornalisti, le minacce sono diventate numericamente molto rilevanti. È un fenomeno che ha una rilevanza.

Credo però che oggi i cittadini abbiano una maggiore consapevolezza del valore di una informazione corretta e verificata nel difficile momento in cui viene messo a repentaglio il loro diritto alla salute, materia molto delicata. Si, è vero, dilagano sui social le fake news, dilagano informazioni fuorvianti rispetto a questo bene così importante che è il diritto alla salute però, proprio nel momento del lockdown, c’è stato un ricorso massiccio alle informazioni certificate primarie e credo che il lavoro a cui si faceva riferimento, di questa piattaforma messa in campo dai giovani, probabilmente usa degli algoritmi che cercano di enucleare il valore e fornire informazioni vere e certificate.

Saluti iniziali – Carlo Verna

CARLO VERNA – Presidente Ordine Nazionale dei Giornalisti

Io non ho avuto, come diceva la professoressa Pacelli, il dono e l’onore di conoscere Alessandra; l’ho conosciuta attraverso un libretto che mi è stato dato dalla madre, alla quale avevo fatto la promessa di partecipare alle manifestazioni del Premio Alessandra Bisceglia.

Come Ordine dei Giornalisti vogliamo rendere omaggio a figure che hanno lasciato un seme importante nella storia del giornalismo, ragion per cui era assolutamente indispensabile esserci.

Proprio oggi, nel giorno di questa premiazione, è venuto a mancare un grande giornalista Rai, Pino Scaccia, di cui voglio ricordare la professionalità e la qualità del suo lavoro.

Recentemente un padre, Fortunato Nicoletti, mi ha chiesto di scrivere la prefazione a un libro che si intitola “Nessuno è escluso” dedicato alla figlia, anche lei nata con una rara malformazione. Ho scritto in questa prefazione che noi giornalisti lavoriamo maneggiando parole, talvolta maldestramente le usiamo come pietre, tal altra ricorriamo a eufemismi. Credo che però in questo caso definire il disabile “diversamente abile” sia utile per collegare la vicenda narrata al titolo “Nessuno escluso”: c’è una vita, come ci ha insegnato Alessandra, che promette per tutti, anche per chi deve rimontare svantaggi, le cui ragioni capiremo forse solo quando l’esperienza terrena sarà terminata.

Perché qualcuno nasce diversamente abile e non abile tout court, perché è permessa una diseguaglianza fin dalla nascita?

Domande dello stesso tipo ce le poniamo di fronte a catastrofi, o scomparse premature di persone buone e giuste, la nostra mente non arriva alla risposta appropriata, ma ne può concepire altre, potremmo dire, diversamente utili.

Fatemi dire anche una cosa sul tema principale di questo convegno, che vale anche come formazione.

Sono orgoglioso di averla potuta autorizzare come Consiglio Nazionale anche in streaming. Il tema delle fake: io spesso dico “noi siamo i medici delle fake news”, cioè con la nostra capacità professionale, con il nostro riconoscerci all’interno di un quadro di regole, validiamo o non validiamo delle situazioni, ed è una funzione cruciale per la società. Si deve intervenire, noi stiamo cominciando ad elaborare una proposta per punire la diffusione delle fake: esistono ipotesi di reato, penso per esempio all’aggiotaggio.

Credo che sia venuto il momento di un’attenzione da parte del legislatore anche a nuove formule di sanzione rispetto a certi comportamenti che non vengono dal giornalismo professionale, ma che impattano fortemente in quest’era di tumultuoso cambiamento.

Per noi è cambiata una cosa fondamentale: prima i giornalisti professionisti avevano l’esclusiva, la prerogativa di poter parlare da uno a tanti. Adesso questa esclusiva non ce l’abbiamo più, ma essendo possibile per tutti comunicare, da un lato c’è più democrazia, dall’altro c’è un rischio, quindi occorrono delle risposte.

Noi giornalisti, e io ritengo che l’Ordine dei Giornalisti sia un’agenzia culturale, daremo il nostro contributo per poter far sì che si elabori una risposta concreta affinché l’opportunità della rete sia un’opportunità di crescita e non sia un rischio.

Saluti iniziali – Francesco Bonini

FRANCESCO BONINI – Rettore LUMSA

Ringrazio la professoressa Donatella Pacelli, la famiglia e tutti coloro che sono presenti. Anch’io avrei voluto essere all’Istituto Sturzo, che è veramente una sede giusta per questo dibattito e per questo premio: un saluto molto cordiale anche all’Istituto Sturzo e al professor Battaglia. Credo che il sorriso di Alessandra Bisceglia sia un po’ anche la cifra del messaggio di questa giornata e di questo impegno che la professoressa Pacelli ha illustrato con parole che sottoscrivo pienamente. È un momento di ricordo, è un momento di testimonianza, è un momento di impegno. Questo è, credo, lo spirito del premio giornalistico ed è anche, direi, lo spirito della comunicazione sociale: un aggettivo qualificativo e qualificante perché dice anche di una storia di impegno nella comunicazione, che è quello della nostra università, ed è quello di tanti nostri laureati, tra i quali Alessandra Bisceglia ha veramente un posto d’onore, per la sua capacità professionale e per tutte le energie che ha saputo suscitare dopo che, detto con un’espressione felice, ha messo le ali, ormai 12 anni fa. Questa è un’iniziativa che la nostra università condivide con particolare emozione e si impegna a portare avanti con tutte le qualificate collaborazioni che la famiglia, la Fondazione e in particolare la professoressa Pacelli, hanno saputo radunare, a partire dall’Ordine dei Giornalisti con il quale lavoriamo nel Master in Giornalismo. Grazie quindi di cuore e Viva Ale.

Saluti iniziali – Sergio Maria Battaglia

SERGIO MARIA BATTAGLIA  – Segretario Generale Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo

Sono commosso perché è un evento che abbiamo l’onore di avere organizzato insieme con molta fatica. Noi siamo onorati, come Istituto Luigi Sturzo, di continuare a collaborare con la LUMSA, con il magnifico rettore, il prof Francesco Bonini, con la professoressa Pacelli e con tutti gli altri esimi relatori. È sicuramente molto importante ricordare dei giovani che con la passione, con il loro sacrificio, anche fisico, hanno contribuito, o almeno ci hanno provato, a rendere migliore questo mondo, sempre più avvelenato da cinismo, cattiveria, che a volte è un regno dei soldi e dove impera la malavita. In una situazione sanitaria così grave, uno dei pericoli è proprio quello della criminalità organizzata che cerca di approfittare, pericolo non soltanto italiano, ma internazionale.

“Fake news” è un termine inglese, ormai se non si usano termini inglesi anche nella lingua italiana probabilmente non sì è “alla moda” o comunque non si fa scena. Noi intendiamo la disinformazione, quella informazione ingannevole conseguenza di un comportamento truffaldino; contraffazione di notizie che ignorano le regole editoriali, le regole sane di informazione, i codici deontologici che esistono anche nella professione del giornalismo, ma che spesso vengono ignorati dove non c’è un ”peace-enforcement” che le faccia rispettare. Questa disinformazione è molto diffusa, soprattutto su internet e sui social media. Spesso quando faccio lezione io dico: ragazzi, voi avete il vantaggio rispetto a me che quando mi sono laureato non esisteva internet. Io passavo ore e ore, giornate intere, alla biblioteca centrale giuridica, mi ero fatto amico i due impiegati che mi davano tutte le pubblicazioni su cui io scrivevo articoli e facevo ricerche giuridiche. Dico: voi con internet potete effettivamente controllare se una norma che io sto citando è esatta o no, fare dei collegamenti tra le leggi. Su internet si trova tutto o quasi, ma spesso internet viene utilizzato per altre funzioni. Le bufale sulla pandemia sono state lette 3,8 milioni di volte, i 10 siti che hanno promosso più bufale attraverso Facebook negli ultimi mesi hanno avuto 4 volte più visualizzazioni dei 10 migliori siti ufficiali. I social network diffondono più fake news rispetto ai canali di informazione tradizionali. Chi si informa solamente sui social network è più incline a non rispettare le misure restrittive anti-Covid rispetto a chi fa riferimento a determinati canali di informazione. Ma ci sono anche dei giovani che hanno realizzato una piattaforma che, usando l’intelligenza artificiale e selezionando milioni di informazioni sul web, discernono le notizie veritiere e quelle che non lo sono. Sono giovani romani che hanno cominciato a lavorare a Londra e hanno avuto questa idea.

L’uso corretto delle parole è importante.

In alcuni provvedimenti sugli spostamenti presi durante la pandemia è scritto che un tal comportamento “è fortemente raccomandato. Cosa vuol dire? Avendo io, professionalmente, una deformazione giuridica ho pensato che se “è fortemente raccomandato” vuol dire “non c’è sanzione”. E siccome, probabilmente, c’erano dei dubbi, si sono anche aggiunte specificazioni. Ma che vuol dire “è fortemente raccomandato spostarsi a meno che non hai motivi di studio, di lavoro o necessità ecc.”?

È stata necessaria una circolare del capo di gabinetto della Ministra dell’Interno per specificare, tra le altre cose, che nel caso di spostamento, c’è la forte raccomandazione, non c’è bisogno dell’autocertificazione. Ma scrivere “è fortemente raccomandato” in un provvedimento preso durante uno stato di emergenza è dimostrazione concreta che è un compromesso, si dice e non si dice. O c’è o non c’è il divieto.

Speriamo di continuare in questo percorso insieme alla Lumsa, alla Fondazione Alessandra Bisceglia, che veramente merita tutta la nostra attenzione. E consentitemi, anche di ringraziare ancora Donatella Pacelli.

 

Presentazione V edizione

DONATELLA PACELLI  – Docente LUMSA- Vice Presidente della Fondazione Alessandra Bisceglia

Siamo qui per testimoniare la convinzione che non bisogna mai allentare l’attenzione nei confronti di temi sensibili, nei confronti di problemi sociali, nei confronti di una comunicazione non rispettosa di questi problemi.

Un ringraziamento a tutti coloro che hanno creduto in questo importante progetto: l’Università Lumsa, che è stata l’Università di Alessandra Bisceglia e che ringrazio per la vicinanza costante al progetto della Fondazione di valorizzazione e di formazione, due binari che la Fondazione porta avanti contestualmente.

Ringraziamo Lumsa nel nome e nella persona del professor Francesco Bonini, Magnifico Rettore sempre molto vicino alla Fondazione e convinto assertore dell’importanza di un progetto che riesce a essere anche un momento di formazione grazie all’Ordine dei Giornalisti, che lo riconosce utile per l’acquisizione dei crediti formativi.

Un grazie speciale in questa particolarissima edizione, inoltre, all’Istituto Luigi Sturzo, che ospita questo evento durante il quale conferiamo il Premio Giornalistico per la comunicazione sociale che porta il nome di Alessandra Bisceglia; ringraziamo tutta la struttura e in particolare Sergio Maria Battaglia, Segretario Generale del Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo.

Il Premio ha il nome di Alessandra Bisceglia perché rispetta e testimonia il suo approccio alla professione, il suo modo di entrare con competenza e sensibilità nei temi, nonostante la sua giovane età.

Questo premio è un tassello delle tante cose che fa la Fondazione: da più di 10 anni, nel nome di Alessandra, insiste sulla ricerca per le malattie rare, per le patologie vascolari in modo particolare, cerca di portare avanti l’attività di sostegno e di attenzione alle famiglie che vivono questi problemi, cerca di aiutare nella formazione per valorizzare l’autonomia possibile, per garantire un’armonia tra la situazione creata dalla malattia e la qualità della vita.

Percorsi importanti che trovano coerenza nell’ attività del Premio, rivolta alla valorizzazione dei giovani giornalisti che si impegnano nei temi che fanno comunicazione sociale, perché l’ambito della comunicazione sociale ha confini molto labili: facciamo fatica a dare delle definizioni univoche e precise, sappiamo che è la comunicazione che si mette al servizio del sociale, attenta al sociale, alla società civile che fa democrazia, che guarda all’equità e cerca di contrastare il disagio.

Una comunicazione sociale che rema contro il virus dell’indifferenza che pervade la società, pervade la cultura e a volte si riflette anche nell’informazione, che combatte quella cultura dello scarto come, con grande efficacia, dice Papa Francesco.

Sono due espressioni del nostro Pontefice, che con sapienza e sensibilità ci ha riportato davanti ai problemi della ineguaglianza e della nostra miopia rispetto ai problemi che attraversano molte persone.

Quindi la comunicazione sociale sfida il giornalismo: il giornalismo è un buon giornalismo se sa fare anche comunicazione sociale, se sa entrare in quelle che un autore a me caro, Theodor Adorno, chiama le “crepe del sociale” e se sa intercettare questioni che fanno narrazione del disagio ma anche contro-narrazione, dando luce ai traguardi che pure chi vive in situazioni difficili può porsi e magari riesce a superare con la tenacia che, come ci ha insegnato Alessandra Bisceglia, appartiene a chi conosce le situazioni più difficili.

Allora, quando in un’epoca pre-Covid abbiamo cominciato a lavorare su questa edizione del premio e immaginato che il momento della premiazione come sempre dovesse essere anticipato da un dibattito scientifico, e quindi da un momento di formazione, in linea di continuità anche con le precedenti edizioni, abbiamo ripreso il grande problema delle “parole giuste”. Abbiamo detto: “trovare le parole giuste significa anche trovare i temi giusti e avvicinarli con competenza”. E quindi significa anche contrastare gli elementi che vanno a impoverire il dibattito pubblico, “hate speech”, linguaggio delle iperboli -non è certo ascrivibile a una scelta comunicativa adeguata- e fake news. Oggi facciamo i conti con una situazione emergenziale e questo titolo, “Quando le fake news fanno più male”, torna di estrema e drammatica attualità.

La pandemia, gravissimo problema sanitario, ha creato anche disagio sociale e culturale per il tipo di comunicazione e informazione che ha circolato su scala mondiale. Le fake news fanno male sempre perché alimentano la famosa post-verità della quale non avevamo bisogno, ma fanno particolarmente male in alcuni contesti.

A proposito di parole che sono balzate all’attenzione della nostra contemporaneità abbiamo un nuovo termine: infodemia. La Treccani lo ha messo tra i suoi neologismiva proprio a stigmatizzare questo sovraccarico di informazioni spesso non valutate con competenza e con pazienza che creano disorientamento, non aiutano il cittadino.

Ringraziamo soprattutto i giovani che hanno risposto al bando e che fin dalla prima edizione del premio hanno testimoniato una competenza e una capacità di entrare nei temi sensibili che rincuorano.

Saranno premiati quelli che a nostro modesto giudizio sono stati particolarmente meritevoli, nella consapevolezza che tutti i partecipanti meritano, insieme alle testate giornalistiche che, pubblicando i loro articoli, dimostrano attenzione.

Ma noi parliamo ai giovani, ai giovani di oggi e di domani, a chi si sta formando sui temi del giornalismo e quindi con molta convinzione andiamo avanti nel portare la nostra attenzione nei confronti di “maglie” che si allargano: le fake news che seguitano a uscire, che seguitano a far male, ad essere terribilmente attrattive. Sembra che siano più seguite delle notizie vere, a quanto pare sono costruite ad arte per questo.

 

Intervista a Francesco Sinigaglia

Dottore con lode in Lettere, in Scienze dello Spettacolo e produzione multimediale e in Filologia moderna. Attualmente è dottorando di ricerca Università di Bari Aldo Moro in Lettere, Lingue e Arti – XXXV ciclo. Regista, drammaturgo e giornalista pubblicista iscritto all’Albo dell’Ordine dei Giornalisti. Conduce sin dal 2012 laboratori teatrali per bambini, ragazzi e adulti. Fonda il gruppo teatrale CompagniAurea. Tra le produzioni di CompagniAurea si ricorda Benedetto. Il papa di Gesù, partecipazione fuori concorso al Premio Ubu 2019. Ha pubblicato in volume “Otello nel laboratorio di Stanislavskij. Introduzione al metodo delle azioni fisiche” (TraLeRighe Libri Editore, 2018); “I volti della violenza a teatro: Dal Cinquecento a Dacia Maraini” (TraLeRighe Libri Editore 2017).

 

Partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico è stata una sfida?

Certamente sì. Qualsiasi partecipazione a un premio è una sfida: non tanto con gli altri ma con i tempi perché scrivere per il giornale equivale a raccontare velocemente e con le parole giuste il presente. Questo caratterizza un buon giornalista.

 La Comunicazione Sociale: è un tema che trova spazio sulle testate?

Fare “comunicazione sociale” è un’altra delle sfide del giornalismo contemporaneo: il giornalista non solo deve essere abile nel convincere il suo lettore ad andare oltre il titolo, ma, attraverso una scrittura accattivante e sincera, deve dimostrare di saper trasmettere un messaggio. L’impegno del giornalista, in più, deve essere condiviso dalla testata che spesso e purtroppo, a causa della velocità dei cambiamenti e dei social networks, preferisce orientare la comunicazione verso orizzonti più semplici in grado di produrre numeri vuoti.

Le parole, in un tema come quello del PGAB, si scelgono o sono già scelte? 

Le parole non si scelgono ma obbediscono alla logica di un pensiero: gli antichi sostenevano che tutto è già stato scritto; noi, invece, abbiamo il semplice compito di registrare la realtà fattuale. I temi attuali e concreti rientrano in un universo solidale in grado di insegnare e coinvolgere: i partecipanti devono tentare di intervenire a sostegno delle tematiche di cui si parlava.

Le notizie devono essere sempre nuove? 

Le notizie non devono essere nuove: devono informare. Queste hanno il dovere di rendere edotti i lettori. Non devono essere parziali, non devono essere gonfiate. Le notizie sono notizie, non storie. Le notizie appartengono alla materia ricostruttiva e per questo non bisogna correre il rischio di anteporre un servizio a un’etica commerciale.

Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

La risposta sta nello scopo di fondazione della testata più che nel giornalista: il giornalista, poi, decide da che parte stare. Ognuno ha il suo compito. Bisogna, comunque, tenere presente che i giornalisti che afferiscono all’area del “prodotto commerciale” non deve essere sottovalutato o disdegnato: è un lavoratore come tutti gli altri con interessi e obiettivi differenti dal giornalista di “servizio”.

Chi è oggi, secondo te, un buon giornalista?

Un buon giornalista è colui che è presente, è in grado di leggere la contemporaneità e stare al passo con i ritmi frenetici del web.  Un buon giornalista, inoltre, ha il dovere morale di padroneggiare fluentemente la lingua che adopera per il suo lavoro. Infine, deve essere in grado di intercettare la notizia e verificare la certezza della fonte. Il giornalista si deve muovere. Come detto, deve essere rapido.

Intervista a Stefano Scaccabarozzi

Stefano Scaccabarozzi ha 34 anni, giornalista, lavora per il quotidiano La Provincia di Lecco. Svolge il lavoro di cronista da ormai dieci anni, da otto è iscritto all’albo dei giornalisti, dal gennaio 2019 come professionista. Nella sua carriera si è spesso occupato anche di temi legati al sociale e all’inclusione. Da un anno a questa parte si occupa di raccontare gli effetti della pandemia nel territorio in cui vive e in cui è diffuso il giornale per cui lavora. Racconta storie, esperienze e le vite dei cittadini lecchesi alle prese con questa emergenza sanitaria, economica e sociale. Insieme ai colleghi Paolo Valsecchi e Lorenzo Bonini, ha curato il libro edito da Rizzoli “Io sono nessuno”, uscito lo scorso 15 settembre che racconta la vita di Piero Nava, supertestimone dell’omicidio del giudice Livatino e primo testimone di giustizia italiano.