Intervista a Lamberto Rinaldi

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono due anni che partecipo al Premio Giornalistico Alessandra Bisceglia, conosciuto attraverso i social e il sito dell’Ordine dei Giornalisti. Grazie a questa partecipazione ho potuto conoscere non solo un concorso, ma anche un’associazione e tanti colleghi che svolgono con passione e determinazione il loro lavoro, parlando di temi spesso sottovalutati, facendo informazione e sensibilizzazione.

Ho deciso di partecipare per mettermi alla prova, innanzitutto, e per riflettere su quello che sto facendo. Partecipare al premio è stata infatti l’opportunità per guardare il mio operato, interrogarmi sui temi che affronto, sulle parole che uso, sull’impatto che possono avere i miei articoli. È stata una sfida bella, interessante ma soprattutto utile.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Secondo me sì, perché può spezzare il silenzio che ruota intorno a determinati argomenti, dare visibilità alle questioni sociali, informare, sensibilizzare ed educare a determinati temi. Un premio come il vostro, poi, ha il merito di creare una comunità, uno spazio di confronto e di condivisione, che può spingere a un diverso impegno professionale e non solo.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Quella con cui ho partecipato a questa edizione del premio, la storia di Maurizio Castelli, il portiere con la protesi che insegue i suoi sogni sul campo di calcio mi ha dato una carica e gioia inaspettata. La forza con cui Maurizio rispondeva alle mie domande mi è rimasta impressa, così come la sua tranquillità, la sua determinazione. Ma ce ne sono tante altre, storie nascoste, che rischiano di rimanere nell’anonimato e che invece meritano di essere raccontate: come Maurizio, che a Faleria, il mio paese, dopo aver perso tutto ha creato la bancarella di libri più piccola del mondo o la storia del Pineto United, squadra di richiedenti asilo di Roma Nord nata grazie alla passione e alla determinazione di tanti, uomini e donne. E poi la nazionale di pazienti psichiatrici, la “Crazy for Football” oppure Vincenzo, pescatore di uomini di Lampedusa. Siamo pieni di storie da raccontare.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Non so se esista una ricetta sicura, infallibile, per raccontare la sofferenza. Di certo penso che si debba raccontare con equilibrio e rispetto, mettendo al primo posto la dignità della persona o delle persone coinvolte, stimolando riflessioni e cercando l’empatia di chi legge, sì, ma senza perdere di vista l’equilibrio tra emozione e fatti

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Le barriere che ho incontrato, spesso, erano barriere che costruivo io stesso. Avevo timore di poter toccare ferite, cicatrici, momenti che era meglio non toccare. Forse l’ho fatto per inesperienza, per scarsa convinzione, ma come dicevo prima ho cercato sempre di mettere al primo posto il rispetto della persona e non inseguire il titolo, la notizia, il sensazionalismo a tutti i costi.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Secondo me sì, anche grazie all’evoluzione dei media, alla digitalizzazione e all’arrivo di nuove generazioni di giornalisti, più attenti e più vicini a determinate tematiche. Nel panorama giornalistico di oggi non esistono più solo le grandi piattaforme, i grandi giornali e le grandi agenzie, esistono anche blog, siti, spazi di informazione spesso gestiti dal basso, con progetti e idee diverse. Mi piacerebbe fare un nome, a questo proposito, di una giornalista che ho potuto scoprire proprio grazie al vostro premio: Simona Berterame, di FanPage. Le sue inchieste, i suoi video, la sua capacità di raccontare storie sia con le parole scritte che con le immagini, rappresenta bene una sensibilità nuova verso le tematiche sociali e non solo.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Le potenzialità dell’IA sono incredibili e possono tornare utili a diversi settori, anche a quello del giornalismo. Come tutte le cose, però, serve conoscenza, informazione, comprensione. Bisogna capire quali rischi si corrono per quanto riguarda la qualità e l’accuratezza dell’informazione, l’utilizzo di dati personali, la diffusione di fake news, di immagini e video manipolati. Non ultima, poi, c’è la questione posti di lavoro. Rimane però uno strumento che può essere veramente un valore aggiunto per la nostra professione. Basta saperlo conoscere e usarlo nella maniera corretta.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Sono due i motti a cui mi rifaccio per provare a essere, innanzitutto io, un buon giornalista. Il primo è di Gianni Mura: “Saper fare un uovo in padella non fa di me uno chef”. Il secondo è “Andare, guardare, cercare di capire, raccontare”. Con il tempo di internet tutti possono essere giornalisti, scrivere articoli, riportare notizie. Per farlo in maniera vera, positiva, bisogna avere spirito critico, bisogna uscire, non restare incollati a uno schermo, scavare e svelare, ascoltare e cercare. Solo così le storie, le persone, i luoghi, saranno raccontati in maniera vera.