L’alfabeto della fragilità – Fabio Zavattaro

Fabio Zavattaro, Direttore Master in Giornalismo, Università LUMSA

L’alfabeto della fragilità

“Andrà tutto bene!

Ricorderete tutti queste parole quasi esercizio per esorcizzare la paura del contagio, di finire in un reparto di terapia intensiva o, più semplicemente in un corridoio di ospedale. Da quelle parole, dall’inizio della pandemia, scoppiata in Cina alla fine del 2019, e da noi il 9 marzo 2020, o forse dovremmo dire 21 febbraio, Codogno, Lodi, il paziente uno, ci siamo sentiti quasi aiutati nella ricerca della luce in fondo al tunnel. Andrà tutto bene continuavamo a dire mentre cresceva il numero dei morti, dei contagiati, dei ricoveri, e anche delle polemiche da parte di chi negava l’efficacia dei vaccini per combattere il covid.

A questo punto poniamoci la domanda: è andato davvero tutto bene? Due cifre soltanto: dall’inizio della diffusione del Covid vi sono stati oltre 21 milioni e 100 mila contagiati, e, purtroppo, 172.397 morti. Quanto abbiamo discusso, un po’ tutti, sulla fragilità delle persone che hanno perso la vita a causa della pandemia, quasi a trovare una sorta di tranquillizzante giustificazione: sono in buona salute, non ho patologie più o meno gravi, e dunque rischio di meno. Con il tempo, i vaccini, e le attenzioni la curva dei contagi, i ricoveri sono scesi e abbiamo tutti turato un sospiro di sollievo.

Andrà tutto bene!

Poi, il 24 febbraio di quest’anno, la Russia invade l’Ucraina, a otto anni dalla precedente crisi scoppiata con l’allontanamento del presidente filorusso, un allineamento occidentale del nuovo governo ucraino, l’occupazione della Crimea e le prime proteste nel Donbass. Così abbiamo iniziato a scoprire nuove fragilità; abbiamo imparato a conoscere i bambini e i malati in terapia costretti a sfidare la sorte, assieme a medici e infermieri, nella speranza che missili e bombe non arrivassero a colpire l’ospedale.

Voi direte che sto andando fuori tema, che c’entra la guerra – ops, operazione militare speciale – con la fragilità? O forse dovremmo dire che proprio le persone fragili, sofferenti sono ancora più fragili in un conflitto che non risparmia ospedali e centrali nucleari; proprio queste persone sono ancora più fragili anche di fronte a una pandemia che, nonostante i vaccini, è ancora in agguato. E poi ci sono i poveri e i nuovi poveri, il cui numero è cresciuto di 6 milioni rispetto al 2021, e il 57 per cento degli italiani, secondo il rapporto Coop 2022, rischia di non riuscire a pagare l’affitto. Infine, ci sono coloro per i quali le limitazioni fisiche e psichiche sono compagni di vita, nel nascondimento di una abitazione o di una casa di cura. Storie che non vengono raccontate, che noi giornalisti non raccontiamo, se non saltuariamente, perché non fanno notizia. Poi leggiamo, troviamo articoli su chi ha scelto di mettere la parola fine alla propria esistenza, l’ultimo Jean-Luc Godard, o chi, dal silenzio del proprio letto, ci manda, sulle pagine di un quotidiano, una riflessione che ci provoca, che chiede il rispetto della sua esistenza, anche se segnata da malattie e sofferenze.

La prima parola di questo alfabeto della fragilità – ammalarsi – la lascio alla penna di un nostro collega malato di sla. Non faccio il suo nome perché non gli ho chiesto il permesso di citarlo in questo mio intervento, e perché, in fondo, è come se attraverso la sua voce arrivassero a noi le voci di tanti come lui costretti all’immobilità e la cui vita dipende da alcune macchine che devono restare accese 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno.

Risponde, il nostro, a una donna che vorrebbe interrompere la sua esistenza. Il suo corsivo anticipa di due mesi l’inizio della pandemia nel nostro paese:

“non mi permetto di giudicare il suo appello a morire con dignità, ma proprio adesso che il Parlamento sta per affrontare la questione, credo che prima abbiamo il dovere di rivendicare il diritto a vivere con dignità, anche in questa condizione estrema. E sappiamo molto bene, lei ed io, come questo ci sia negato. La burocrazia ci uccide con le sue lentezze inesorabili, fingendo di ignorare che per noi contano i minuti, non i mesi.

Siamo la nazione europea in cui si spende di meno per sanità, e dove i servizi domiciliari praticamente non esistono. Se lei ed io fossimo ammalati in Germania lo Stato avrebbe adeguato a sue spese le nostre abitazioni, potremmo contare su tutto quello di cui abbiamo bisogno quotidianamente, e non parlo solo di presidi medici, ma anche, per esempio, di computer speciali per poter lavorare o anche solo passare il tempo; addirittura, lo Stato arriva a pagare il surplus di energia elettrica necessaria a far funzionare le macchine di cui abbiamo bisogno. Io credo che questa sia civiltà, un assicurare una vita dignitosa che non può non precedere l’assicurare una fine dignitosa. Senza quella, riconoscere il “diritto a morire” è semplicemente un modo di lavarsi le mani di noi e dei nostri problemi, sperando che togliamo in fretta il disturbo; una sorta di moderna Rupe Tarpea da cui gettare le persone ritenute inutili. Assicurarci il diritto a vivere con dignità costerebbe pochissimo considerato quanti siamo. Ma proprio perché siamo pochi, non contiamo, non valiamo, non siamo nulla. Siamo, appunto, già morti, e riconoscerci il diritto a morire è una grandissima, ipocrita comodità”.

Pochi giorni fa è tornato a scrivere per mettere in primo piano le difficoltà che il conflitto in Ucraina e il crescente aumento del costo dell’elettricità, e di altro ancora, sta provocando alle persone che si trovano nelle sue stesse condizioni. Ha sottolineato come tutti siamo chiamati a risparmiare là dove è possibile, ma ci sono cose “sulle quali nessun risparmio è possibile. Le disabilità sono tra queste, anche se credo che nessuno l’abbia presente”. Poi esprime il suo no a nuovi tagli sulla sanità, come da qualche parte si prospetta: perché questi andranno a ricadere sulle spalle dei disabili “con i soliti tagli feroci alle spese per l’assistenza domiciliare. Fondi già risicati, e che sono sempre i primi a venire falcidiati”. Da quelle macchine non può separarsi “è appesa la mia vita, e non è possibile spegnerle. O meglio sarebbe possibile, certo, e in questo modo si potrebbe ulteriormente risparmiare sui fondi dell’assistenza”.

Una seconda parola di questo alfabeto è disabilità

Una definizione: per l’OMS è “qualsiasi restrizione o carenza (conseguente a una menomazione) della capacità di svolgere un’attività nel modo e nei limiti ritenuti normali per un essere umano”. Per l’International Classification of Impairments, Disabilities and Handicap – ovvero la Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap pubblicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1980 a scopo di ricerca – si tratta di “scostamenti, per eccesso o per difetto, nella realizzazione dei compiti e nella espressione dei comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso…”

Ecco che disabilità viene subito accostata alla parola normalità, alla capacità di svolgere un’attività. Ma domandiamoci se sia giusto legare la lettura di questa situazione dovuta a una menomazione, alla capacità del fare. La disabilità, anch’io continuo a utilizzare questo termine e vi chiedo scusa, esiste da sempre, è compagna della nostra vita. Disabili erano Tutankhamon, Cesare, l’imperatore Claudio, Roosvelt, Churchill, Stalin. La disabilità è vista come una sorta di male da curare; e ancora oggi quel modo di percepire la fragilità o la menomazione di una persona è ben presente e spesso utilizzato anche per offendere.

C’è un termine che segna in modo chiaro la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità: abilismo. Termine nato nel mondo anglosassone alla fine degli anni 80 e viene attuato attraverso il linguaggio, gli atteggiamenti, la mancanza di leggi e qualsiasi comportamento non inclusivo.

La disabilità non è una malattia e la persona non è la sua disabilità. Dovremmo proprio partire da questo concetto per costruire un nuovo modo di approcciarci con queste persone. Spesso si usano espressioni pietistiche, o le narriamo quando fanno delle scelte di diversa natura – attività sportiva, pubblicazioni, o altre espressioni dell’intelligenza – attraverso un linguaggio come dire eroico. È una persona che va presa in considerazione per quello che ha e non per quello che non ha. E se il risultato ottenuto, l’atto compiuto è degno di citazione perché bello, ecco diciamolo senza aggiungere altro, senza dire: bello perché ottenuto da una persona disabile.

Nel narrare fatti e episodi spesso si usano termini quali: handicappato, affetto da disabilità o portatore di; ancora, diversamente abile. C’è poi tutta una terminologia che vorrebbe essere di attenzione, ma che invece è ancora più fastidiosa soprattutto per la persona di cui parliamo o a cui ci rivolgiamo: poverino, sfortunato, sventurato, infelice. Meglio persona con disabilità, con la sindrome di…

La cosa più importante da tenere a mente quando trattiamo questo tema, è che ci rivolgiamo, o parliamo, di una persona, con i suoi diritti e la sua dignità. Ua persona che non vuole, non cerca la pietà tout court.

Ma c’è una seconda possibilità di lettura della lettera D, ovvero dubbio. La pandemia non è ancora finita, anche se è abbastanza sotto controllo; la guerra nel cuore dell’Europa è ancora lì a dirci la stupidità di una scelta che porta con sé ferite dolorose, distruzioni e morte. Dubbio perché il nostro incipit – andrà tutto bene – ci sembra suoni falso; il futuro lo vediamo ancora incerto, ricco di incognite in una Europa, ma anche nel nostro paese, che fa fatica a far passare due concetti chiave: solidarietà e bene comune. Non sappiamo più bene cosa davvero significhino. E pensate quale preoccupazione ricade su coloro che vivono questo tempo nella fragilità e nella sofferenza. Papa Francesco – scusatemi ma il mio passato di giornalista vaticanista torna ad affacciarsi quando scrivo – il Papa ci ricordava, il 27 marzo di due anni fa, che non ci si salva da soli, c’è bisogno di condivisione, di solidarietà. Diceva Francesco: “avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta”; e guardando il crocifisso di san Marcellino al Corso a Roma, in quella preghiera in piazza San Pietro, ha aggiunto: “non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.

Non c’erano le folle quella sera in piazza San Pietro; forse, mai come in quei giorni quel vuoto desolante si è riempito da una folla di credenti e non credenti che hanno accompagnato il vescovo di Roma in tutti i suoi momenti di preghiera, grazie alla televisione e ai nuovi media. Francesco è ancora una volta solo, ma porta con sé tutta la sofferenza del mondo. La sua è la voce di uno che grida nel deserto, che chiede di guardare all’uomo, a tutto l’uomo e a ogni uomo, anche l’uomo, o la donna, sofferente; oggi è il Papa che chiede la fine del conflitto, di quella terza guerra mondiale a pezzi, come ha detto più volte. Per il Papa non è soprattutto il tempo della dimenticanza, il nostro, e per questo chiedeva, lo ha detto due anni fa, di conquistare un diritto fondamentale che non ci sarà tolto: il diritto alla speranza.

Ecco un’altra parola, anzi due, per il nostro vocabolario: egoismo indifferente. Le fitte tenebre della pandemia ci hanno resi ancora più chiusi; quel distanziamento sociale – termine che ho sempre contestato – si è impadronito delle nostre vite, ci ha fatto costruire una sorta di zona franca dove l’altro non è ammesso, se non in rarissimi momenti. Il conflitto tra Russia e Ucraina ha ridestato una paura che lentamente pensavamo di aver superato dopo la pandemia. E abbiamo mai pensato, guardato, alle persone chiuse nelle loro case o in qualche clinica o ospedale; ci siamo mai chiesti come vivono queste persone la loro fragilità.

E allora ecco un’altra parola: ricominciare. Già, ma come? Abbiamo vissuto un tempo sospeso e oggi ci troviamo a scegliere la strada da percorrere. L’immagine che qui mi piace ricordare è di un grande scrittore russo Lev Tolstoj che, nel libro “Il Regno di Dio è in voi”, descrivere con queste parole la verità: è come una lanterna nelle mani di un viandante, il quale “non vede ciò che la lanterna non rischiara ancora; non vede neanche la via percorsa e che è già ricaduta nell’oscurità; ma in qualunque luogo si trovi, egli vede ciò che è rischiarato dalla lanterna, ed è sempre libero di scegliere l’uno o l’altro lato della via”. Ecco abbiamo questa lanterna nelle nostre mani e nel ricominciare dobbiamo stare bene attenti alla strada da percorrere. I cambiamenti che abbiamo di fronte sono grandi e chiedono prospettive nuove: non possiamo voltarci indietro, ma la memoria di quanto abbiamo vissuto ci deve aiutare a compiere le scelte giuste. Come diceva Thomas Eliot ne “La rocca”: “in posti abbandonati noi costruiamo con mattoni nuovi. Dove le travi son marcite costruiremo con nuovo legname. Dove parole non son pronunciate costruiremo con nuovo linguaggio”.

Vogliamo ricominciare? Ma non si tratta di un ritorno al 2019, a prima della pandemia. La lanterna di Tolstoj che ci deve guidare facendoci mettere da parte i nostri egoismi e aprirci all’altro; dobbiamo riscoprire l’importanza di parole come solidarietà, condivisione, bene comune. Quando torneremo alla normalità – ecco sono caduto anch’io nella trappola di questa parola che aggiusta tutto – e allora chiediamoci cosa vuol dire normalità…

Forse dovremmo pensare a costruire parole nuove, a dare nuova luce a quelle già note: anche questo sarà un modo per non voltarci indietro e camminare invece in una prospettiva di cambiamento.

In questo alfabeto, l’ho pronunciata più volte, non poteva mancare la parola fragilità. Nel nostro immaginario collettivo la fragilità è associata alla parola debolezza. Certo è anche vero, ma pensiamo a quanta forza, a quanta volontà è necessaria per superare la situazione di fragilità. Torniamo per un attimo alla lettera del nostro collega che ho citato prima: quanta forza nelle parole che ha consegnato alla nostra lettura. Per lui, e spero non solo per lui, vale quanto afferma San Paolo: quando sono debole è allora che sono forte.

La fragilità, nel nostro mondo così convulso e ricco di stimoli, è associata alla mancanza di efficienza: fragile è chi non corre, non si muove con scioltezza; è il mito della perfezione, del non aver bisogno di un aiuto, dell’altro.

Un proverbio indiano narra di quattro stadi, quattro età, della vita dell’uomo. Il primo è lo stadio in cui si impara; il secondo è quello in cui si insegna e si servono gli altri; nel terzo si va nel bosco, il bosco profondo del silenzio, della riflessione, del ripensamento. Nel quarto stadio, si impara a mendicare; l’andare a mendicare è il sommo della vita ascetica, e il mendicante rappresenta lo stadio più alto dell’esistenza umana. È soprattutto la consapevolezza che si ha bisogno dell’altro, di avere accanto qualcuno che sia di aiuto.

La fragilità, dunque, è la nostra condizione umana. Ne facciamo esperienza sempre di più nella complessità delle relazioni. Fragili sono le relazioni personali e sociali. Fragili le parole che usiamo. Fragili sono le stesse democrazie, sotto la spinta di fenomeni eversivi, tra populismi e sovranismi. Fragili sono le persone…

Ma proprio perché è una condizione umana dobbiamo, noi giornalisti, essere attenti a come trattiamo il tema. Forse non ci rendiamo nemmeno conto, e, soprattutto, non lo facciamo con malizia, ma quando affrontiamo, ad esempio, nei servizi di cronaca, la questione dei falsi invalidi, ecco che rischiamo di mettere in cattiva luce anche le persone che vivono davvero e con dignità la propria condizione di disabilità.

Tutti conosciamo, o abbiamo visto in azione, Oscar Pistorius. Provate a digitare il suo nome e la prima frase che apparirà sul video del vostro computer vi stupirà: Pistorius, soprannominato “the fastest man on no legs” (il più veloce uomo senza gambe). Torna il concetto del superuomo, capace di stupire e di superare gli ostacoli nonostante la sua disabilità, che va menzionata, mentre dovremmo semplicemente mettere la persona al primo posto.

Infine, attenzione a quando ci rivolgiamo a una persona con disabilità: dobbiamo parlargli guardandolo, non avendo paura di dire espressioni che sono di uso comune e che, invece, omettiamo perché pensiamo che così non urtiamo la sua suscettibilità.

Permettetemi, infine, un ultimo veloce cenno alle nostre regole deontologiche, al Testo unico dei doveri del giornalista, in vigore dal primo gennaio 2021. Cito solo una parte dell’articolo 6 sui

Doveri nei confronti dei soggetti deboli. Informazione scientifica e sanitaria

Il giornalista:

a) rispetta diritti e la dignità delle persone malate o con disabilità siano esse portatrici di menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali, in analogia con quanto già sancito per i minori dalla «Carta di Treviso»;

b) evita nella pubblicazione di notizie su argomenti scientifici   un sensazionalismo che potrebbe far sorgere timori o speranze infondate avendo cura di segnalare i tempi necessari per ulteriori ricerche e sperimentazioni; dà conto, inoltre, se non v’è certezza relativamente ad un argomento, delle diverse posizioni in campo e delle diverse analisi nel rispetto del principio di completezza della notizia;

c) diffonde notizie sanitarie e scientifiche solo se verificate con fonti qualificate sia di carattere nazionale che internazionale nonché con enti di ricerca italiani e internazionali provvedendo a evidenziare eventuali notizie rivelatesi non veritiere;

d) non cita il nome commerciale di farmaci e di prodotti in un contesto che possa favorirne il consumo e fornisce tempestivamente notizie su quelli ritirati o sospesi perché nocivi alla salute.

Cito, infine, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, dove, all’articolo 2 si legge

per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo.

Nella Convenzione vengono elencati una serie di principi generali, e tra questi:

(a) il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone;

(b) la non discriminazione;

(c) la piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società;

(d) il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa;

(e) la parità di opportunità;

(f) l’accessibilità;

(g) la parità tra uomini e donne;

(h) il rispetto dello sviluppo delle capacità dei minori con disabilità e il rispetto del diritto dei minori con disabilità a preservare la propria identità.

Se vogliamo ricominciare davvero lasciandoci alle spalle la pandemia e, speriamo quanto prima, anche la guerra, recuperiamo quella lanterna e illuminiamo i nostri passi che siano nella prospettiva di un vero e profondo cambiamento che sappia accogliere l’altro nel rispetto della sua dignità e della sua libertà. Il senso della vita riguarda tutti e non può mai essere misurato e calcolato.

Permettetemi un’ultima citazione, una poesia di Montale del 1967. Quattro anni prima la morte della moglie Drusilla Tanzi, e il vuoto di questa mancanza l’affida a queste poche righe:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue”.