Abilità e disabilità, tra vicinanza, libertà e diritti – Fabio Zavattaro

FABIO ZAVATTARO – Direttore scientifico del Master di Giornalismo della LUMSA Master School

Siamo giornalisti che vivono di parole; ho apprezzato molto Vincenzo Morgante che ha parlato di un “lavoro francescano”, cioè di quella umiltà che deve accompagnare il nostro mestiere. Umiltà che significa anche capacità di sapersi correggere quando pronunciamo frasi non utili, quando pronunciamo parole che possono colpire. Vero, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola è scritto nella nostra Costituzione: nell’articolo 21 abbiamo quella strada che è pronta per noi, ma che prevede degli ostacoli nella sua realizzazione perché non possiamo offendere, non possiamo dire cose false. L’Ordine è stato molto valido nel prevedere Carte che in qualche modo hanno cercato di regolare tutto, di regolare i temi, le attenzioni, di regolare soprattutto la capacità di raccontare senza offendere, senza colpire le persone. Quindi, giornali e giornalisti, abbiamo un compito molto molto molto, e lo ripeto tre volte, importante perché in un tempo in cui regnano le fake news abbiamo l’obbligo e il compito di fare chiarezza, di raccontare senza per questo stravolgere, senza modificare i concetti. Allora il tema di rivolgerci alle persone che vivono una difficoltà, che sono ferite nel corpo, in qualche modo ha bisogno di un’attenzione in più. Noi invece – ma lo facciamo “senza cattiveria”, passatemi questo termine- quante volte impropriamente usiamo la parola “handicappato”, quante volte ci rivolgiamo a una persona che magari ci ha tagliato la strada, che ci impedisce di andare avanti apostrofandola in questo modo? Perché in fondo siamo vittime di un abuso di certi termini. Dobbiamo invece riscoprire il senso della parola vera, riscoprire il concetto di raccontare con verità senza occultare le notizie. A me piace sempre ricordare -un po’ perchè la mia attività è stata legata all’attività dei Pontefici- un passaggio di Benedetto XVI che quando si è recato nel 2009 a Piazza di Spagna per la devozione alla statua della Madonna, disse: “Nella città vivono – o sopravvivono – persone invisibili, che ogni tanto balzano in prima pagina o sui teleschermi, e vengono sfruttate fino all’ultimo, finché la notizia e l’immagine attirano l’attenzione. E’ un meccanismo perverso, al quale purtroppo si stenta a resistere. La città prima nasconde e poi espone al pubblico. Senza pietà, o con una falsa pietà. C’è invece in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto”.

Noi giornalisti, spesso, quando affrontiamo questi temi cadiamo in questo meccanismo e non siamo capaci di renderci in grado di raccontare al meglio queste cose. Allora proviamo a riflettere un po’ su quello che si può e non si può dire. Non ci rendiamo conto che a volte feriamo le persone con le nostre parole, usiamo linguaggi che invece dovremmo preoccuparci di non utilizzare. E allora, proviamo a capire un po’ quali sono questi termini, secondo me, giusti da utilizzare nei nostri racconti. Ecco, direi che il termine “handicappato” sarebbe meglio non utilizzarlo perché in realtà questo significa subito spostare l’attenzione su un altro termine, “disabile”, come sostantivo che in qualche modo nasconde la persona, e il disabile già di per sé è un titolo, non è l’uomo che ha una disabilità.

Poi perché disabilità? È una persona che vive di una malattia, di una incapacità e disabilità-abilità, come vedete, sempre sono termini legati a una capacità di essere, una capacità di manifestarsi verso l’altro, eppure queste persone spesso hanno una abilità diversa, hanno una abilità maggiore rispetto a quella che le cosiddette “persone normali” a volte hanno, e questo secondo me è uno degli aspetti da tenere presente. Quindi attenzione anche alle parole che a volte vengono utilizzate, “anormale”, “anormalità”: bruttissimi termini.  La persona va considerata come tale, come persona, non è un qualcosa da offrire così, come diceva papa Benedetto, alle cronache per poi rimetterla subito nel dimenticatoio. Può capitare a tutti, non è difficile che magari una situazione si possa ripetere anche per le nostre persone; quindi innanzitutto il rispetto dell’altro. Grande attenzione anche alle immagini perché le immagini possono aiutare a far capire, ma possono anche offendere e colpire le persone.

Il nostro è un mestiere bellissimo, è un mestiere che ci permette di raccontare e di essere accanto alle persone. “Essere accanto alle persone” significa essere capaci di accompagnare ciò che noi vediamo senza creare cortocircuiti, senza ferire, senza far provare una pietà. La vecchia espressione è che la lacrima crea audience (parlo della televisione, ovviamente, ma non solo della televisione), è qualcosa che dobbiamo accantonare; cerchiamo di essere rispettosi della persona. Se noi possiamo raccontare senza ferire, se possiamo raccontare senza dover colpire nella capacità del singolo di essere accanto a noi, se noi riusciamo a ragionare in termini corretti utilizzando parole giuste, utilizzando termini che ci consentono di essere rispettosi e di rispettare anche la verità della comunicazione cominciamo un grande-grande-grande lavoro.

Dobbiamo avere una capacità più grande di essere persone che raccontano e che rispettano. Non si dicono mezze verità, ma si dicono verità e le verità hanno le parole giuste, hanno termini giusti, hanno quel modo di essere incisivi senza per questo ferire. Mi ricordo il mio primo direttore, di una piccola agenzia, che aveva un’abitudine molto bella: conservare dietro la sua sedia alcuni cestini in cui c’erano i nomi dei suoi collaboratori, dei suoi giornalisti. In quel cestino finivano gli articoli in cui avevamo male compreso cosa ci era stato chiesto, ma anche quelli in cui utilizzavamo termini che non andavano utilizzati. E quando sprecavamo le parole, quel direttore amava ricordarci alcune parole del Carducci: “l’uomo che per dire una cosa di cinque parole ne usa venti, lo ritengo capace di male azioni”.

Ecco, noi dovremmo essere capaci di raccontare in cinque parole, senza ferire, senza compromettere la notizia, ma soprattutto rispettando l’altro che ci è accanto e che ci accompagna in questo nostro breve pellegrinaggio su questa terra.

 

 

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