Intervista a Enrico D’Amo

1. Come hai saputo del Premio e perché hai deciso di partecipare?

La Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia, del cui ultimo biennio di formazione sono stato allievo, è sempre stata sollecita nel segnalarci iniziative – ancora poche, purtroppo – che promuovessero e valorizzassero il lavoro di giovani giornalisti praticanti. Quando sono venuto a conoscenza del bando di concorso del premio intitolato alla memoria della collega Alessandra Bisceglia, scomparsa alla stessa età che ho io oggi, avevo da poco terminato la stesura di un articolo-intervista sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale nel contrasto alle malattie rare. Pur nella sua brevità, si tratta di un lavoro che, per la delicatezza del tema, mi ha impegnato per alcune settimane, e mi ha da subito stimolato l’idea che la sua diffusione – grazie al premio – potesse trascendere la platea circoscritta di lettori del sito della Scuola, per cui era stato scritto.

2. Un Premio Giornalistico può realmente sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche sociali?

Sicuramente sì. Qualsiasi iniziativa atta a promuovere il lavoro giornalistico capace di accendere l’opinione pubblica su tematiche sociali – Premi Giornalistici in primis, e specialmente se indirizzati anche ai giovani esordienti nella professione – non può che essere incoraggiato, in quanto contribuisce alla sensibilizzazione su questi temi.

3. Qual è la storia che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Ritengo di dover ammettere che la mia esperienza giornalistica è ancora troppo giovane per poter vantare il racconto e la condivisione di storie che mi abbiano segnato o che possano aver segnato i lettori. È pur vero che quando mi sono trovato a dar voce alla parabola esemplare di David, da vittima di gravi disturbi alimentari a promotore e animatore di iniziative di sensibilizzazione e prevenzione in materia di DCA, sono rimasto profondamento colpito dalla tenacia con cui un ragazzo poco più che ventenne ha saputo rialzarsi e, soprattutto, dalla lucidità e generosità con cui ha scelto di condividere con me un capitolo così delicato del suo passato.

4. Esiste una ricetta per raccontare la sofferenza con oggettività?

Nel corso dei miei lunghi studi rigorosamente umanistici mi è stato insegnato che, almeno in ambito letterario, il puro realismo è un’illusione, e che è possibile tuttalpiù una rappresentazione della realtà. Ritengo che questo principio debba applicarsi anche e soprattutto alla sofferenza, il più soggettivo dei nostri stati emotivi. È pensabile rendere oggettivo e universale, di collettiva accessibilità, qualcosa che non solo è soggettivo per definizione, ma spesso criptico e indecifrabile per il soggetto stesso? La cosa più importante, a mio avviso, è dare alla sofferenza dignità di racconto, non censurarla, con la sensibilità e l’accortezza dovute, sforzandosi di non lasciarsi deviare da un coinvolgimento emotivo e lasciando che la sofferenza alimenti da sé il racconto di se stessa.

5. Hai mai incontrato barriere nel raccontare la sofferenza? Se sì, di che tipo?

Di nuovo, temo che la mia esperienza circoscritta nel racconto giornalistico non mi consenta di rispondere in maniera del tutto consapevole. Quello che mi sento di dire è che anche laddove mi è capitato di avere la sensazione, se non il timore, di stare violando con il mio racconto della sofferenza altrui una sfera personale e protetta, sono stato rassicurato – finanche incoraggiato – nel mio compito di raccontare dalla genuinità e generosità di chi, la propria sofferenza, aveva scelto di condividerla con me, come fosse consapevole che il profitto che da quel racconto sarebbe derivato – a sé e ad altri – era superiore e più significativo del disagio provato nel raccontarla.

6. Il giornalismo moderno dà un adeguato spazio alle tematiche sociali?

Mi sento di rispondere convintamente di sì, seppur forse con un filo di ottimismo. Le nuove nascenti forme del giornalismo e della divulgazione contemporanei si dimostrano particolarmente sensibili in questo senso, segnalandosi per approfondire con i propri fruitori temi di evidente rilevanza sociale. Inoltre, a nutrire il mio confessato ottimismo e a convincermi che queste tematiche siano destinate a conquistare sempre di più lo spazio che meritano nel racconto dei media, vi è il comprovato interesse di lettori e consumatori dell’informazione, soprattutto tra i più giovani, perché i temi sociali siano ancor più significativamente fatti oggetto di analisi e trattazione giornalistica, al pari di quelli di ordine politico o economico.

7. L’utilizzo della intelligenza artificiale nel giornalismo è un valore aggiunto o un rischio per la comunicazione sociale?

Come per la maggior parte delle cose, dipende dall’uso che se ne fa. Anzitutto una premessa: l’intelligenza artificiale – è sotto gli occhi di tutti – è già uno strumento al servizio dell’attività giornalistica, sia per quanto riguarda la raccolta delle informazioni sia per la loro elaborazione e distribuzione. Sofisticati software sono ormai in grado di scrivere in una manciata di secondi un testo che, per quanto perfettibile, richiederebbe a un giornalista qualche ora del suo lavoro. Tuttavia nella comunicazione sociale, probabilmente più che in qualsiasi altro ambito, risulta evidente come il valore di una singola storia non possa essere derubricato dalla tecnologia a semplice caso statistico, ma debba essere restituito nella sua complessità e unicità dal contributo originale e creativo della figura giornalistica.

8. Che significa, secondo te, essere un buon giornalista?

Si potrebbe rispondere in un migliaio di modi diversi e non arrivare comunque a una definizione soddisfacente. Un buon giornalista, di certo, è colui – o colei – che ha ben chiaro che il proprio lavoro non è finalizzato a un beneficio personale, bensì a un profitto collettivo della società. In quest’ottica, predilige chiarezza ed essenzialità a virtuosismi di stile e si sforza di raccontare criticamente e con rigore il presente che lo circonda.