Intervista a Daniele Caponnetto

1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sicuramente lo è, ma proprio per questo molto stimolante. In provincia di Cuneo il terzo settore ha un ruolo chiave nello sviluppo della comunità, quindi raccontare queste tematiche può essere, forse, più agevole che altrove.

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Oltre a quella portata alla vostra attenzione, c’è sicuramente la storia di otto anziani che vivono in autogestione in uno spazio concesso dal comune di Cuneo (LINK–> https://bit.ly/3QirM9q). Porto inoltre nel cuore la storia di Clemente, mio compaesano, che ha scalato a 83 anni per la la 400^ volta il Monviso, la nostra montagna (LINK–>https://bit.ly/3tvaBaF).

 3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

L’unico limite, a mio avviso, è dato dal contesto. Per quello che mi riguarda informare significa essere attento alle istanze di una comunità, ma cercando di mantenere sempre una giusta equidistanza. A volte è giusto prendersi la bega di pubblicare qualcosa con il rischio che non sia gradito (o peggio non fruito) dai lettori. Quello che non deve fare un buon giornalista è guardare al proprio ombelico. L’equidistanza deve essere anche da se stesso.

 4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Sì, ma dovrebbe trovare ancora più spazio. Le redazioni, tutte, sono fagocitate dalla gestione del quotidiano fatto di cronaca, conferenze stampa, telefonate, colloqui con uffici stampa, interviste programmate… E a volte, sbagliando, si tralascia il sociale. Occorre parlarne con i giusti termini. Questo si può fare solamente con corsi giornalistici deontologici dove i relatori devono essere famiglie o associazioni che operano nel sociale.

 5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Non per forza, ma a volte è utile cambiare il punto di vista per evitare l’effetto infodemia. Nella velocità dell’informazione, a volte, c’è il rischio che i giornali siano uno la fotocopia dell’altro. Bisogna prendersi il tempo di guardare le cose anche da ,un’altra angolazione.

 6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

Purtroppo il settore è in crisi. I fondi pubblici sono pochi e destinati a pochi. Questo rende difficile la sopravvivenza di testate che possono essere sovvenzionate solamente da pubblicità dei privati. Però il lavoro giornalistico deve assolutamente viaggiare su binari separati e concentrarsi sul servizio di informazione.

7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

L’equidistanza da se stessi e da chi ci legge caratterizza il lavoro di un buon giornalista che deve essere neutrale, ma sempre curioso, attento a saper leggere su più livelli ogni questione. Chi non cade nella tentazione di polarizzare da una parte o dall’altra un’informazione sta, a mio avviso, facendo un buon lavoro.

 8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite la newsletter di Slow News. Un movimento che sta cercando di rendere più ‘lenta’ e attenta l’informazione anche in quest’epoca di fruizione schizofrenica delle news.

Intervista a Daniele Bartocci

1.È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Sicuramente sì, le sfide mi affascinano, per tale motivo ho deciso di partecipare a questo premio così prestigioso legato a tematiche assai delicate. Avendo partecipato nel corso degli anni anche a vari eventi e scritto articoli attinenti alla comunicazione sociale, solidarietà e integrazione sotto vari punti di vista… ho ritenuto opportuno seguire questo premio…

2. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Probabilmente lo sviluppo sostenibile e i nuovi format applicati alle discipline agonistiche e sportive, anche in tema di eventi e situazioni legati a diversamente abili. Qualche anno fa nelle Marche ad esempio c’è stato un bellissimo evento che ha affrontato in maniera perfetta sport e inclusione sociale ovvero i Giochi Integrati di Scherma  tra atleti normodotati e con disabilità provenienti da tutta Europa.

3. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Credo tutte quelle tematiche sociali che sul piccolo schermo sono poco seguite ma che in realtà assumono una fondamentale rilevanza, nonostante non siano appunto sotto i riflettori nazionali.

4. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate? Esistono parole “giuste” per parlarne?

Lo spazio mediatico riservato a queste tematiche non mi risulta essere esagerato, ma nel complesso buono. Di certo si potrebbe far meglio nei tempi dell’era digitale. Credo che le parole debbano essere scelte e selezionate, al posto giusto nel momento giusto, ai fini di un’ottimizzazione a 360 gradi.

5. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Un giornalista che racconta i fatti in maniera veritiera e senza condizionamenti di varia natura, puntando sull’originalità della news e ottenendo una certa reputation e credibilità, in modo tale che anche gli stessi personaggi siano maggiormente propensi a rilasciare dichiarazioni e interviste.

6. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

È inutile nascondere che esistono testate che mantengono una propria identità strettamente ‘commerciale’, forse dimenticando il ruolo essenziale dell’utente finale. Gli interessi commerciali ‘dominano’ e probabilmente ‘domineranno’ sempre di più nel prossimo futuro. Servizio pubblico in pericolo? No, adesso non esageriamo.

7. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Essere credibili, autorevoli, originali. Essere onesti con se stessi per poterlo essere con i lettori, esercitare l’attività giornalistica con passione e sacrificio, e con la consapevolezza che non si tratta di un privilegio bensì di un servizio da saper esercitare con umiltà e autorevolezza.

8. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite il web, un premio di assoluto prestigio che si ripete ogni anno.

Comunicare il rischio e raccontare l’incertezza: dalle fonti alla cronaca

Mirella Taranto – Capo Ufficio Stampa Istituto Superiore di Sanità

“Volevo iniziare con un ricordo di quando ero giovane come loro (i ragazzi di un corso di giornalismo che hanno partecipato all’evento in presenza, ndr.) e mi veniva detto: ma tu cosa vuoi fare? La giornalista scientifica, sembra un ossimoro dire di voler fare giornalista scientifica! In queste parole si racchiude un po’ il senso dell’intervento che starò per fare. Ho vissuto in prima persona la pandemia dal punto di vista della comunicazione dei vari dati. Ma in realtà comunicare la pandemia è significato comunicare nell’incertezza: comunicare qualcosa di scientifico che è assolutamente difficile da tradurre in un format giornalistico, che è un format binario, di realtà. Ho fatto un’analisi su quello che è stato il nostro canale social, che abbiamo molto potenziato come gruppo e portato da 4mila a 80 mila followers. Abbiamo un canale che oggi rispetto ai nostri pari in Europa è tra i più seguiti. Abbiamo un numero di follower che oggi è superiore a quello dei Centri di controllo malattie europei. È stata una grande fatica, una grande soddisfazione, ma anche una grande lezione. Mi faceva piacere raccontare l’incertezza di una comunicazione che vuole raccontare l’epidemia: una incertezza che ha interessato anche il mondo dei social. Solo il 20 per cento della popolazione adulta ha strumenti per leggere, scrivere e calcolare, necessari per orientarsi nella società. Il giornalismo è un’offerta di domande o una proposizione di risposte? Siamo tra l’altro tra le popolazioni – siamo anche dietro la Spagna – che hanno meno alfabetizzazione scientifica. Siamo dei grandi umanisti, ma quando raccontiamo quello che la scienza ci dice di una epidemia lo andiamo a raccontare con degli strumenti ed un linguaggio che non è altissimo. L’incertezza è il comune denominatore che accompagna fasi lunghe, sia nella comunicazione di crisi che nella comunicazione del rischio. Le incertezze, però, per creare un rapporto di fiducia con il pubblico devono essere riconosciute e descritte. Un giornalismo che non si sforza e non ha il coraggio di descrivere l’incertezza è un giornalismo che non aiuta, soprattutto in una fase di pandemia. Questo non vuol dire che la comunicazione debba essere incerta e ve lo dico dal mio punto di vista: di una istituzione in cui, quando io dico che di un tema parla un gruppo e non parla un altro, questo non significa censurare un gruppo di ricerca o un altro punto di vista scientifico; significa che nei tempi di pandemia bisogna dare una comunicazione univoca anche nel rispetto della popolazione. Significa semplicemente prendersi la responsabilità, in quel momento, di dare una direzione. L’atteggiamento diverso lo può avere una università, una comunità scientifica, non lo può avere una istituzione della sanità pubblica, che deve indirizzare i cittadini. Il nostro sistema cognitivo gestisce male l’incertezza. La lingua dei giornali gioca su questo. Ma lingua della scienza ha un solo significato. La lingua ordinaria – che è quella con cui leggiamo e decodifichiamo i messaggi – è quella che sfrutta l’aspetto connotativo di una parola, con un nucleo e una serie di aspetti. Le sfumature semantiche, però, nella scienza non esistono. La nostra è una comunicazione complessa e per questo bisogna calibrare bene il messaggio. Vi faccio un esempio: abbiamo avuto una serie di interviste, scelto di non andare nei salotti televisivi, dato messaggi chiari, univoci. Ma anche in un tipo di comunicazione equilibrata c’è ad esempio la differenza fra la risposta di un professore e la titolazione – (la relatrice fa alcuni esempi mostrando articoli pubblicati in una slide nel video al minuto 9 al minuto 10.40, ndr.) – Quando siamo andati sui social abbiamo avuto a che fare con i complottisti, con una serie di comunicazione non verificate (ciò che distingue un giornalista da un blogger). Non è stato facile. L’istituzione pubblica deve avere però i social per ottenere ascolto, perché ormai l’informazione tradizionale è diventata di nicchia. Se si deve parlare di un’epidemia, i ragazzi si captano sui sociali. Bisogna quindi sforzarsi per esserci. Allora, abbiamo cominciato a utilizzare le grafiche, per l’importanza del linguaggio visivo e ci siamo attrezzati da quel punto di vista diventando un grosso gruppo che utilizza tanti mezzi. Abbiamo iniziato a lavorare facendo visualizzare il tema con infografiche, ad esempio come quelle sui possibili pericoli o meno dei vaccini. Leggere i numeri non è una cosa semplice, anzi. Soprattutto quando si vogliono proteggere persone fragili, anziani, donne in gravidanza. Abbiamo smontato uno per uno i falsi miti, ottenendo un buon riscontro sulla stampa. Questo, anche grazie al rimbalzo dei social. Siamo stati aiutati a salire come followers, ma se non avessimo alimentato questo social con contenuti non saremmo riusciti ad avere questi risultati. Twitter per noi è il canale più seguito, fra tutti quelli aperti. Tutti stanno crescendo, ma Twitter ha una differenza in termini di target. Twitter è proprio uno strumento da ufficio stampa. Con Twitter avevo il contatto con la casalinga e con l’impiegato. Con Twitter contatto i miei colleghi e parlo con tutti quei gruppi attivi, non come i complottisti con i quali parlare è inutile, ma con gli esitanti, con coloro che hanno il diritto di esitare: quelle persone che chiedono informazioni per poter essere messe nelle condizioni di scegliere. Quello è il nostro target. Facebook, invece, è un’altra cosa: comincia a servirsi più di storytelling ed ha un’interazione a livello emotivo. Instagram è quello che fatica di più, perché è un canal fashion, che però ha un andamento oscillante e risente maggiormente delle polemiche anti vaccino. Tuttavia continueremo, perché stiamo organizzando ad esempio un bell’archivio di immagini. Su Instagram abbiamo fatto anche i quiz, per cercare di elevare l’alfabetizzazione scientifica e di aumentare la conoscenza di ciò che sta dietro alle cose, stimolando la competizione. I vaccini sono sicuri e efficaci? Bisogna capire quali sono i farmaci e cosa fare rispetto all’evidenza. Questo è il nostro compito. La scienza indica i fatti e risponde ai fatti. La politica decide cosa fare in base alle evidenze. È stato molto difficile spiegare ai giornalisti in questi mesi, che quando volevano sapere se chiudevano o meno i cinema o se il green pass fosse giusto averlo o no, che non potevamo rispondere a queste domande. È stata la mia fatica maggiore. Non è giusto, non è democratico, sarebbe tecnocratico. Prendiamo delle evidenze, diciamo i trend e spieghiamo quali sono i rischi, con quel margine di incertezza che siamo costretti a comunicare. È alla politica, al ministero e ai governanti che bisogna chiedere se i teatri aprono o chiudono. Entrambe le cose richiedono trasparenza e responsabilità. Quando riportiamo una stima ottenuta da un’analisi statistica, stiamo riportando una estrapolazione della realtà con dei margini di incertezza, poiché si tratta sempre di interpretazioni di dati. Più informazioni si pubblicano, più è difficile avere un valore numerico che ci racconti la verità. Penso, sostanzialmente, che nella dichiarazione dell’incertezza dobbiamo costruire e crescere tutti. Dobbiamo aprire un varco in quel margine di incertezza, dove far crescere la fiducia fra le istituzioni, i giornalisti e i cittadini, fra chi produce, chi narra, chi ascolta”.

Giornalismo E Ufficio Stampa Al Servizio Di Una Corretta Informazione

Antonio Morelli  – capo ufficio stampa di Farmindustria

“Vorrei innanzitutto portare il saluto del Presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi che mi ha delegato a rappresentare l’associazione in questo evento così importante. Come giornalista, categoria spesso trascurata, apprezzo e ammiro il lavoro certosino della maggior parte dei colleghi, il cui solo scopo è raccontare la verità per quella che è, senza nascondere nulla. E andando a fondo, approfondendo gli argomenti di attualità, con un controllo scrupoloso delle fonti per offrire un servizio ai cittadini. Come imprese facciamo il possibile perché ogni aspetto della vita del farmaco sia comunicato in maniera corretta e veritiera, utilizzando tutti i canali, da quelli tradizionali a quelli più recenti. E vogliamo migliorare sempre più. E siamo consapevoli che, anche nella comunicazione, al nostro fianco abbiamo sempre il paziente, che ci accompagna in tutta le varie fasi della ricerca e ne è il destinatario.

Dalle lezioni della pandemia al valore per il sistema Paese. Cosa le imprese vogliono comunicare

La pandemia può – anzi deve essere – una lezione che ci segna. Non dobbiamo sprecare gli insegnamenti che si possono trarre.  Cito papa Francesco che all’inizio della pandemia diceva: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. Ecco, questa esperienza ci ha insegnato tante cose fra le quali quanto siamo fragili e quanto necessaria sia la capacità di prevenire e gestire un’emergenza collettiva. La salute, d’altronde, implica ricerca, digitalizzazione, robotica avanzata, transizione ecologica, lavoro di qualità, formazione continua e investimento nelle nuove generazioni, coesione sociale. La filiera farmaceutica è tutto questo e in Italia è più diffusa di quanto si pensi. Il primo insegnamento è che la Salute è alla base di tutto. Senza Salute e investimenti nelle Scienze della Vita non c’è futuro, né sviluppo armonico della società.

Il secondo è che la partnership è un fattore strategico di competitività. Se non ci fosse stata una collaborazione serrata a livello mondiale tra aziende, Istituzioni, agenzie regolatorie e tutti gli altri attori della Salute non avremmo avuto il risultato che tutti ci auguravamo all’inizio della pandemia: il vaccino in meno di un anno. Una storia che potremmo dire che ha del “miracoloso”. Tutti hanno fatto al meglio la loro parte. E le aziende del farmaco impegnate nello sviluppo dei vaccini anti-Covid 19, con grande senso di responsabilità li hanno prodotti durante la fase di R&S senza garanzie che sarebbero stati approvati. Correndo un rischio, proprio per essere pronte alla distribuzione in caso di autorizzazione. Eppure, se posso muovere una piccola critica, spesso ci si soffermava più sui problemi (il vaccino non c’è, il vaccino ha ritardi nella produzione, etc) che sull’immane sforzo che si stava facendo e che ora ci sta permettendo di intravedere la luce in fondo al tunnel. La storia da raccontare è oggi quella di un’industria strategica per il Paese sia per quello che ha fatto durante l’emergenza pandemica sia perché ha dei numeri importanti in termini di innovazione, produzione, occupazione, investimenti, sostenibilità ambientale e transizione digitale. Ecco quali.

Ricerca/innovazione. Gli addetti totali in R&S sono 6.750, di cui oltre la metà donne. Nel 2020 gli investimenti in R&S delle imprese del farmaco in Italia sono stati di 1,6 miliardi di euro, il 6,3% del totale degli investimenti nel Paese.  Circa 700 milioni sono stati dedicati agli studi clinici, spesso nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), rendendo disponibili per i pazienti terapie innovative e offrendo anche possibilità di crescita professionale a medici e ricercatori. E sostenendo tutti i costi connessi, come l’ospedalizzazione e gli esami diagnostici.

Produzione di valore. L’Italia del farmaco è ai vertici in UE, insieme a Francia e Germania, per valore della produzione: più di 34 miliardi di euro nel 2020 (65 considerando anche l’indotto), trainata da un export che negli ultimi 5 anni ha rappresentato l’85% del valore della produzione.  Aziende farmaceutiche che nel Paese hanno una composizione unica in Europa: 43% a capitale italiano, 57% a capitale internazionale. E che sono tutte – grandi, piccole e medie – fortemente radicate nel territorio. Nel 2020 hanno investito 3 miliardi di euro (1,6 in Ricerca, 1,4 in produzione).

Accesso & valore. In Italia 26 milioni di persone assumono farmaci. Un numero che considerando anche i nuclei familiari e i caregiver coinvolge ogni giorno quasi tutta la popolazione.

Sono 3,6 milioni le persone che nel 2020 vivono dopo aver avuto una diagnosi di tumore. Circa 1 milione in più in 10 anni, più del 40% è guarito o è in via di guarigione, grazie alle innovazioni nelle cure, a diagnosi personalizzate e a percorsi di cura sempre più domiciliari.

Lavoro & sostenibilità ambientale. Sono 67.000 gli addetti dell’industria farmaceutica, per il 90% laureati o diplomati, in crescita del 12% negli ultimi 5 anni. Con un vero e proprio boom – del 16% – per gli under 35 negli ultimi 5 anni. Proprio per i giovani, che rappresentano il futuro, Farmindustria, con un modello unico nel Sistema Confindustria, insieme alle imprese associate, promuove un’intensa attività di Alternanza Scuola-Lavoro

L’industria farmaceutica è anche leader per occupazione femminile che raggiunge quota 43% dei dipendenti rispetto al 29% del resto dell’economia. Nella R&S poi sale addirittura al 52%.  Donne che ricoprono spesso ruoli di responsabilità: sono infatti il 42% di dirigenti e quadri (52% tra gli under 40): nella farmaceutica la parità di genere è da anni una realtà.

Industria che è anche al 1° posto tra i settori industriali per numero di attività di welfare e sostegno per il benessere lavorativo, la formazione e il sostegno alla genitorialità.

Le aziende del farmaco hanno poi un’elevatissima attenzione alla sostenibilità ambientale. In 10 anni hanno ridotto in Italia del 59% i consumi energetici e del 32% le emissioni di gas climalteranti.

Digitale & Connected Care. Oltre il 90% delle imprese del farmaco nel 2020 ha mantenuto o aumentato gli investimenti in tecnologie digitali, per migliorare l’accesso alle cure e la continuità operativa.

Con il 61% delle aziende che nel 2020 ha sviluppato progetti su cloud, piattaforme di collaborazione, Big data, Intelligenza Artificiale, Internet of Things, robotica avanzata.

Conclusioni

Le imprese continueranno a fare quello che da tempo stanno facendo. Raccontare i fatti. I numeri sopra elencati significano opportunità di cura, nuova occupazione, crescita dei territori. Insomma, le imprese del farmaco creano valore. Con il Covid-19 è stato evidente il loro ruolo. Ora è importante continuare a raccontare – nel solco tracciato – i risultati raggiunti non solo relativi al Covid, ma anche i prossimi traguardi, le tante occasioni che con le Life Sciences potranno nascere per il Sistema Paese. L’industria è pronta, con la sua volontà e le sue competenze, a rafforzare il ruolo di partner strategico del Paese, per costruire insieme a Istituzioni e stakeholder un patrimonio per la salute, l’economia, la società e l’ambiente: quindi un patrimonio per la Vita.

L’Italia può mantenere e rafforzare la propria competitività, se si concretizzerà un contesto di politiche sanitarie e industriali, coerente con gli obiettivi di salute e crescita. In un settore regolato e a forte concorrenza internazionale come la farmaceutica, infatti, la partnership tra Istituzioni e Industria è un fattore strategico di competitività, per ricercare insieme, nel pieno rispetto dei ruoli e con grande senso di responsabilità, soluzioni per migliorare l’accesso alle cure, la gestione sostenibile della spesa e l’attrattività del nostro Paese per gli investimenti. La sfida che ci aspetta è quella di affrontare il futuro, recuperando il terreno perduto e pensando a nuovi modelli di governance, rafforzando sempre più la medicina del territorio. Il Covid ha determinato un ritardo significativo delle nuove diagnosi e un mancato accesso alle cure nelle principali aree patologiche: patologie oncologiche, croniche infiammatorie, cardio -metaboliche e respiratorie. Secondo uno studio IQVIA – importante azienda a livello mondiale nell’elaborazione e analisi dei dati in ambito healthcare – rispetto alla situazione pre-pandemia, si registra una perdita significativa di nuove diagnosi (- 635.000, pari a -10%), nuovi trattamenti (- 455.000, – 9%), richieste di visite specialistiche (- 3.222.000, – 32%), ed esami (-3.739.000, – 22%), sulle principali patologie croniche. Senza dimenticare di affrontare, con un deciso scatto in avanti, l’emergenza umanitaria del Covid che costituisce anche una necessità per la sconfitta della malattia. Un’operazione complessa ma che va realizzata presto, seguendo i passi suggeriti dalle Federazioni europea e mondiale delle imprese farmaceutiche: aumentare la condivisione delle dosi, ottimizzare la produzione, eliminare le barriere commerciali, sostenere la distribuzione nei Paesi a basso e medio reddito, sviluppare nuovi vaccini e terapie. Obiettivi che vogliamo raggiungere raccontandoli sempre come abbiamo fatto. Con una comunicazione chiara e trasparente, nella consapevolezza che anche in questo ambito i risultati possono essere raggiunti solo se collaboriamo. Tutti insieme”.

La forza delle immagini per raccontare

Vincenzo Morgante – Direttore Tv 2000

“Grazie per l’invito a questo appuntamento, davvero un evento diverso da molti altri, un percorso di fecondità che si è andato consolidando. De Bortoli nel suo intervento ha reso giustizia a quanti credono che raccontare il bene da parte dei giornalisti non significhi far parte di un settore del giornalismo di serie B. Raccontare il bene comporta una competenza e una responsabilità al pari di qualunque altro svolga questo mestiere. Non tutti la pensano così. L’idea diffusa è che occuparsi di alcuni temi – e quindi temi come il capitale sociale – significhi occuparsi di temi leggeri. In realtà stiamo parlando di un fenomeno fondamentale per la tenuta di un Paese. Credo che anche per i giovani colleghi del master sia stata un’occasione importante e cbhe abbiano ricevuto stimoli significativi per un settore che richiede attenzione e competenze, anche di natura giornalistica, un ambito per il quale c’è ancora tanto spazio. De Bortoli ci ha ricordato anche i criteri per raccontare questo settore, che sono anche i criteri della professione: la competenza, la serietà, la credibilità, il non fermarsi alla verità pubblica ma andare oltre. Gli stessi criteri che devono accompagnare chi si occupa di economia, chi si occupa di cronaca nera, chi si occupa di sport. Sono grato di questa sottolineatura. Così come concordo con quanto ci ha detto Ruffini: una fotografia che una settimana prima si era deciso di non pubblicare, che poi una settimana dopo si decide di pubblicare. Dietro al lavoro giornalistico c’è tanto impegno. C’è una riflessione anche dietro la scelta di una foto. Si mettono in campo competenze, sensibilità, conoscenze: anche questa mi è sembrata una bella lezione di giornalismo. “Vieni e vedi”, dice l’apostolo Filippo nel brano del vangelo di Giovanni. Papa Francesco lo suggerisce per ogni espressione comunicativa che debba essere limpida e onesta: nella redazione di un giornale come nel mondo del web, nella predicazione ordinaria della Chiesa come nella comunicazione politica e sociale. A mio avviso una delle sfide per rifondare il giornalismo (soprattutto oggi che la tesi pandemica ha accentuato certe cattive abitudini del fare giornalismo che bisogna spazzare se vogliamo salvare quella che non solo è il nostro mestiere, ma è servizio sociale) è andare, vedere e poi raccontare con ogni mezzo che si ha a disposizione. Quindi uscire dalle redazioni, dagli studi televisivi e radiofonici, consumare la suola delle scarpe, far sì che tutto ciò torni ad essere centrale nella nostra professionalità. Oggi il viaggio è spesso telematico, ma se nell’ultimo anno e mezzo è stato una necessità per colpa della pandemia è giunto il tempo di tentare di invertire la rotta: se vogliamo evitare – e vogliamo farlo – un’informazione appiattita (con sempre le stesse fonti dirette) dobbiamo tornare alle origini … e naturalmente adeguando forze e mezzi ai tempi, perché c’è un problema a monte, che va oltre la volontà dei direttori, che è quello delle risorse nel mondo dell’informazione; un problema che si fa sempre più complicato. Quando possibile dobbiamo condividere: è sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso un po’ la vita. Questa è l’idea del grande Ryszard Kapuściński, un mito del giornalismo mondiale, che al giornalismo, alle sue regole e alle sue difficoltà ha dedicato un libro molto bello, dal titolo “Il cinico non è adatto a questo mestiere”. Ecco, noi al Tg 2000 come nelle altre redazioni cerchiamo di fare informazione attraverso le parole, i suoni – quelli che i tecnici chiamano effetti – e anche e soprattutto le immagini: vedere, guardare, osservare, mostrare, condividere … e nei tempi in cui l’informazione ha trovato la via veloce dei social, tolta la tara della mancanza di verifiche, che giustamente lamentiamo in merito proprio ai social, è proprio attraverso le immagini che ci relazioniamo in prima battuta. Le persone utilizzano le immagini come strumenti per relazionarsi nel mondo, perché la comprensione è più immediata e perché restano più impresse … e peraltro sui social fanno più visualizzazioni. Un esempio è già stato citato da Paolo Ruffini: è l’immagine di Papa Francesco che cammina da solo sul sagrato di piazza San Pietro il 27 marzo dello scorso anno. Un altro esempio significativo è l’immagine del presidente della Repubblica Mattarella (c’è una bellissima foto ancora pubblicata sul sito del Quirinale) mentre si muove tra le macerie di Amatrice. Ecco, in quella foto, accanto a lui c’è un Corazziere, che presta di solito servizio al Quirinale: è un’immagine forte, se vogliamo anche simbolica, di uno Stato, dell’intera comunità nazionale, che rende omaggio alle vittime del sisma. Si tratta – questi come altri esempi che potremmo citare – di momenti che interpellano noi giornalisti, uomini e donne di comunicazione, in questo caso nel campo della televisione, a rivalutare sempre più le immagini come un messaggio forte, completo e – si spera – esaustivo. Nei servizi televisivi spesso sentiamo troppe parole pronunciate da un giornalista e meno effetti audio e video: e questo apre un capitolo del protagonismo di noi giornalisti sulla notizia stessa. Ha più valore l’immagine del giornalista che firma il servizio o la notizia, qualunque essa sia, che si sta comunicando? Rivendicando che la firma conta, che la bravura, la competenza, la serietà, la capacità di analisi del giornalista siano comunque fondamentali e imprescindibili, però credo che la notizia debba tornare ad essere il nostro vero datore di lavoro. Non possiamo dimenticare, o meglio dobbiamo ogni giorno ricordarci, che il nostro mestiere, tra le sue svariate funzioni, comprende quello di comunicare in modo chiaro e semplice alla gente. Siamo il mezzo attraverso il quale portiamo i fatti accaduti anche a chilometri di distanza nelle case delle persone. Abbiamo, insomma, una grandissima responsabilità. Fin dal primo giorno del mio insediamento alla guida di Tv 2000 ho insistito sul concetto che anche una emittente come la nostra può e deve fare servizio pubblico … e fare servizio pubblico significa parlare a tutti, senza distinzione, senza preoccuparsi dell’età, degli interessi, offrendo contenuti per tutti, credibili. È ciò che per esempio cerchiamo di fare a Tv 2000, con la speranza che ciascuno possa trovare qualcosa che gli interessi, oppure trovare delle sorprese che gli stimolino interessi, per convincerlo quindi a rimanere a guardare la nostra tv. Ecco, per fare ciò dobbiamo tenere monitorati gli andamenti e soprattutto le nuove sfide che i media pongono oggi. Sicuramente il peso nella società della televisione è notevole, ma è cambiata – come sappiamo e ancora più cambierà nei prossimi anni – la modalità di fruizione … e quindi anche i contenuti dovranno adeguarsi e si stanno già adeguando. Vedi il fenomeno delle smart tv, dello streaming, della trasmissione via Internet. La tv vede oggi ridotta la propria sacralità. “Lo hanno detto alla tv” non è più una garanzia, anzi, spesso è altro. Più frequentemente si sente dire ormai: “L’ho letto e l’ho visto su Internet”; “L’ho visto, l’ho letto su Instagram, su Twitter”. L’evoluzione tecnologica ha reso necessario un ripensamento del ruolo della tv, oggi al pari di Internet come mezzo di comunicazione. Ma è probabile che i due mass media continueranno a convivere, accanto, per lungo tempo, proprio perché hanno una struttura differente e caratteristiche che li rendono perfettamente integrabili fra di loro. L’evoluzione-cambiamento tocca due dimensioni: il tempo e lo spazio. Internet, attraverso lo streaming, per esempio ha regalato all’offerta televisiva la possibilità di essere al servizio di chiunque, in qualunque momento e in qualunque luogo: un’evoluzione che muta radicalmente anche il ruolo del telespettatore che diviene, lo sappiamo, fortemente attivo. In questa nuova veste il telespettatore assurge a guida di una comunicazione che diventa tematica e si divide e si differenzia in tante nicchie diverse per interessi e argomenti. L’intreccio di vecchi e nuovi mezzi di comunicazione, dunque, ci induce ad una riflessione: la tv come il web richiede una quantità di immagini sempre maggiore e i giovani, purtroppo – anche se in pandemia qualcuno è tornato al gusto e al piacere della lettura – si informano solo attraverso i social e spesso cercano solo quello che si può vedere e non leggere. Allora il nostro lavoro richiede a tutti noi di essere sempre più specialisti delle immagini. Oggi i particolari fanno la differenza tra un video visto da milioni di persone e un altro che si perde nel grande mare del web. Allora “andare, vedere, ascoltare”, come ben evidenzia il titolo del convegno richiede a noi comunicatori una crescita di qualità sempre più al servizio della comunità, sempre più al servizio degli altri”.

Dal potere al servizio. “Ripensare” il giornalismo nel tempo della cultura digitale

Massimiliano Padula – docente Università Lateranense e Presidente Copercom

Elaborare una riflessione sul legame tra giornalismo/informazione e cultura digitale non può prescindere da un discorso centrato sulla complessità dello scenario contemporaneo i cui fenomeni (compreso quello informativo) sono in continua trasformazione. Le conclusioni a cui si arriverà saranno, quindi, parziali e certamente mutevoli in un futuro prossimo. Alla luce di questa premessa, il legame succitato (informazione-digitalizzazione) merita di certo una riconsiderazione se si tiene conto della rimodulazione dell’universo giornalistico negli ultimi decenni: il riferimento non è esclusivamente alla diffusione delle tecnologie digitali e alle piattaforme social (che hanno certamente riposizionato la riflessione intorno alla questione). L’accento è invece da porre sulla cornice sociometrica che vede – come riportato dall’Osservatorio sul giornalismo dell’Agcom nel 2020 – “gli ultimi venti anni […] contraddistinti, in Italia, da un deciso invecchiamento della popolazione giornalistica, con la progressiva scomparsa di under 30 e una forte riduzione di under 40.” Si tratta di un rapporto – quello dell’Autorità garante delle comunicazioni – che ben fotografa la situazione giornalistica italiana ed evidenzia come “più di quattro giornalisti italiani su dieci rientrano nella categoria freelance” (costituita da autonomi e parasubordinati) e confermano di conseguenza “le profonde e strutturali differenze in termini di reddito tra questi ultimi e i dipendenti”.

(CONTINUARE A) INFORMARE TRA MOTIVAZIONE, DONO, GARANZIE E INSTABILITÀ

Non ci si soffermerà ulteriormente sulle caratteristiche proprie di ognuno delle due categorie. È importante, invece, fare una sottolineatura su alcuni aspetti che caratterizzano l’impatto dell’informazione sulla società.

Il primo è la motivazione.

L’aspetto motivazionale continua a essere alla base del lavoro giornalistico anche per coloro (sempre di più) che svolgono la professione nonostante condizioni di precarietà e basso reddito. Potremmo definirli giornalisti idealisti”. Si tratta di coloro che nonostante manchino di garanzie contrattuali e retribuzioni dignitose (per molti di loro il giornalismo non è prima attività), attribuiscono maggiore importanza all’opportunità di essere utili alla collettività o al grado di autonomia oppure alla possibilità di avere una qualche influenza sull’agenda politica.

È interessante notare come lo sviluppo di quella che possiamo definire una “informazione idealista” rimandi, in un certo senso, a un giornalismo animato da ciò che Jacques Godbout definisce lo spirito del dono, che rende “ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”. Il dono, dunque, è la seconda variabile emergente di una informazione libera, priva di garanzie di tipo economico e che si basa sulla solidarietà creando legami tra le parti coinvolte. L’analisi del sociologo canadese può essere presa in prestito per riflettere ancora una volta sull’informazione oggi. Una informazione che si fonda su un concetto di libertà allargata (non solo garantita dal diritto di libertà) ma anche dalla moltiplicazione degli spazi e dei tempi informativi grazie alle logiche del web. Ancora, lo scenario informativo è sempre meno strutturato in termini tradizionali. Siamo di fronte a uno scenario piuttosto semplificato, in controtendenza con l’aumento esponenziale delle situazioni di complessità a livello sociale: esistono – come si è scritto – giornalisti garantiti (dai contratti nazionali o da altre forme contrattuali a loro tutela) e giornalisti instabili sia per l’incertezza relativa alle dimensioni proprie della professione (contratti, retribuzioni, altre garanzie) sia per l’indeterminatezza della tradizionale prassi giornalistica che è sempre più fagocitata e orientata dalle logiche della cultura digitale. Entrambi non rifiutano le opportunità, lo evidenzia la ricerca Agcom parlando di “normalizzazione ibrida”) offerte dal digitale, ma con motivazioni differenti. Se per i garantiti che lavorano per media tradizionali un profilo social è un’opportunità addizionale alle consuetudini assicurate del proprio mestiere, per gli instabili (secondo i dati del Rapporto la maggioranza opera per testate online) diventa spesso la sola strada per affermare la propria professionalità. Un’ultima istanza che contraddistingue l’impatto dell’informazione sulla società è il dato anagrafico dei professionisti dell’informazione. Siamo di fronte a una informazione vecchia nel duplice significato che ci offre la lingua francese: quello di âgée, nel senso di anziano, fatta strutturalmente e istituzionalmente da non più giovanissimi; e quello di ancien, ovvero di qualcosa che un tempo era operativo e funzionale e, adesso non lo è più (obsoleto, si direbbe in italiano). Alla luce di queste premesse viene da chiedersi ancora quale (e quanto) sia l’impatto della informazione (intesa come professione giornalistica) sulla società.

INFORMAZIONE AL BIVIO (O IN VICOLO CIECO): IDENTITÀ, TEMPI, SPAZI DEL GIORNALISTA

Probabilmente fino a qualche anno fa, una riflessione sull’impatto dell’informazione sulla società avrebbe avuto presupposti differenti. Avrebbe prevalso un atteggiamento di apertura, di entusiasmo, di passione e positività verso il futuro, sollecitato dalle novità della cosiddetta “rivoluzione digitale”. Le valutazioni a riguardo sarebbero state dirette alle sfide del giornalismo nella nuova cultura del web, alla possibilità di abitare nuovi spazi e di esplorare nuovi linguaggi. Oggi, ci si ritrova a riflettere, invece, di scenari e sfide differenti, con margini di preoccupazione, d’insicurezza, di non consapevolezza di quel che sarà. Questo stato d’animo non può essere scisso dall’adesso. Contemporaneità oggi significa anzitutto “incertezza”, ossia quella conditio humana – scrive Ulrick Beck – nella quale “le barriere delle competenze specializzate cadono”. Questo è ancora più evidente nella contemporaneità (post) pandemica nella quale il ruolo dell’informazione è stato centrale a livello di copertura e fonti, ma anche – come è ormai triste realtà – nei termini di disinformazione, misinformazione e infodemia. L’incertezza quindi investe un mondo dell’informazione profondamento destrutturato da un punto di vista identitario, dei suoi tempi e dei suoi spazi. Questo decostruzione non riguarda naturalmente soltanto l’ambito giornalistico ma, più in generale, investe la società e i suoi innumerevoli fenomeni. È innegabile, infatti, che il web (inteso come tecnologia, ma anche come apparato culturale generatore di percezioni, simboli, narrazioni e rappresentazioni specifiche) abbia sovvertito l’immaginario consueto e delineando nuove pratiche e nuovi formati socio-culturali. La professione giornalistica tende a ibridarsi sempre più con le professioni del web, e molti giornalisti iniziano a impiegarsi in attività di social media management e content management. Questo processo porta certamente a una ridefinizione dell’identità del giornalista.

L’IDENTITÀ DEL GIORNALISTA

La cultura digitale, infatti, ha annullato alcuni paradigmi archetipici del giornalismo de-professionalizzandolo (in senso scolastico, deontologico, ordinato), ossia spogliandolo di quell’etichetta di esclusività che lo ha sempre contraddistinto. Il rimando, in questo caso, è abbastanza evidente. Se con i media tradizionali (possiamo definirli media offline) il rapporto creatore/fruitore era decisamente sbilanciato sul primo che si poneva come metamedium (ovvero mediatore dello strumento tecnologico) assoluto, nel caso dei media digitali questo legame trova inaspettatamente un equilibrio stabile. Da qui scaturisce una rimodulazione dei ruoli che, in alcuni casi, destabilizza, sovverte il certo, spalanca spiragli di novità. Si pensi a come negli ultimi anni si sia trasformato totalmente il contesto competitivo di un giornale. Da ristretto, limitato ad alcuni competitors definiti (e quindi riconoscibili e controllabili), si è allargato, ovvero ha sciolto i suoi confini ritrovandosi in un ambiente molteplice e spesso indefinito dove uno youtuber o un account Twitter o Instagram di un influencer (chi sul web fa tendenza, crea seguito) possono fare informazione e opinione in modo più incisivo, con più appeal, in spazi di fruizione più agevoli, giocando con tanti codici e linguaggi, in tempi contratti. Non si dimentichi, inoltre, che in questo vaso di pandora esploso è presente anche il lettore che diventa coautore (prosumer) e quindi, un nuovo, potenziale concorrente. Per sintetizzare: si è passati da un mercato definito nel quale a competere erano i giornali, le redazioni, gli stessi media a un spazio informativo allargato caratterizzato da una molteplicità di interlocutori, ognuno dei quali (può) fa(re) informazione. In un certo senso giornalista e lettore sono diventati concorrenti, ma possono altresì finire per mescolarsi ed evaporarsi da un punto di vista identitario. Lo dimostra anche la decostruzione dilagante di due grandezze costitutive dell’agire giornalistico: il tempo e lo spazio.

IL TEMPO DEL GIORNALISTA

Una delle caratteristiche della cultura mediale è lo sbilanciamento del tempo sul presente. Questo significa considerare la memoria come un optional oppure come un automatismo digitale che ricorda ogni cosa senza selezionare (c’è sempre qualcosa che ci ricorda, c’è sempre un archivio a disposizione, ci sono sempre fonti disponibili da cui attingere) e disinteressarsi di un ciò che sarà. È questo uno dei motivi che certamente condiziona e sbilancia l’impatto dell’informazione sull’oggi sacrificando la memoria e non curandosi del futuro. Questo scenario è evidente nella pratica giornalista quotidiana o periodica. Colui che lavora per un quotidiano scrive per un futuro prossimo. E quando quel futuro diventa presente racconta di un passato prossimo. Si pensi, altresì, a chi scrive per un quindicinale o per un mensile: il racconto del suo presente diventa, in un batter d’occhio, passato remoto. Sono effetti evidenti (e per giunta banali) di una contemporaneità mediale spinta sul presente, ovvero sulla soddisfazione immediata di qualunque bisogno. Compreso quello informativo che è ormai soddisfabile nell’immediato attraverso lo screen del nostro smartphone.

LO SPAZIO DEL GIORNALISTA

Tempo chiama spazio. L’antropologo francese Marc Augè spiega come oggi, tutti gli individui, devono confrontarsi con “una ideologia della globalità senza frontiere, che si manifesta nei più diversi campi dell’attività umana mondiale”. Secondo l’antropologo “sul pianeta si moltiplicano gli spazi di circolazione, di consumo, di comunicazione, rendendo visibile molto concretamente l’esistenza della rete”. Questo scenario da reale è diventato sempre più percepito. Ogni individuo, infatti, ha colto nell’abbattimento delle barriere spaziali un’opportunità di migliorare e ampliare il proprio lavoro. Si pensi al lavoro quotidiano del giornalista e alla scrittura di un pezzo. Il web (potenzialmente) ingloba e sostituisce tutto, annulla l’attesa, moltiplica il ventaglio di interlocutori, elimina (potenzialmente) l’errore, la mancanza, la lacuna, completa la conoscenza. Gli spazi si ampliano, si globalizzano, ma nello stesso diventano indistinti. Lo spazio redazionale classico sparisce, diventa nomade, viandante, itinerante. Alla comunicazione politica, ad esempio, sta sempre più stretto un corsivo, un editoriale su un giornale o un settimanale. Predilige spazi radicali, autopromozionali in cui non c’è il tempo dell’approfondimento, in cui la mediazione è sempre più sfumata, in cui i filtri sono sempre più aperti, in cui la costruzione dell’opinione è sempre più immediata. Si pensi a Twitter diventato in pochi anni (gli ultimi dati rilevano una flessione significativa) il luogo privilegiato della comunicazione politica perché asciutto, chiuso, propenso alla contrapposizione immediata, alle dinamiche del conflitto, all’emozione istantanea, alla reazione di pancia. Lo stesso vale per Instagram che risulta uno spazio crescente di influenza sociale che, attraverso cui un’esperienza foto-ritoccata e una conseguente prospettiva migliorata, determina consenso e gratificazione immediata.

LA LOGICA DEL DIGITAL FIRST

Decostruire spazi e tempi tradizionali incarnandoli in pratiche e formati giornalistici orientati da quelli della Rete sembra l’imperativo funzionale. Lo fa già che nasce giornalista digitale. Lo iniziano a fare i media mainstream come i quotidiani o le redazioni televisive. Lo spiega bene Maurizio Molinari nell’ordine di servizio ai suoi giornalisti, diventato ormai un caso di scuola.

PER CONCLUDERE: VIZI PUBBLICI E VIRTÙ PRIVATE DELL’INFORMAZIONE

Un vecchio adagio popolare recita così: “Fai come il prete dice, ma non come il prete fa”

La conclusione di questo contributo parte proprio dall’incoerenza dilagante di un universo informativo che risulta caotico e turbolento alla luce del presente digitale. Un giornalismo che spesso predica bene ma che può razzolare male, cedendo alle tentazioni di un consenso prêt-à-porter, di contenuti snackable e acchiappaclick. Alla luce di questo scenario, il giornalismo all’arsenico e vecchi merletti, del tempo che fu, delle macro redazioni alla Quarto (giornali) e Quinto Potere (la televisione), difficilmente potrà tornare. Si tratterà di casi isolati, a tempo determinato, legati al finanziatore di turno o all’iniziativa personale di gruppi di giornalisti. Lo spiega in modo illuminante l’economista Julia Cagè quando auspica (per scongiurare la morte dei media informativi) a nuovi modelli di governance e di finanziamento, tali da consentire ai mezzi di informazione di evitare di diventare preda di miliardari in cerca di potere. La studiosa francese propone per i media un nuovo modello associativo, una organizzazione no profit a metà strada tra una fondazione e una società per azioni. Solo così – spiega – si potrà garantire indipendenza, ci si potrà svincolare dal sistema degli aiuti di stato, si potrà conferire un potere decisionale ai “lettori, agli ascoltatori, ai telespettatori, ai giornalisti, garantendo una riappropriazione democratica dell’informazione per chi la fa e per chi la consuma. Non manipolata da chi vuole fare opinione. Non manipolata da chi detiene un capitale sufficiente per influenzare i nostri voti e le nostre decisioni”.

Il cambiamento però, oltre che strutturale, riguarda in primis la forma mentis giornalistica. È necessario ristabilire priorità e punti fermi della professione sfatando anzitutto quel mito che vede il passaggio al digitale come l’unico tentativo di svolta, la soluzione olistica dei problemi. Questo approccio è, per certi aspetti, limitante e non tiene conto della naturalizzazione (e normalizzazione) che riguarda anche il rapporto tra informazione e società: “l’aspetto più evidente del vivere contemporaneo è la fine dei dispositivi mediali che aveva caratterizzato la modernità»12. Oggi, infatti, non è più possibile stabilire con chiarezza cosa è mediale e cosa non lo è, né si può definire quando entriamo in una situazione mediale e quando ne usciamo. […] I media sono ovunque. L’evoluzione del giornalismo è l’esempio perfetto di questo cambio di paradigma epico che si fonda su tre concetti bene espressi dal semiologo dell’Università Cattolica: naturalizzazione, soggettivazione e socializzazione. Si pensi a come le pratiche giornalistiche siano sempre più connaturate alle nostre esistenze quotidiane ed incentrate su uno sguardo soggettivo, su un punto di vista “ipersonale”13 e sempre più condivise e socializzate con altri. L’informazione oggi è anche questo: un infinito processo di notiziabilità dell’esistente, nel quale ogni fatto è potenzialmente raccontabile, indipendentemente dal suo valore di notizia. Un meccanismo che prescinde sempre più spesso dalle norme deontologiche per riaffermarsi in modo imperscrutabile, inintercettabile. Prenderne coscienza uscendo dai labirinti dell’autoreferenzialità è il primo passo per non deturpare la bellezza di una professione che fa del racconto autentico il suo fondamento più robusto.

I rischi sono di questa mancata comprensione sono molteplici. Se ne individuano tre principali sintetizzati in altrettanti passaggi.

  1. Da esclusivi ad esclusi
  2. Da identitari a identici
  3. Da opinion leader (e maker) a opionion slave

Il giornalismo è sempre stato un mestiere elitario. Chi deteneva le redini dell’informazione ha da sempre goduto di privilegi a diversi livelli. Il tesserino è sempre stato una sorta di passe-partout sociale. Oggi questa esclusività rischia di disperdersi nel disordine digitale e di trasformarsi in esclusione. Diretta conseguenza della potenziale esclusione è la perdita dell’identità di un mestiere considerato “eletto”. Il giornalista ha sempre avuto una connotazione identitaria ben evidente, esercitando un potere rilevante a livello sociale, distinguendosi per i suoi ruoli e le sue funzioni e differenziandosi per i temi trattati. Oggi gli spazi digitali rischiano di renderlo indistinto, incapace di caratterizzarsi rispetto a ciò che gli somiglia sempre più. Nello stesso tempo, la restrizione delle garanzie contrattuali ed economiche riducono in modo esponenziale la sua libertà di espressione indebolendo altresì la sua capacità generativa, la sua curiosità individuale e la sua propensione all’originalità e all’approfondimento. Rischio reale è ritrovarsi giornalisti in serie piegati alla schiavitù dell’audience, al numero di copie vendute (sempre meno, purtroppo) e ai click, like e visualizzazioni. E un escluso e un unknow (senza identità) non può che ridursi a diventare schiavo: dell’opinione dominante, della vulgata pseudo-rivoluzionaria, del capopopolo di turno, del contenuto più scioccante, di una estetica immorale e di tutto ciò che può dare linfa vitale al suo prodotto editoriale, mentendolo in vita forse, ma svuotandolo della sua capacità di creare opinione. Il legame tra informazione e società di gioca su queste minacce che possono diventare, però, anche sfide e opportunità importanti. Essere uomini, giornalisti, professionisti mediali significa anzitutto intercettare il latente, l’incerto, gli assiomi della contemporaneità. Significa ristabilire un legame equilibrato con le grandezze sociali più importanti come lo spazio, il tempo e l’identità. E anche condividere pratiche culturali ad hoc fondamentali per agire giornalisticamente in modo efficace ed efficiente. Non è un’operazione facile. L’umanità è per definizione instabile, tende all’autocompiacimento, alla distrazione, alla stanchezza. Per questo anche chi fa informazione deve essere protagonista di un percorso educativo. Che non fa riferimento alle mere competenze giornalistiche (le cosiddette “basi del mestiere”) ma a una graduale presa di coscienza delle proprie “qualità superiori” (Pier Cesare Rivoltella le chiama “virtù del digitale”) adottando costumi esistenziali come l’etica della professione, il gusto per la libertà di opinione, l’intelligenza dell’approfondimento, la ricerca della verità e la sua successiva affermazione. Sono queste le basi per un giornalismo che abbandoni il suo ruolo novecentesco di “powerful media” per vestire quello di “service media” (media in the service of). Soltanto così questo nobile mestiere (il giornalista della Gazzetta dello sport Luigi Garlando lo definisce “il mestiere più bello del mondo”, nonostante per alcuni sia sempre meglio che lavorare) potrà scongiurare l’estinzione e (ri)diventare una professione dotata di saggezza, ovvero di quella capacità di trovare soluzioni pratiche, creative, appropriate al contesto ed emotivamente soddisfacenti a problemi umani complessi. In conclusione, per ristabilire un sano impatto dell’informazione sulla società la strada da percorrere è quella della costruzione di una “digital journalism skillness”, ovvero di ciò che Ryzard Kapuscinski, parlando del proprio mestiere, chiamava il “Pianeta della Grande Occasione”: un’occasione non incondizionata, ma alla portata solo di coloro che prendono il proprio compito sul serio, dimostrando automaticamente di prendere sul serio se stessi. Un mondo che se, da un lato, offre molto, dall’altro chiede anche molto e dove cercare facili scorciatoie significa spesso non arrivare da nessuna parte.

Non è giornalismo se non lo vivi sulla tua pelle

Micaela Palmierigiornalista e conduttrice del TG1 Rai

“Ho deciso di fare la giornalista il 12 settembre del 2001. L’ho deciso veramente solo quel giorno. Fin da piccola ho avuto il desiderio di diventare un medico, poi ho pensato che diventare giornalista come lo intendevo io forse equivaleva a cercare di salvare la vita alle persone e curare le loro malattie, quelle dell’anima. Un buon giornalista, dal mio punto di vista, deve servire a questo, deve essere questo. Quindi ho preso la mia decisione: diventare giornalista dopo l’11 settembre del 2001, uno di quei giorni che ha cambiato per sempre le vite di tutti, lo sappiamo. E la scelta l’ho fatta leggendo avidamente, fin nei dettagli, il Corriere della Sera, gli articoli, gli editoriali, i fondi di quel 12 settembre dopo l’apocalisse. Quello che accese la mia passione fu Indro Montanelli, il suo modo di raccontare ricordo che rapì totalmente la mia attenzione. E così fu anche per Oriana Fallaci. Raccontò di aver assistito al momento della tragedia da casa sua a New York cercando di spiegare lo stato d’animo di una città ferita nel profondo. Ho pensato che fossero persone che spalmavano pomate su anime distrutte: le nostre. E così capii cosa volevo essere. In quel momento la mia anima la stavano curando e io volevo fare lo stesso. E con questa convinzione che- credo- solo la passione può darti veramente, ho cominciato il mio lavoro, negli anni. Tentando di vedere con i miei occhi, di conoscere le persone di cui poi raccontare le storie, le vite, i bisogni, le ingiustizie. Di ascoltare quello che accadeva, ciò che le persone mi raccontavano e poi narrarlo a mia volta. Ho sempre cercato, nelle varie redazioni in cui sono stata, di proporre servizi che potessero in qualche modo risvegliare le coscienze, che riuscissero perlomeno a smuovere situazioni paludose e immobili che potevano essere sbloccate anche solo parlandone, non lasciandole inascoltate.

È stato così per il bosco di Rogoredo di Milano. L’inchiesta che ho realizzato è nata quasi casualmente. Faccio spola tra Roma e Milano da anni e la stazione più comoda per arrivare a casa mia nel capoluogo lombardo è appunto Rogoredo, una delle stazioni più importanti di Milano. Mentre aspettavo il treno mi capitava sempre più spesso di vedere eserciti di ragazzi, alcuni veramente molto giovani, che con occhi sbarrati e aria smarrita, si aggiravano e chiedevano soldi, a volte anche in maniera molesta. All’ennesimo episodio cui ho assistito, volevo capire cosa stesse accadendo. Ho un caro amico che vive in zona e ho chiesto a lui, era tutto troppo strano. Mi aprì gli occhi. Mi raccontò ciò che ormai da tempo accadeva a non più di 200 metri dalla stazione, in quello che era chiamato “il boschetto”, una zona grande circa 60 campi da calcio infestata dallo spaccio e da ragazzi, ragazzini, alcuni poco più che bambini schiavi dell’eroina. Ricordo ancora la prima volta che ci andai. Sporcizia ovunque, siringhe che ricoprivano il terreno, puzza di marciume misto a cenere dei fuochi accesi ovunque. Tronchi abbandonati in mezzo al nulla. Tende di plastica affastellate ovunque. Sotto a una tenda grande c’erano 15-20 ragazzi. Alcuni con la testa che penzolava da un lato, altri ancora con la siringa ancora piantata nel braccio. Ecco, io penso che se non vedi una scena così shoccante con i tuoi occhi tu non possa renderti conto davvero di ciò che accadeva in quel luogo. Ci sono tornata tante volte negli anni e ho cercato di dare una mano a quella distruzione, oltre che a raccontarla per cercare di svegliare le istituzioni che stavano a guardare o perlomeno non intervenivano come avrebbero dovuto. Nel tempo ho visto le cose cambiare. È stato istituito un presidio medico davanti al bosco, vicino alla stazione, per aiutare i ragazzi che avevano malori e questo fu già un traguardo per evitare le morti in seguito a overdosi, poi le istituzioni in una task force con le forze dell’ordine hanno cambiato la situazione. Molti ragazzi tramite i volontari si sono disintossicati, hanno deciso di andare in comunità e provare ad abbandonare quell’inferno in cui erano piombati. Credo che veder cambiare la situazione a Rogoredo sia stato uno dei momenti più belli del mio percorso di lavoro. E mi sono sentita ripagata di tanti sacrifici. Oggi il problema non è ovviamente risolto ma credo di aver dato anche solo un minimo apporto perché la situazione sia cambiata.

E qui concludo, tornando al senso del mio intervento: non è giornalismo se non lo vivi sulla tua pelle. L’ho voluto intitolare così, perché così è sempre stato per me, al bosco di Rogoredo e ovunque sia stata per raccontare storie, narrare fatti, cercare di risvegliare le persone. Non è giornalismo se non provi a cambiare le cose, denunciandole.

Gli anglosassoni dicono che i giornalisti dovrebbero essere i ‘cani da guardia del potere’. Forse dovremmo ricordarcelo di più. Cantare fuori dal coro non è facile ma quando lo faccio io mi sento sempre migliore”.

 

Giornalismo che va, vede, ascolta: la modernità del messaggio del Papa

Paolo Ruffini – Prefetto del Dicastero vaticano per la Comunicazione, già direttore di Rai 3 e del Giornale Radio

 “Penso che starò nei tempi, forse sarò anche un po’ più breve, lo spero, perché non voglio annoiarvi. La mia non sarà una vera e propria relazione. Ho provato a buttare giù qualche appunto, come una testimonianza sul ruolo e sulla forza delle immagini per raccontare: questo è il tema che Raffaella (Restaino, madre di Alessandra e tra i promotori del Premio giornalistico, ndr.) mi ha affidato. Sappiamo tutti, l’importanza che le immagini hanno nel racconto di quello che siamo. Viviamo nella società dell’immagine, siamo tessuti di immagini e forse anche riguardo al modo in cui le immagini costruiscono il nostro immaginario personale e collettivo potremmo dire che noi siamo quello che mangiamo. Nel lavoro di informazione e di comunicazione dobbiamo per forza fare i conti con le immagini. Le immagini ci parlano, le immagini ci feriscono, le immagini ci svegliano, a volte ci anestetizzano, a volte svelano e a volte confondono. Non sempre sono vere, a volte sono false. Questa poi è una parte del ruolo di giornalisti che noi dobbiamo fare: discernere quali scegliere e quali no, quali tramandare e quali no. La foto abbinata ad un articolo non è solo un’esca, qualcosa che attira l’attenzione. A volte è la prima cosa che uno vede, ma spesso è anche l’unica … e può quindi nel bene o nel male farsi veicolo di un messaggio errato: vale per le foto, vale per le immagini, vale per le immagini in movimento e vale per l’audiovisivo. Ci vuole, quindi – per amore della verità e per una corretta informazione – altrettanta attenzione nella scelta delle immagini di quanto non ne mettiamo nella scelta delle parole … e ci vuole un sovrappiù di attenzione, come sappiamo, per le persone coinvolte, soprattutto quando si tratta dei minori o delle persone disabili o vulnerabili. Senza piena sintonia tra parole e immagini rischiamo di avere immagini che senza la parola sono mute o parole che senza le immagini sono secche. Le immagini alla fine rivelano il nostro sguardo. Ho provato a pensare ad alcune delle immagini di cui potevo provare a parlare oggi. Tutti noi credo che ricordiamo le immagini che hanno segnato la nostra storia personale, recente e collettiva. Credo che tutti noi ricordiamo, per quanto riguarda la storia recente, le immagini di Papa Francesco, l’anno scorso, un anno e mezzo fa in una piazza San Pietro terribilmente vuota, battuta dalla pioggia. Era il 27 marzo dell’anno scorso. Gli squarci di luce, il Papa che pregava, il suono delle sirene che rompeva il silenzio, il mondo intero che guardava il Papa avviarsi lentamente, a piedi, verso il sagrato. Le gocce che scorrevano sul volto e sul corpo del Crocifisso. Quelle immagini hanno intessuto una reazione potente, quasi una soggettiva dello sguardo del Cielo sugli uomini. Quelle immagini sono state fatte da colleghi giornalisti, fotoreporter, operatori. Esistono poi immagini che non sono neanche foto, sono immagini create da pittori, che la realtà anche la trasfigurano e che a volte possono essere utili anche a chi fa informazione e chi fa comunicazione, in questo caso sono stati utili all’Osservatore Romano che come sapete è uno dei media della Santa Sede e che quindi in qualche modo fa parte dell’universo che mi tocca coordinare in questo periodo. Anche queste immagini possono avere una forza dirompente. Quest’anno nel giorno del Giovedì Santo l’Osservatore Romano ha pubblicato un dipinto che ci era arrivato da un pittore dilettante francese che racconta lo scandalo della misericordia e che illustra pensiero che fu di don Primo Mazzolari, parroco lombardo del secolo scorso, un pensiero sul tradimento: “… e se fosse che Gesù tradito, Gesù che chiama amico Giuda mentre lo tradisce, lo avesse perdonato?”.  Il quadro racconta Gesù resuscitato che abbraccia Giuda suicida per portarselo in cielo … e don Mazzolari diceva: “Lasciate per un momento che io pensi al Giuda che è dentro di me, che è dentro di voi e lasciate che io domandi a Gesù di accettare che ci accetti come siamo. Io non posso non pensare – disse in questa sua omelia straordinaria del Giovedì Santo – che anche per Giuda e il suo povero cuore la Misericordia di Dio non abbia fatto strada. Forse all’ultimo momento, ricordando quella parola, amico, e la accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse è il primo Apostolo che è entrato in Cielo insieme al Ladrone, in un corteo che certamente non pare faccia onore al Figliuolo di Dio come qualcuno lo concepisce. Ma questa forse è la Misericordia. Ecco, questa è una storia di morte e di Risurrezione che possibile raccontare per immagini. Ho portato qua, non so se riuscirete a vedere, la prima pagina dell’Osservatore di quel giorno con questo quadro. L’ho raccontata anche perché mi pare che questa immagine forse può essere contrapposta alla cultura della gogna mediatica e può aiutarci a dirci quanto, appunto, dobbiamo stare attenti nella scelta delle immagini, perché la storia ha un dinamismo che le immagini se le trasformiamo in gogna possono non avere. Questa capacità simbolica e contemplativa a volte è propria degli artisti, che cercano di scoprire l’essenziale oltre le apparenze. Ma a volte può servire anche a chi fa informazione. Questo convegno ci parla anche di nuovi linguaggi. I nuovi linguaggi, appunto, contaminano. In un suo bellissimo film sui senza fissa dimora – quindi, un documentario – un regista italiano, Corrado Franco ha raccontato per esempio per immagini il funerale di un barbone romano … si chiama “Al di qua”, un documentario bellissimo, per chi non lo avesse visto lo consiglio … in un cortometraggio portato a Venezia l’anno scorso una regista italiana, Alice Rohrwacher ha messo in scena il funerale della terra raccontando una coltivazione troppo intensiva di noccioleti nell’orvietano, chiudendolo con un epitaffio che sa di Risurrezione, dicendo: “Ci avete seppellito ma non sapevate che eravamo semi”, regalandoci una speranza che non è fondata su un intimismo di maniera, ma sulla capacità di leggere i segni dei tempi e di chiamare all’azione di semina le persone di buona volontà anche attraverso la comunicazione, perché – come si diceva prima – la comunicazione e l’informazione sono anche formazione. Poi c’è un altro genere di immagini: quelle che ci impediscono di dire “non sapevo, non potevo sapere, io non c’ero”: tutti ricordiamo le immagini dei carrarmati a Praga, quella del bambino che porta sulle spalle il corpo senza vita del fratello ucciso in guerra o di Kim Phúc, la bambina vietnamita che fugge dal fuoco del napalm che le aveva strappato i vestiti o anche le immagini del piccolo Alan Kurdi. Tutti noi verifichiamo ogni giorno le immagini nel bene e nel male e tocchiamo con mano quanto difficile sia l’esercizio della libertà, decidere cosa pubblicare e cosa no, perché le immagini possono restituire un senso al racconto, oppure possono davvero confonderci. Possono essere false e rovesciare persino il senso delle cose o coltivare una sorta di voyeurismo estetico del male. Possono essere uno schiaffo che ci risveglia dal torpore o uno schiaffo che ci dice “come fai a non vedere però?”. Come si fa allora a capire? L’Osservatore Romano pubblica ogni giorno – da quando abbiamo un po’ rivisto la sua veste grafica – una grande foto in prima pagina. Lunedì 17 maggio il direttore e la redazione dell’osservatorio Romano hanno deciso di pubblicare una foto che la settimana prima avevano pensato fosse più giusto non pubblicare. Lo hanno fatto dopo un appello del Papa a fermare lo spargimento di sangue innocente. Non è stato facile, ma la decisione sofferta si è fondata sul fatto che le parole le abbiamo a volte consumate tutte e che a volte davvero per capire dobbiamo vedere, dobbiamo vedere l’orrore. Quella scelta fu spiegata da un editoriale che adesso vorrei leggervi, perché racconta il perché di questa difficoltà di scegliere questa foto, che ora vi mostro: sembra quasi un quadro ma si tratta di una foto di mamme che piangono bambini, che piangono bambini uccisi dai bombardamenti”.

RUFFINI LEGGE L’EDITORIALE

“Quella che vedete nella prima pagina è una foto scioccante, un pugno sullo stomaco. Pubblicarla oggi è stata una scelta sofferta. Non è una foto di ieri o di oggi: è uno scatto della scorsa settimana. Quando l’avevamo vista è stata oggetto di riflessione e di una certa discussione. Andava pubblicata una fotografia con i volti riconoscibili e strazianti di due bambini distesi nella barella sotto gli sguardi disperati dei loro genitori? La settimana scorsa avevamo deciso di non metterla in pagina. Ma domenica 16 maggio a Regina Coeli implorando la pace, Papa Francesco ha parlato della morte dei bambini definendola inaccettabile. Loro, le vittime inermi e incolpevoli della guerra e della violenza sono i piccoli dai corpi martoriati. A Gaza in Israele, ma anche nello Yemen, in Siria e Iraq, in Afghanistan e nelle tante guerre dimenticate in Africa. Sono i corpi straziati dei piccoli migranti annegati cercando di attraversare un fiume o il mare aperto in cerca di salvezza e di futuro. Sono i corpi straziati dei bambini violentati e venduti ai trafficanti di esseri umani. Sono i corpi straziati dei bambini vittime del lavoro minorile. Chiediamo scusa ai lettori per questa foto choc. Ma le morti dei bambini sotto le bombe a qualsiasi popolo appartengano non ci possono lasciare indifferenti. Ci testimoniano ancora una volta che la guerra porta solo morte, distruzione e odio. Come insegna la drammatica esperienza dell’Iraq, i bambini pagano il prezzo più alto delle nostre sporche guerre e questo è inaccettabile e per capirlo veramente, scuotendoci dal torpore e dalle bolle dell’indifferenza dentro le quali spesso viviamo abbiamo spesso, purtroppo, bisogno di vedere”.

RUFFINI RIPRENDE IL SUO INTERVENTO DOPO AVER LETTO L’EDITORIALE

“Le immagini di cui abbiamo bisogno, allora, sono quelle che muovono il dinamismo della storia … e allora, visto che anche questo convegno in qualche modo richiama il messaggio di Papa Francesco per la comunicazione e visto il ruolo che oggi rivesto mi piaceva concludere questo mio intervento citando, questa volta, un brano del messaggio di Papa Francesco del 2020. Un messaggio che dice come tutti noi abbiamo bisogno di storie che nutrano la nostra anima e come le storie hanno bisogno di immagini per nutrirsi. L’uomo – adesso cito il Papa e chiudo – è un essere narrante. Le storie influenzano la nostra vita anche se non ne siamo consapevoli. Spesso decidiamo che cosa sia giusto o sbagliato in base ai personaggi e alle storie che abbiamo assimilato. I racconti ci segnano, plasmano le nostre convinzioni e i nostri comportamenti. Possono aiutarci a capire e a dire chi siamo. L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità. Ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi e di vestirsi di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti. Infatti la capacità di tessere conduce sia ai tessuti che ai testi. Le storie di ogni tempo hanno un telaio comune, la struttura prevede degli eroi, anche quotidiani, che per inseguire le situazioni difficili combattono il male sospinti una forza che li rende coraggiosi: quella dell’amore. Immergendoci nelle storie possiamo ritrovare motivazioni, anche eroiche, per affrontare le sfide della vita. Queste storie si raccontano anche con le immagini. Grazie”.

 

 

 

 

 

 

Il capitale nascosto del paese – Ferruccio de Bortoli

Ferruccio de Bortoli – Giornalista, già direttore del Corriere della Sera e de IlSole24ore

“Sono onorato di poter intervenire in questa occasione, nell’ambito della cerimonia di consegna del Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia. Nella mia relazione vorrei sottolineare l’importanza di un giornalismo che vada a vedere, ascolti, comprenda tutte le situazioni … che si metta nei panni degli altri, anche di coloro che possono essere in un momento troppo distanti da quelle che sono le fonti di informazione classiche; vorrei cioè rivalutare fino in fondo la straordinaria importanza del lavoro del cronista; pur con le nuove tecnologie straordinarie che consentono – ma spesso ingannano – di capire le cose a distanza, un cronista moderno ha bisogno di rendersi conto, di vedere con i propri occhi, di ascoltare la voce delle persone coinvolte, di mettersi – come dicevo – nei panni degli ultimi, degli sconfitti, anche di quelli che sono ai bordi, che sono accusati di qualcosa.

È una forma di attenzione alle persone, senza pregiudizi, nel tentativo di capire e quindi di nutrire lo spirito critico di un’opinione pubblica che spesso, anche in una fase di diffusione disordinata e di nuove colate dei social network, può essere formata da persone che, magari riunite da algoritmi pensano soltanto in una direzione, vanno soltanto nella direzione di una ricerca di informazioni che corroborino le loro opinioni, se non i loro pregiudizi.

Questa funzione del cronista è stata prima molto bene sottolineata da Carlo Verna, da Paola Spadari e dagli interventi che si sono succeduti (durante i saluti istituzionali che hanno preceduto l’inizio del corso-convegno, ndr). Il capitale sociale di questo Paese è straordinariamente vasto e profondo. Insisto sempre su questo aspetto, perché comunque anche e soprattutto nel corso della pandemia, che non è ancora finita purtroppo, abbiamo visto quanto siano importanti le relazioni personali, quanto siano decisive le comunità – anche le più piccole – e come vi sia stata una grande forma di solidarietà. Il 60 per cento degli italiani ha donato qualcosa agli altri in difficoltà. Ma soprattutto gran parte degli italiani – e questo è un piccolo primato che il nostro ha rispetto agli altri Paesi con i quali si confronta spesso in termini negativi – ha donato il proprio tempo a favore degli altri. Questa constatazione sul capitale sociale nascosto del nostro Paese è di una straordinaria importanza. Ecco perché, noi abbiamo il dovere di raccontare questo capitale sociale, abbiamo il dovere di valorizzare le buone pratiche, che sono tante, che tra l’altro nella solidarietà e nel volontariato non c’è poi neanche tanta differenza tra zone e regioni del nostro Paese (come le differenze ampliate di reddito lascerebbero supporre), a dimostrazione di come nella storia del carattere degli italiani, quando si ha poco si valuta in maniera diversa il rapporto con gli altri  e si dà un valore diverso al bene comune. Mi auguro che questa pandemia ci porti a raccontare meglio, di più, il bene comune.

Qui dobbiamo fare, però, una piccola sottolineatura. Abbiamo bisogno di giornalisti che raccontino il sociale, abbiamo bisogno di persone che raccontino il bene, che lo raccontino bene e anche in una forma avvincente, perché voi sapete – soprattutto chi, come il sottoscritto, ha fatto un po’ di cronaca nera – che i vecchi capi cronisti dicevano (non soltanto loro perché c’è anche una vasta letteratura in proposito) che addirittura c’è più romanzo nel male che nel bene. Ma no, non è così. C’è più romanzo nel bene, ma si tratta di raccontarlo bene, così come sul versante del volontariato e di chi si occupa di questioni sociali, quel bene va fatto bene. Il giornalista può essere estremamente utile non solo nel raccontare quello che sta accadendo, ma anche nel raccontarlo mantenendo la sua indipendenza di giudizio, la sua freschezza nell’approcciare una serie di temi, nel raccontare anche ciò che non va bene, pure laddove si fa del bene, perché questa è la funzione di un cronista. Il sociale non ha bisogno di cantori acritici. Qui dobbiamo uscire un po’ da questo equivoco. Guardate, c’è l’equivoco che quando si critica una determinata operazione, una determinata attività, sembra quasi che ci si opponga al fatto che si stia comunque facendo del bene. Ecco, però, quel bene deve essere fatto senza sprechi, raggiungendo le più importanti sinergie, cercando di dilatare il più possibile l’offerta del bene. Io la chiamo “dividendo del bene”. Ma per fare questo bisogna essere molto attenti a sottolineare e a criticare. Guardate, quando c’è una critica non c’è una mancanza di rispetto nei confronti di chi si sta dando da fare per gli altri. È una forma di attenzione critica, ma di grande rispetto nei confronti di tutti coloro che siano impegnati in una associazione di volontariato. Questo vale per l’ambito cattolico, così come vale per l’ambito laico. In Italia ci sono quei sei o sette milioni di persone che sono impegnate in operazioni di volontariato, nel fare del bene. Un milione di persone ha un posto di lavoro che è legato al terzo settore, ci sono 350 mila organizzazioni. Allora, non solo dobbiamo evidenziare la funzione civile e la centralità in Paese democratico di cronisti indipendenti, preparati (mi è piaciuta per esempio la sottolineatura sulla formazione), ma dobbiamo anche uscire dall’equivoco che il racconto del bene debba essere, sempre, un racconto acritico. No, deve essere, come è giusto che sia per ogni buon giornalista, un racconto critico, perché il terzo settore non è un semplice soggetto sussidiario dell’intervento pubblico, non è neanche un (punto) dello Stato nella gestione dei servizi, così come il privato sociale non può essere un prolungamento di forme di mecenatismo … e ce ne sono tante nella nostra società. A volte sono sicuramente virtuose, sono la proiezione di testimonianze, di slanci generosi, però a volte sono, se posso dire, un po’ troppo attente al ritorno di immagine. E dobbiamo fare attenzione a non privilegiare alcune attività – faccio solo un esempio di come potrebbe essere importante la funzione del cronista – che sono soltanto dirette per avere un ritorno di immagine, parlo del privato sociale, del mecenatismo, di molte persone che si danno comunque da fare. Beh, insomma, alcuni bisogni danno un ritorno di immagine superiore, altri bisogni ben più gravi, rischiano di essere trascurati, perché non danno un ritorno di immagine. Questo lo vediamo in molte attività. Certamente dà un ritorno di immagine superiore occuparsi del patrimonio artistico, ne dà molto di meno occuparsi di immigrati, di integrazione, oppure per esempio occuparsi di minori che vanno strappati dal carcere, portati in comunità e allontanati dal rischio di recidiva. Penso che il cronista del sociale debba essere un cronista attento anche a segnalare le criticità di un mondo straordinario, fantastico, diffuso, profondo, ricco, ma che ha dei difetti. A volte per esempio, voi sapete che molte delle attività sono legate a dei dolori personali e familiari e che producono tantissime associazioni, in ricordo di persone che non ci sono più. Sono testimonianze non solo di dolori personali, ma anche della voglia di ricordare i propri cari nel fare qualcosa per gli altri. Ma anche la generosità può essere irrazionale, può essere contraria al raggiungimento degli scopi statutari di una determinata associazione: allora questo può essere un limite. Raccontare queste realtà vuol dire farle crescere insieme. Un altro dei difetti del mondo del sociale – poi ne enumereremo naturalmente i tantissimi pregi – è il fatto che difficilmente si fanno sinergie. Ognuno è geloso della propria piccola – anche se preziosissima – attività. Ma quello che stiamo vivendo, i nuovi bisogni e le nuove povertà relative e assolute hanno bisogno di associazioni che si mettano insieme e che magari rinuncino al proprio nome, ma che aumentino il dividendo del bene: questo è fondamentale che accada. L’altro aspetto che volevo sottolineare è che un donatore non vuole disperdere il proprio gesto di bontà e quindi deve pretendere la massima trasparenza e la massima efficienza dalle associazioni e dalle organizzazioni del cosiddetto terzo settore. Il donatore, infatti, a differenza del finanziatore che mette in conto la perdita del proprio capitale, non accetta l’idea che il proprio contributo possa finire in strutture assolutamente inefficienti. Il racconto del sociale deve essere fatto da cronisti attenti, che danno il cuore svolgendo il mestiere fino in fondo, ma che devono avere qualche volta la freddezza di distaccarsi un po’ dalla vicenda. Il cronista, se infatti è troppo prigioniero della propria emotività, finisce con il far male il proprio mestiere, per essere totalmente riassunto dal fatto che vuole descrivere. È utile la figura del giornalista che mantiene una certa freddezza, che rimane professionista anche quando il suo cuore è coinvolto, quando partecipa emotivamente e condivide in pieno le finalità di un’associazione, ma che continua a svolgere il proprio mestiere. Se non intende questo tipo di dimensione e questo tipo di distacco diventa totalmente inutile come giornalista. Può essere, certo, una parte di una associazione di cui condivide le finalità. Benissimo! Ma è un altro mestiere, un’altra condizione dell’essere umano e del cittadino. Questo esempio che riguarda il capitale sociale, vale a maggior ragione anche per le altre attività umane. Vorrei alla fine, proprio per questo, spezzare ancora di più una lancia sull’utilità del cronista, che si mette nei panni anche degli altri, cerca di guardare al fatto che deve descrivere anche mettendosi da un punto di osservazione diverso. Oggi noi, anche grazie ai social network e grazie alla straordinaria tecnologia che abbiamo a disposizione rischiamo però di guardare tutti i fatti dallo stesso punto di osservazione, di avere uno spirito critico assai modesto e di essere un po’ confusi nell’onda di piena che si stabilisce magicamente nella giornata, nel flusso delle informazioni, delle opinioni e delle tendenze. Dobbiamo invece cogliere l’occasione di descrivere quanto sia importante il capitale sociale in questo passaggio storico importante per il nostro Paese. Guardate, il capitale sociale italiano è così vasto, profondo, utile e diffuso che probabilmente rappresenterà un vantaggio competitivo per il nostro Paese nel passaggio ad un’economia diversa, ai temi dell’inclusione, della sostenibilità non solo ambientale ma sociale. Ancora di più, però, se questo capitale sociale è così importante, fondamentale per il nostro futuro – e non soltanto per far fronte alle necessità e ai dolori e per rendere possibili gesti di amore e anche di testimonianza di memoria del bene, come nel caso del vostro Premio giornalistico – bene, a maggior ragione abbiamo bisogno di cronisti attenti, che descrivano bene, che siano indipendenti, anche distaccati, ma non freddi, perché così si riesce naturalmente a rendere conto all’opinione pubblica di quello che sta accadendo, in modo che si possa avere un’opinione corretta, avvertita, responsabile, critica, che forse si apprezzerà ancora di più e molto di più – e questo è un messaggio straordinariamente positivo soprattutto per i ragazzi che ci stanno ascoltando (la conferenza è stata trasmessa anche online, ndr.) – che il nostro è un bellissimo mestiere, ma che è anche una missione civile, indispensabile, irrinunciabile, importante. Grazie”.