Intervista a Cristina Da Rold

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

Sono a conoscenza del premio da qualche anno, credo di averlo saputo navigando in rete, o tramite social media. Ho inviato un mio lavoro perché mi sembra che l’impegno della vostra associazione sia in linea con il mio impegno personale come giornalista sanitaria nel cercare di fare buona informazione.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Per dare una risposta seria bisognerebbe disegnare uno studio che misuri questo impatto 🙂 Non me ne sono mai occupata, quindi posso limitarmi a dire che le testimonianze, l’esempio sono forse la strada principale per diffondere buone pratiche. Questo mi sembra facciate con l’associazione, e non può che essere una goccia che va nella direzione giusta.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ho curato a lungo una rubrica che si intitolava VitePazienti, che raccontava le storie di chi viveva la malattia propria o di un parente da vicino. Una storia estremamente dolorosa per me è stata quella di una madre che perse il figlio di 10 anni per una malattia mitocondriale. La voce di quella mamma era tutto nel mio racconto, e non sapevo come rendere l’atrocità che io sentivo. Ne sono uscita piangendo duramente e non so se sono riuscita a rendere ciò che volevo. È stata un’esperienza per me indimenticabile.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Io nel mio piccolo cerco di raccontare il dolore che la persona ha piacere di condividere senza raccontare questo dolore in terza persona, come un romanzo, ma sempre in prima persona, usando il virgolettato, lasciando che la persona si legga, che non venga letta. Non so se ci riesco.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Le uniche barriere che ho incontrato sono le mie: talvolta per motivi personali – periodi miei particolarmente difficili  per esempio in termini di malattie in famiglia – ho rinunciato a raccontare delle storie perché triggeravano troppo di me. Ma è capitato solo qualche volta, per il resto mi sono forzata, ho provato ad andare oltre me, e quelle volte ho scoperto quanto le storie, la condivisione, andare dentro il dolore che sembra inaffrontabile, sia alla fine una terapia.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Dipende dal giornale, dal giornalista. Alcuni giornali – penso ad Avvenire in primis – lo fa benissimo, raccontando fenomeni, storie di gruppo, non solo le storie individuali, che riempiono molto di più i nostri media.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Dipende. Per noi semplici giornalisti può essere un aiuto nel maneggiare grandi quantità di dati, ad esempio, o per svolgere compiti lunghi e noiosi permettendoci di concentrarsi sul dialogo con le persone a cui vogliamo dare voce, o sul senso che secondo noi i dati hanno. È un rischio demandare tutto il copy e la pubblicità all’IA (ma questo già non è giornalismo). L’IA può aiutare a fare sintesi, a darci una prima bozza, ma non a interpretare. Il rischio non è insito nell’IA: lo creano coloro che pensano l’informazione e decidono quanto spazio dare a questi sistemi.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Dare voce a chi non ce l’ha, per denunciare ingiustizie, abuso di privilegi e le conseguenze che ancora non vediamo di queste dinamiche sulla base della piramide.