Intervista a Andrea Lattanzi

Andrea Lattanzi (Carrara, 1987), è un giornalista pubblicista e videomaker che lavora e vive a Milano. Laureato in Scienze della Politica e dei Processi Decisionali si occupa di realizzare contenuti video e documentari per il Gruppo Gedi, in particolare per i siti di Repubblica e La Stampa. Autore del saggio “Librai: si salvi chi può” (GoWare) sulla trasformazione dei mestieri legati all’editoria tradizionale, ha pubblicato nel 2018 il libro “Eravamo tanto amati”, dal quale è tratto l’omonimo documentario sulla fine del Partito Comunista Italiano in Toscana. Appassionato di scienza e viaggi, è tra i fondatori dell’associazione GvPress, che tutela il lavoro dei giornalisti videomaker in Italia.

 

  1. È una sfida partecipare a un Premio Giornalistico di un tema così specifico?

Assolutamente sì. Difficilmente partecipo a premi ma visti gli oggetti e le finalità del premio Bisceglia, più che una sfida, partecipare è un piacere.

  1. Qual è la storia o il caso che hai raccontato che ti ha segnato di più?

Se parliamo di temi legati alla sanità, sicuramente è stato il lungo travaglio dei primi pazienti covid del marzo 2020, in particolare di coloro che, anche a mesi di distanza dalla malattia, non hanno recuperato al 100% e fanno fatica a riprendersi la loro vita. Più in generale, il caso che mi ha segnato maggiormente è quello legato alla rotta balcanica dell’informazione che ho avuto occasione di raccontare in una serie di servizi e in un documentario che ho realizzato a gennaio di quest’anno.

  1. Cosa può e/o deve essere oggetto di informazione?

Tutto ciò che interessa al giornalista in quanto individuo e tutto ciò che interessa al pubblico in quanto audience. Un fatto, se non c’è nessuno disposto a raccontarlo o farselo raccontare, non sarà mai oggetto di informazione. Altresì, laddove vi sia un giornalista e qualcuno disposto ad ascoltarlo. 

  1. La Comunicazione Sociale è un tema che trova spazio sulle testate?

Sì, ma purtroppo la sua presenza è troppo legata a contingenze di attualità. Pertanto si rischiano semplificazioni dettate da tempi di pubblicazione e necessità di messa in onda.

  1. Quali gli effetti dei Mass Media e New Media sulla comunicazione sociale?

Da un lato c’è sicuramente l’amplificazione e la possibile maggior risonanza dei suoi oggetti, dall’altro il rischio è – soprattutto con i nuovi media – che questi oggetti diventino oggetto di scherno, odio, discriminazione. I nuovi media non solo servono a raccontare qualcuno ma ci raccontano chi siamo. E non sempre questo racconto ci fa propriamente onore.

  1. Esistono parole “giuste” per trattare la Comunicazione?

Una parola è una parola, dipende sempre da chi e come viene utilizzata. Senza entrare nel dibattito sul “politicamente corretto” io penso che prima di tutto vengano le finalità con cui una parola è utilizzata. Può sembrare una logica relativistica, e forse lo è, ma riguarda a spettro più ampio il tema della responsabilità: quando si comunica si deve essere in grado di assumersi il peso delle conseguenze di ciò che si dice. Nel bene o nel male.

  1. Le notizie da divulgare e raccontare devono essere sempre nuove?

Assolutamente no. So che la deontologia presupporrebbe il contrario, nella canonica definizione di notizia, ma con i continui aggiornamenti che si ricevono ogni giorno grazie a Internet è bene che ci sia qualcuno che approfondisca e curi una notizia anche tempo dopo, guardando magari ad altre sfaccettature. L’importante è non spacciare come nuova notizia una notizia che nuova non è. E in questo, soprattutto sui social, le testate non sono particolarmente attente, dimostrando scarso rispetto per i loro lettori e gli utenti di tali social.

  1. Le testate, oggi, secondo te sono prodotti commerciali o servizi pubblici?

La domanda è molto difficile e richiederebbe una risposta molto complessa e, forse, oltre le mie competenze. Diciamo che le testate sono vincolate dall’ecosistema dei media (Internet+radio+tv+carta stampata) a essere un prodotto commerciale competitivo per assicurarsi accessi/vendite e quindi poter rivendere dati/spazi agli inserzionisti pubblicitari. Questo non preclude la possibilità di essere anche un servizio pubblico, o meglio di fare servizio pubblico ma, chiaramente, vincola molto lo sviluppo di tematiche di scarso richiamo immediato che richiederebbero tempi di fruizione maggiore con meno possibilità di introiti pubblicitari. Se poi si pensa che anche “il” servizio pubblico per eccellenza, cioè le emittenti che fanno capo alla televisione di stato devono, in qualche modo, sottostare a certe logiche, allora si capisce bene quando l’ago della bilancia penda nettamente più a favore del prodotto commerciale che del servizio pubblico.

  1. Che significa essere un buon giornalista?

Raccontare un fatto, una storia o un fenomeno sociale al meglio delle proprie possibilità e con gli strumenti di cui si dispone, attenendosi per quanto possibile a una verità oggettiva ma non disdegnando l’interpretazione di quanto si cerca di portare all’attenzione del pubblico. Pubblico che, però, deve essere messo al corrente di tale interpretazione.

  1. Come sei venuto a conoscenza del Premio?

Tramite social media.

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